Emilia Calaresu
Università di Modena e Reggio Emilia
Un paio di estati fa, durante un breve giro con alcuni amici alla scoperta del Molise, passeggiando per le stradine del grazioso e minuscolo borgo di Castropignano, ci siamo imbattuti a un certo punto in uno strano cartello, riportato nella prima foto sopra, con su scritto in maiuscolo rosso “ATTENZIONE”. Sotto la scritta c’è un coloratissimo disegnino di bimbi che fanno il girotondo e, a fianco, un testo a caratteri neri più piccoli che recita “In questo paese i bambini giocano ancora in strada!”.
Che significa? A chi è rivolto? Certo non agli abitanti del borgo, che sanno benissimo che i loro bambini usano giocare in strada.
Per capire il senso e la funzione di quel cartello in quel contesto, non basta, evidentemente, recepire il significato ‘letterale’ della scritta, ma bisogna recuperare tutta una serie di non detti e sottintesi (impliciti, presupposti, conoscenze pregresse su come funziona il mondo) che chi ha ideato il testo ha previsto non solo che potessero darsi tranquillamente per scontati, perlomeno per tutti i futuri lettori italofoni del cartello, ma che sarebbero stati sicuramente attivati attraverso la sua lettura. Fa parte delle nostre conoscenze condivise, infatti, sapere che se i bambini giocano in strada, c’è anche da attendersi che stiano poco attenti al passaggio di veicoli, a motore o a pedali, in quegli stessi spazi (non per niente son bambini!), e che dunque sarà compito degli adulti alla guida procedere piano e con attenzione, onde evitare di finire addosso a uno di loro che potrebbe tagliar la strada all’improvviso. Ergo, il cartello si rivolge prima di tutto ai non residenti che passano in quella strada alla guida di un mezzo a motore, o anche a pedali (per es. una bici da corsa), chiedendo loro indirettamente di procedere piano e con attenzione.
Ma quell’avverbio, ancora, comunica pure qualcos’altro, diretto stavolta anche al forestiero che passa a piedi da lì. Provate a immaginare lo stesso messaggio senza quell’avverbio: “Attenzione. In questo paese i bambini giocano in strada”. Scoprirete che in questo caso sparirebbe subito anche tutta un’altra serie di cose che quell’ancora vi aveva sicuramente richiamato alla mente. Ad esempio, che un tempo era normale che i bambini giocassero in strada, e che ora non lo è più. E anche, probabilmente: che questo è oggi normalmente considerato una perdita (sappiamo tutti che la vita all’aperto e in compagnia fa bene ai bambini), che se in un certo posto i piccoli possono ancora giocare in strada, si tratta evidentemente di un luogo sicuro e tranquillo, ecc. Dunque il cartello ha anche uno scopo, per così dire, promozionale, giacché punta (sempre ‘indirettamente’) a evidenziare anche la vita semplice e sana di Castropignano, ed è quindi rivolto, in seconda battuta, anche ai non residenti, in particolare i turisti, che si trovino a camminare da quelle parti.
Tutto questo ‘di più’ di informazioni che possiamo – e in gran parte dobbiamo! – ricavare da quel breve testo, piazzato proprio lì in quel luogo, non ci è stato tuttavia comunicato in modo esplicito ma, come previsto dagli autori del cartello, siamo stati noi fruitori a recuperarlo. Non solo. Una volta recepite tali informazioni, dovremmo anche ‘agire’ di conseguenza alla richiesta che indirettamente ci ha voluto rivolgere quel cartello: se fossimo alla guida di un veicolo, dovremmo infatti guidare da quel punto della strada in poi con maggior prudenza e attenzione.
