Elena Sofia Safina
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Non è semplice rispondere a questa domanda, o perlomeno non esiste una sola risposta valida. Innanzitutto, come sottolinea il precedente articolo di Silvio Cruschina comparso su Linguisticamente, lo hate speech, o linguaggio d’odio, è un fenomeno avvolto da una folta nube di indeterminatezza che, in quanto tale, richiede al linguista una macchinosa fatica interpretativa. Le sue forme sono tante, forse troppe, e ognuna si allontana dalle altre a tal punto da impedire a chi lo studia una ferma risolutezza nel poter sentenziare: “Sì. Questo è odio”. Per comprendere immediatamente l’abilità nel trasformismo linguistico di cui è capace il linguaggio d’odio (e quindi il suo mandante, l’odiatore o hater) è sufficiente dare uno sguardo ad alcuni esempi tratti da una raccolta di tweet indirizzati contro la comunità LGBTQ+:
La mia solidarietà a #Fontana. Sono omosessuale (non gay nel senso di appartenente al movimento lgbt) e ritengo che i bambini abbiano diritto a un papà e una mamma. Per i capricci non fate come Vendola, compratevi un cane.
TUTTI MEDICI QUI…. e poi sono pro omosessuali….. FATE PACE CON IL CERVELLO!
Apparentemente non c’è alcun attacco manifesto, alcun incitamento all’odio, alcun discredito diretto della persona LGBTQ+. Eppure, anche l’odio, come il diavolo, si annida nei dettagli, in questo caso, negli impliciti linguistici: nel capriccioso desiderio omosessuale di avere una famiglia, o nell’annoso tormentone dell’omosessualità come malattia contagiosa, la cui diffusione dovrebbe essere monitorata e combattuta da qualsiasi medico.
Questi e tanti altri esempi compongono il corpus TWEER, una raccolta di ben 5660 tweet in lingua italiana, sia in favore che contro le persone LGBTQ+. Il nome del corpus vuole richiamare per assonanza il termine queer, il quale, nel caso specifico della lingua italiana, svolge la funzione di termine ombrello per indicare tutti gli individui che non si identificano nell’orientamento eterosessuale e nell’identità cisgender, dunque tutte quelle categorie presenti nella sigla LGBTQ+; nella sua accezione originaria, il termine include però anche tutte le persone che intendono presentare un’opposizione politica a qualsiasi forma di categorizzazione sociale. A livello temporale, il corpus TWEER presenta due blocchi: il primo contiene tweet relativi ai mesi di giugno e luglio del 2018 (i cosiddetti Pride months); il secondo gruppo contiene invece i tweet raccolti nei mesi di marzo e aprile 2019 (periodo in cui si è svolto a Verona il Congresso Mondiale delle famiglie). Sono stati scelti questi particolari periodi in quanto possibili incentivi per il dibattito sul tema LGBTQ+ su Twitter.
A ciascuno di questi testi è assegnata un’etichetta che descrive il tipo di incitamento all’odio espresso nel messaggio, nonché la sua intensità, più o meno alta in base al danno percepito dalla vittima. Tuttavia, prima ancora di decidere se un testo consiste linguisticamente nell’incitamento all’odio, è bene che il linguista metta in pausa provvisoriamente la sua competenza tecnica per dedicare del tempo alla comprensione profonda del fenomeno dell’omotransfobia.
Secondo il giurista e accademico Daniel Àngel Borrillo, l’omofobia, che oggi giustamente rinomiamo omo-trans-fobia, non è soltanto l’ostilità psicologica e sociale nei confronti del desiderio sessuale presente tra due individui dello stesso sesso; bensì, il rifiuto delle persone che non si conformano al ruolo sociale assegnato loro insieme al sesso biologico al momento della nascita. Allo stesso tempo, al sentimento ostile si aggiunge la promozione delle giuste pratiche sessuali (etero) a scapito di altre (omo), andando a creare, di fatto, una gerarchia delle sessualità, che inevitabilmente porta con sé delle precise conseguenze politiche. La lingua sintetizza efficacemente queste particolari manifestazioni omotransfobiche nei termini ‘eterosessismo’ ed ‘eteronormatività’, dove il primo vocabolo sottolinea il legame tra la subordinazione della donna e quella degli orientamenti non eterosessuali, basandosi sulla predisposizione biologica umana; il secondo, invece, evidenzia lo scopo ultimo della logica omotransfobica, ovvero tenere in piedi l’ordine sociale e far riprodurre la norma.
Una volta isolati questi due significati centrali, oltre a quello dell’irrazionale repulsione omofoba, il linguista può procedere verso il secondo step che precede l’analisi dei testi: delineare un identikit quanto più preciso e univoco dello hate speech.
Per l’analisi dei testi del corpus TWEER, la metodologia di riconoscimento dell’odio prevedeva due criteri fondamentali: prima di tutto, la presenza di un qualsiasi riferimento al target, quindi alla comunità LGBTQ+, per esempio trovando parole quali lesbica, omosessuale, transgender, queer. In generale, gli studi sul linguaggio d’odio riguardano sempre una categoria protetta di persone, accomunate da una particolare appartenenza religiosa, dalla provenienza geografica o, nel nostro caso, dall’orientamento sessuale e identità di genere. Il secondo criterio fondamentale è la action, ossia la volontà espressa dall’utente di sbeffeggiare, denigrare, deumanizzare o addirittura minacciare un membro della comunità. Questi due criteri, apparentemente riduttivi, permettono in realtà di orientarsi nella nube di indeterminatezza di cui abbiamo parlato all’inizio, quindi di distinguere lo hate speech autentico da altre manifestazioni verbali simili, non sempre felici, ma non altrettanto pericolose, ad esempio:
Sei un amico di merda. Meriteresti solo un sacco di schiaffi.
