Luisa Brucale
Università di Palermo
Da febbraio, da quando cioè le vite di tutti noi sono state attraversate dalla pandemia, le parole Coronavirus, COVID e SARS sono entrate nel nostro lessico, con diversi livelli di diffusione.
A differenza di altre parole appartenenti al lessico specialistico della medicina, le prime due sono note a tutti, senza le consuete differenze e disparità dovute all’età, alla condizione socio-economico-culturale dei parlanti, al tipo di competenza/esperienza posseduta. Se infatti parole come cupololitiasi, canalolitiasi, VPPB o BPPV (vertigine posizionale parossistica benigna/benign paroxysmal positional vertigo) o BCO (broncopatia cronica ostruttiva) sono contenute nel lessico mentale di pochissimi individui, di solito medici/infermieri/pazienti o parlanti particolarmente consapevoli, coronavirus e COVID, dalla metà del mese di febbraio, sono presenti e attive nel vocabolario di base di tutti, bambini, adulti e anziani, ricchi e poveri, laureati e appena alfabetizzati.
Di SARS, invece, avevamo già sentito parlare nel 2002, quando in 17 paesi del mondo una decina di migliaia di persone contrassero una malattia respiratoria molto grave che causò circa ottocento morti.
Ma da dove vengono le parole coronavirus, COVID e SARS? Come si sono formate? Che cosa sono dal punto di vista morfologico?
La prima parola è un composto, cioè è il frutto dell’unione di due parole autonome delle quali una designa la classe ontologica (e la parte del discorso) del referente (la sua ‘testa’), ci dice quindi che cos’è il referente, e in questo caso il referente è un virus, l’altra fornisce ulteriori informazioni sul referente, e in questo caso ci dice che è un virus del tipo ‘corona’ (il cui nome più specifico e tecnico è SARS-CoV-2).
L’italiano, di solito, pone a sinistra la testa del composto e a destra il suo modificatore, come in pescespada e carro attrezzi, altre lingue, come l’inglese, invece, invertono l’ordine dei due elementi, come in swordfish e tow track (le parole inglesi per pescespada e carro attrezzi, rispettivamente).
Ricorderete che specialmente all’inizio della pandemia oltre a coronavirus ha circolato anche virus corona (così, per esempio, Giorgio Agamben), che, appunto, cambia solo l’ordine dei due costituenti, adeguandosi alle regole morfologiche più produttive in italiano. Mentre, quindi, virus corona è una parola tutta italiana, coronavirus ha invece una struttura tipica dell’inglese, ed è questa la versione che ha prevalso relegando l’altra nella periferia.
COVID e SARS, a loro volta, sono due acronimi (o sigle), ovvero due parole costruite mettendo insieme le lettere o le sillabe iniziali di più parole. Per quanto riguarda la grafia, un acronimo è normalmente scritto in vari modi: tutto maiuscolo (OGM, Organismi Geneticamente Modificati), più resistente nei testi tecnici e scientifici, con la maiuscola della lettera iniziale (Ogm), più frequente per le sigle molto usate e nei testi non tecnici. Nel lessico delle lingue alcuni acronimi, nel tempo, non vengono più percepiti dai parlanti come parole in un certo senso ‘artificiali’, costruite a tavolino nel modo appena descritto, ma invece come parole ‘autentiche’, come nei casi di modem (Modulator-Demodulator), laser (Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation), radar (Radio Detection And Ranging), ufo (Unidentified Flying Object), tutte di genere maschile. Un segno evidente, nello scritto, di questa mutata percezione è che queste parole vengono frequentissimamente scritte tutte in minuscolo, come nei casi appena citati.
Come quasi tutti ormai sappiamo, COVID è la variante abbreviata di COVID-19, l’acronimo dell’inglese Corona Virus Disease 2019, usato sia al maschile che al femminile, con una fluttuazione che oltre che negli acronimi di formazione straniera si osserva frequentemente anche nei prestiti (una/un mail, una/un tequila, una/un pen-drive).
Anche SARS è un acronimo di formazione straniera (Severe Acute Respiratory Syndrome), sempre accordato al genere femminile, probabilmente assegnato in base all’associazione con il genere della parola che ne traduce la ‘testa’ (syndrome ‘sindrome’ o ‘malattia’).
La diffusione nel lessico degli italiani di Coronavirus, COVID, e SARS è mutata nel tempo?
Ribadisco, qui, un fatto già osservato da Maria Napoli, in un articolo del 17 luglio pubblicato su Linguisticamente: “le lingue parlate nel presente e nel passato appartengono all’uomo, sono legate alla sua attività, ed essendo il cambiamento connaturato a tutte le cose umane, anche le lingue di conseguenza sono soggette a non rimanere sempre uguali”.
Nel caso che stiamo esaminando il cambiamento di cui parliamo avviene proprio al livello del lessico. Mi preme sottolineare qui che esiste, quindi, una connessione forte tra la frequenza dell’uso di una parola, quindi la probabilità che un parlante la usi nei suoi discorsi e nei testi scritti, e l’impatto che ha sulla società l’entità che questa parola designa.
