Francesca Donazzan
Laureata all’Università Ca’ Foscari Venezia
“Tutte le domande che ci facciamo su come scrivere sono domande su come vivere”. S’incomincia con un’affermazione tratta dal primo volume delle Carte di Luigi Meneghello. Non è un caso, o un vezzo retorico, quello di aver ricalcato l’incipit – S’incomincia con un temporale – del romanzo meneghelliano più famoso: anzi, anticipa e conferma l’argomento centrale di questo contributo, ossia lo stretto legame intercorrente fra lingua, realtà e identità.
Ma andiamo con ordine.
Luigi Meneghello è uno scrittore nato a Malo (Vicenza) esattamente 99 anni fa, il 16 febbraio 1922, e scomparso nel 2007. Il suo esordio letterario avviene con Libera nos a malo (1963), in cui sono raccontate l’infanzia e la società maladense fra anni Venti e Trenta del Novecento. È un capolavoro della letteratura italiana che non solo i veneti o gli appassionati di linguistica dovrebbero leggere. Alcuni libri successivi hanno proseguito il cosiddetto ‘filone di Malo’, altri raccontato la Resistenza, altri ancora l’esperienza del dispatrio a Reading, vicino a Londra. Quale che sia l’argomento, la scrittura di Meneghello pone sempre al centro la lingua: ciò è interessante non soltanto perché la sua produzione illustra ‘dal vivo’ la situazione linguistica che Tullio De Mauro ha analizzato in Storia linguistica dell’Italia unita, edito nel medesimo anno, come ha evidenziato Giulio Lepschy, o per il suo valore documentario grazie alle filastrocche e ai testi popolari riportati in molte pagine memorabili, ma anche – anzi, è uno dei tratti che rendono così interessanti le sue opere – perché la lingua non costituisce solamente lo strumento con cui raccontare il mondo, bensì per l’autore determina la realtà stessa e, di conseguenza, anche chi vi agisce.
Il rapporto di interdipendenza tra esperienza ed espressione diventa una relazione di identità nel caso del dialetto – un privilegio, se così vogliamo definirlo, che non è accordato anche alle altre lingue conosciute dall’autore. Sulla scrittura di Meneghello, infatti, agiscono tre lingue: la lingua madre dell’autore, cioè il dialetto vicentino che, pur permeando le sue opere, è tuttavia presente solo sporadicamente ‘puro’; l’italiano, appreso a scuola e percepito come artificioso, lingua che si scrive ma non si parla; l’inglese, divenuto la sua L3 (terza lingua) a seguito del trasferimento in Inghilterra. Il contrasto fra l’innaturalità dell’italiano e la realtà dietro al dialetto è rappresentato icasticamente dal confronto fra l’uccellino, protagonista indiscusso dei dettati scolastici, e l’oseleto: l’uccellino “andava a ficcarsi in tutte le manifestazioni riconosciute della cultura, dettati, componimenti, libri di lettura, nei quali ultimi gli piaceva farsi fare il ritratto “sui rami del melo” o in volta per l’aria. Era un vero e proprio operatore culturale, indaffaratissimo, con appariscenti funzioni di rappresentanza, dir bene del Creato, fare le riverenze al Signore, avvertire la gente che era arrivata la Buona Stagione”. L’oseleto, invece, “non sa niente, non sa le poesie a memoria, non entra nei dettati, nei libri, nei pensierini […]. Eppure tutti sanno che ha una qualità che all’altro manca: è vivo, ed è proprio lui che presta all’altro una sembianza di vita. Perché l’uccellino, con tutto il suo lustro, ha l’occhietto un po’ vitreo” (Jura, pagg. 101 e 30).
Le tre lingue, si diceva, costituiscono stratificazioni diverse nella coscienza linguistica dell’autore. La bellezza di una pagina meneghelliana risiede da un lato nella percezione di un organismo coeso, unitario nonostante sia l’esito della compenetrazione di tre lingue, dall’altro lato (diametralmente opposto, direi) proprio nelle interferenze, nelle frizioni, negli scarti spesso comici fra queste lingue. Le ‘intromissioni’ di una lingua in un’altra, numerose a livello lessicale, ma rintracciabili anche su piani linguistici meno appariscenti, rendono la prosa meneghelliana così fulgida da rischiarare una lingua – il dialetto vicentino – nonostante il calo dei parlanti, e con essa un mondo che non c’è più, ancora oggi.