Mi fanno schifo le persone che vanno a correre con 40°. Sono super fissate con la linea e vengono a farti la morale. Noiosi imbecilli.
Questa cazzo di pizza spacca! Cristo! è una fottuta goduria!
Nel primo caso parliamo di ‘aggressione verbale’: cruda, spiacevole, ma in alcun modo portatrice di un pregiudizio sociale, né della volontà di fare del male a qualcuno per la sua identità, perché mancano sia il target che la action. Nel secondo esempio, che denominiamo ‘abusive language’, riconosciamo subito la presenza della action nell’espressione Mi fanno schifo, ma il target del messaggio fa sì che l’odio espresso diventi una frivola e volgare ‘chiacchiera da bar’, ben lontana dall’obiettivo di aizzare reazioni violente nell’opinione pubblica. Il terzo testo esprime un sentito e triviale ‘linguaggio offensivo’, in grado di caratterizzare certamente l’odio più viscerale ma, come nel caso paradossale dell’esempio, anche la lode più sincera.
L’insieme delle scelte interpretative che il linguista opera sui testi per scandagliare la presenza di hate speech e assegnare a ciascun contenuto la sua etichetta, compone quello che in Linguistica Computazionale si chiama ‘task di annotazione manuale di un corpus’. Per quanto riguarda il corpus TWEER, avendo come oggetto di studio il sentimento dell’odio, si tratta più propriamente di Sentiment Analysis, una tecnica di indagine testuale utile per rilevare opinioni e sentimenti degli utenti, sfruttata in numerosi settori anche ben lontani dalla linguistica. Secondo questa tecnica, per ognuno dei 5660 tweet le etichette descrivono non solo se è presente o meno il linguaggio d’odio, ma anche se e quanta aggressività caratterizza il testo, se l’utente esprime il contenuto con un linguaggio volgare, se invece ha preferito usare l’ironia, e ancora se il messaggio veicola uno stereotipo contro le persone LGBTQ+; infine, l’etichetta misura la gravità del contenuto del messaggio in una scala da 0 a 4.
La parte computazionale arriva quando un programma automatico osserva la distribuzione delle etichette su tutto il corpus e, attraverso il calcolo statistico, restituisce dati numerici che ritraggono il comportamento del linguaggio d’odio presente nei tweet. Come si legge negli esempi che seguono, in TWEER si tratta di un comportamento linguistico moderato, educato, e che fa leva soprattutto sulla promozione dello stereotipo. Infatti, i tweet che contengono hate speech violento e pericoloso sono soltanto lo 0,8% (Esempio 1), rispetto al 12,2% di contenuti dedicati all’espressione di qualità negative, indignazione politica, o pregiudizi sociali legati alla comunità LGBTQ+ (Esempio 2).
Esempio 1 tratto da TWEER: @RadioSpada Tu sei un coglione non un ministro , lasciamo vivere i bambini come madre natura comanda e sterminiamo la #LGBT sporca e maledetta assicurazioni a delinquere di stampo mafioso !!!
Esempio 2 tratto da TWEER: @ingdruido @askanews_ita Che poi non capisco cosa ci sia di male a scrivere “no gay”. Se è in condivisione con un uomo, mi sembra una cosa normale, così come non vorrebbe affittare a una donna.
È anche in questo modo, quindi, che si può ‘misurare’ l’omotransfobia: aprendo una finestra sul pensiero degli utenti attraverso lo studio del linguaggio spontaneo. Il task di annotazione manuale da parte del linguista può servire, e sicuramente servirà sempre di più, come materiale di addestramento per i sistemi automatici di riconoscimento dell’odio. Tuttavia, non si può ancora rinunciare completamente al ruolo del linguista; quantomeno, non per il riconoscimento dell’odio omotransfobico. Uno dei problemi più insidiosi è rappresentato dall’interpretazione del linguaggio offensivo: come ricordava saggiamente Tullio De Mauro, nel suo articolo per Internazionale dal titolo Le parole per ferire, il lessico omotransfobico è altamente ‘produttivo’ nel linguaggio offensivo. Ciò significa che molto spesso parole come frocio o finocchio non si riferiscono soltanto a persone effettivamente omosessuali, ma vengono usate per oltraggiare qualsiasi persona, o addirittura per oggetti concreti e astratti. Sarà quindi una sfida difficile, per una macchina, quella di capire se frasi come quel finocchio di Donald Trump o Senti questa canzone, è troppo frocia!, possano davvero essere considerate hate speech omotransfobico. Per fortuna, per risolvere queste ed altre ambiguità è ancora preziosa l’interpretazione del linguista.
Per approfondire
Article 19. 2015. ‘Hate Speech’ Explained – A Toolkit.
Borrillo, Daniel Àngel. 2009. Omofobia – Storia e critica di un pregiudizio, Bari: Edizioni Dedalo.
Contro l’odio, https://controlodio.it/partners/.
Reddy, Vasu. 2002. Perverts and sodomites: homophobia as hate speech in Africa. Southern African Linguistics and Applied Language Studies 20(3). 163-175.
1 Commento
Marta Marchiori 25 Novembre, 2020
Un progetto davvero interessante! Grazie per gli spunti e la finestra che hai aperto