Come ci racconta più diffusamente Claudio Iacobini, nel 1980, Tullio De Mauro, pubblica il fortunatissimo Guida all’uso delle parole; l’appendice, curata con la collaborazione di Stefano Gensini ed Emilia Passaponti, contiene il Vocabolario di base dell’italiano (aggiornato nel 2016 nel Nuovo vocabolario di base della lingua italiana), un elenco di parole, progettato per lo più secondo criteri statistici per rappresentare quella parte del lessico dell’italiano che viene usata e compresa dalla maggior parte delle persone che l’italiano lo parlano.
In uno dei saggi contenuti in quel libro De Mauro raffigura il lessico di una lingua come una grande sfera stratificata. Nello strato più esterno, più lontano dal centro, troviamo esempi di parole solitarie che si incontrano una sola volta nei testi (hapax) ed esempi di parole appartenenti a linguaggi specialistici e che quindi si trovano solo nelle produzioni scritte e parlate di particolari categorie. In quello più interno troviamo il cosiddetto vocabolario comune, che contiene anche parole di linguaggi specialistici o di aree geografiche specifiche che però circolano anche al di fuori dell’area di origine. Il vocabolario comune a sua volta rappresenta l’involucro esterno di uno strato più profondo: il vocabolario di base, ulteriormente articolato in vocabolario fondamentale, di alto uso e di alta disponibilità. Nella selezione delle parole gli studiosi hanno tenuto conto di due criteri fondamentali: la loro frequenza assoluta e la loro disseminazione in testi di tipo diverso. Rimando all’articolo di Iacobini per una descrizione accurata di questi strati e per la loro esemplificazione.
Dal momento che il lessico di una lingua è un insieme aperto, un contenitore di fatti dinamici, per questa ragione nel tempo l’inventario delle unità di base che lo costituiscono muta al mutare dei fenomeni sociali e culturali che acquisiscono centralità nel quotidiano degli umani.
Se la raccolta di dati utile alla compilazione del Vocabolario di base fosse fatta in questi mesi, dove si collocherebbero le parole oggetto di questa piccola riflessione?
Probabilmente Covid e Coronavirus si troverebbero al centro della sfera demauriana, nello strato che contiene il lessico frequentissimamente utilizzato da tutti i parlanti della nostra lingua. Diversa, invece, la sorte di SARS. Pure quella malattia era causata da un coronavirus, ma dal momento che l’impatto sulle vite degli esseri umani è stato meno rilevante per l’Occidente di quello causato da Covid 19 (niente lockdown, nessuna misura di prevenzione imposta come urgente, un numero di decessi di molto inferiore, ecc.), la durata della fase acuta della malattia minore e quel virus si è effettivamente estinto in un paio d’anni, né SARS né coronavirus sono entrati nel vocabolario corrente degli italiani a quel tempo.
Naturalmente quello che dico qui si basa sulle mie impressioni e andrebbe verificato con una ricerca specifica: non è semplice, infatti, prevedere in quale strato della sfera demauriana potremmo collocare SARS. Se rimanga nello strato più esterno, quello dei termini tecnico-scientifici, o se invece sia transitato almeno nel lessico di alta disponibilità. Un’idea, grossolana, e utile solo ad avere uno sguardo d’insieme sulle produzioni scritte, ce la si fa con una ricerca generica su Google, attraverso la quale, il 29 ottobre (data in cui è stato rivisto questo articolo) scopriamo che alle entrate ‘Coronavirus’ e ‘Corona virus’ (scritti anche spesso in minuscolo) corrispondono complessivamente 3.014.000.000 risultati, a ‘Covid’ (anche in questo caso spesso senza la maiuscola iniziale) 5.780.000.000 (numero che cresce se si aggiungono alla ricerca anche le varianti ‘Coviddi’ e ‘Covidi’) e a ‘SARS’ (quasi sempre tutto in maiuscolo) 161.000.000. Parliamo di miliardi per i primi due e di più di un centinaio di milioni per il secondo. Confrontando poi quest’ultimo con quello che otteniamo cercando ‘VPPB’ e ‘BPPV’ (2.051.000) la frequenza molto più alta di ‘SARS’ è appariscente.
Dovremo aspettare una nuovissima versione del vocabolario di base per capire se le ipotesi che faccio qui abbiano un senso collocabile al di fuori dello hic et nunc. Nel frattempo, però, sarebbe bellissimo se gli eventi del nostro futuro prossimo costringessero queste parole a una brusca marcia indietro che le ricacci nella periferia estrema da cui provengono.
Per approfondire
De Mauro, Tullio. 1980. Guida all’uso delle parole. Roma: Editori Riuniti [ristampato nel 2019 per Laterza, Roma/Bari].
Grossman, Maria & Franz Rainer (a cura di). 2004. La formazione delle parole in italiano. Tübingen: Niemeyer [ristampato nel 2013 per De Gruyter, Berlino].
Scalise, Sergio & Antonietta Bisetto. 2008. La struttura delle parole. Bologna: il Mulino.
Thornton, Anna M. 2003. L’assegnazione del genere ai prestiti inglesi in italiano. In Anna-Vera Sullam Calimani (a cura di), Italiano e inglese a confronto. Atti del convegno “Italiano e inglese a confronto: problemi di interferenza linguistica” (Venezia, 12-13 aprile 2002), 57-86. Firenze: Cesati.
Thornton, Anna M. 2003. L’assegnazione del genere in italiano. In Fernando Sánchez Miret (a cura di), Actas del XXIII CILFR, vol. I, 467-481. Tübingen: Niemeyer.
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