Il dialetto è infatti profondamente avviluppato alla realtà: la parola in dialetto ha “dietro delle realtà concrete che non ha per me nessuna parola italiana corrispondente; non sono solo diverse vibrazioni dell’aria che caratterizzano la parola, ma diverse vibrazioni della mente” (Jura, pag. 111). Il dialetto, quindi, condiziona in profondità le strutture mentali, e non distingue la parola dalla cosa (“la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare”, Libera nos a malo, pag. 37). Viceversa, “l’irrealtà della lingua conferiva irrealtà alle cose” (Jura, pag. 35): Meneghello lo afferma riferendosi all’apprendimento dell’italiano, lingua solo scritta e spesso sotto forma di dettato, con i suoi protagonisti inanimati perché esclusi dalla viva vita dell’esperienza, come il già citato uccellino o come il ninnolaio protagonista di un altro dettato, figura fantastica alla stregua di Batman.
Il dialetto è invece intrinsecamente legato all’esperienza, e quindi alla realtà; plasma le strutture mentali e fonda l’identità: Meneghello sostiene che, veicolato dal latte della balia, in lui è penetrato il dialetto, le cui radici si sono profondamente allacciate alle fibre della sua personalità, del suo modo di vedere il mondo.
In fondo, che cosa possiamo dire che sia un elemento imprescindibile per definire la nostra identità, se non la lingua madre? Va da sé che quando ci si accorge che il mondo così come l’abbiamo conosciuto – nel caso di Meneghello, la società contadina della sua infanzia – e i suoi oggetti scompaiono, e che poco dopo anche le parole per designarli si estinguono, si impone anche una questione esistenziale non proprio rassicurante…
La scrittura di Meneghello scandaglia non solo il rapporto fra la propria identità e la lingua, e fra questa e la percezione personale della realtà. Vorrei infatti in chiusura soffermarmi su altri due aspetti che rendono la sua prosa così stimolante.
Primo: le sue pagine sono suggestive perché alla riflessione linguistica si accompagna un respiro più ampio, che può essere di stampo storico, sociologico; di un fatto linguistico può essere data una lettura filosofica o sottolineata l’intrinseca poeticità.
“Dell’ultimo figlio (meno tipicamente quando era una figlia), se appariva piccolo, magro, striminzito, sparutello, scanchenico, si diceva – per lo più sorridendo – che era, erano, le raspaùre dela mèsa, i residui che si raschiavano dal fondo del contenitore di legno in cui si compiva il sacrificio del maiale” (Maredè, maredè…, pag. 73).
“L’idea di perdersi ha rapporti, tra noi, con l’idea del sollievo. Pèrdarse-via è il “distrarsi”, di chi si immerge in un passatempo, ecc.; oppure il “trastullarsi”, l’inoltrarsi assorto dei bambini nella sfera dei giochi o delle immaginazioni, nella contemplazione di una serie di figure, ecc. C’entra sempre l’idea di una vacanza della mente, quasi un effetto di assenza o dimenticanza” (Maredè, maredè…, pag. 66).
Secondo: le sue pagine sfolgorano nella mente del lettore – ecco perché non è un caso che chi scrive abbia echeggiato parole di Meneghello per inaugurare questo articolo: è una scrittura che si insinua a sua volta nelle fibre di chi legge – grazie alla comicità che scaturisce dal Witz linguistico, dal cortocircuito sorprendente provocato sia dal contatto tra lingue o registri differenti, sia dall’accostamento di competenze linguistiche diverse, come nel caso del bambino che si trova a dover rincorrere il senso inafferrabile di parole oscure attraverso la paretimologia: la canzone dei balilla “Vibra l’anima nel petto / sitibonda di virtù: / freme, o Italia, il gagliardetto / e nei fremiti sei tu” diventa, nella mente perplessa del bambino:
“Vibralani! Mane al petto!
Si defonda di vertù.
Freni Italia al gagliardetto
e nei freni ti sei tu.
La forma poetica ti sei tu per ci sei tu non bastava a confonderci, né l’arcaismo di mane per mani. L’ordine era di portarle al petto, orizzontalmente, in una forma sconosciuta ma austera di saluto: come un segno di riconoscimento in uso tra i vibralani a cui sentivamo in qualche modo, cantando, di appartenere ad honorem anche noi” (Libera nos a malo, pag. 6).
L’uccellino, il ninnolaio, i Vibralani… Creature fantastiche e dove trovarle: nella lingua poliedrica di Luigi Meneghello, in cui mirabilmente si fondono levità e profondità; fra le pagine pindariche e insieme radicate nella realtà e in ciò che siamo dei suoi capolavori.
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