Questo esempio ci mostra che l’interlocutore di un messaggio (parlato o scritto) di norma non agisce mai da semplice ‘decodificatore’ passivo del messaggio ricevuto (né l’autore del messaggio questo si aspetta), ma lo ‘interpreta’: fa ipotesi e inferenze di tipo logico (talvolta di tipo abduttivo) sulle intenzioni comunicative del parlante, per capire cosa voleva davvero intendere dicendo quel che ha detto. I ruoli del parlante/scrivente e del suo interlocutore non sono perciò mai simmetrici: preso alla lettera, il significato di un certo messaggio può essere molto diverso, e a volte proprio l’opposto, rispetto a quello inteso dall’autore (si pensi ad enunciati ironici come E ora pestami anche l’altro!, detto a chi distrattamente ci ha appena pestato un piede).
Il nostro parlare e scrivere fa continuo uso di atti linguistici indiretti, come il testo del cartello appena discusso, o come nell’altro messaggio, solo apparentemente idiota, della seconda foto in alto, scattata nella stazione Mediopadana di Reggio Emilia: “Le fioriere non sono dei posacenere”. Che senso ha segnalare con un pubblico cartello una cosa così insulsa e scontata come il fatto che una fioriera e un portacenere sono due cose diverse? È una cosa che sanno tutti. Ma è proprio l’apparente insensatezza o irrilevanza di questo tipo di messaggi che innesca nel fruitore del messaggio una catena di inferenze logiche, a partire da quella più importante di tutte ossia che l’autore del messaggio intende sicuramente comunicare qualcosa di diverso e di contestualmente più pertinente. Nel caso del cartello sulla fioriera, per esempio, che i fumatori non devono usare le fioriere come portacenere, ma buttare cicche e mozziconi di sigaretta nei veri portacenere collocati lì vicino. Si tratta, ancora una volta, di una richiesta veicolata indirettamente da un semplice enunciato descrittivo (una frase dichiarativa) anziché da un più esplicito imperativo (ad es., Non gettate le cicche di sigaretta nelle fioriere).
La pragmatica si occupa insomma (anche) di questo tipo di cose: come e perché l’uso di una certa lingua storico-naturale (nel nostro caso l’italiano) diventa discorso comprensibile e coerente, in un certo contesto, oppure, viceversa, un non-sense, o un discorso che può significare tutt’altro in un’altra situazione con attori umani diversi (casi di identità di forma ma non di funzione).
Ogni nostro parlare è sempre un ‘agire’, un insieme di ‘azioni congiunte’ in cui parlante/scrivente e relativi interlocutori co-operano alla costruzione di un discorso che sia sensato per entrambe le parti (è il famoso principio di cooperazione del filosofo inglese H. Paul Grice).
Il contesto (cioè i parlanti in atto, le loro conoscenze condivise, i loro scopi e aspettative, lo spazio e il tempo del discorso, ecc.), l’azione linguistica, il rapporto tra informazioni esplicite ed implicite, sono perciò concetti assolutamente centrali per chi si occupa di pragmatica.
Riassumendo, si può dire che oggetto di interesse della pragmatica è, da un lato, come e perché il nostro uso della lingua diventa azione di discorso che modifica e/o ridefinisce il contesto stesso (come spiega la teoria degli atti linguistici diretti e indiretti, solo rapidamente accennata con i nostri due cartelli). Dall’altro, come il contesto entra nel sistema di una lingua, ovvero come il contesto e l’inter-azione vengono ‘codificati’, ossia programmaticamente previsti, già nel sistema stesso, ovvero nella grammatica di una lingua.
Questo secondo aspetto è facilmente dimostrabile grazie a una serie di tratti universali presenti in tutte le lingue storico-naturali conosciute del mondo (tuttora, o non più, parlate). Tra questi, la presenza in tutte le lingue di espressioni deittiche o indicali (i corrispettivi di parole come io, tu, qui, lì, adesso, questo, quello, ecc. che più direttamente di altre fanno riferimento al contesto), di espressioni modali e di diverse modalità di frase (tutte le lingue naturali distinguono ad es. le frasi cosiddette dichiarative da quelle interrogative ed imperative, dove la previsione di un interlocutore è, per così dire, già implicata dalla diversa forma di frase). O ancora, come abbiamo velocemente visto con il caso dell’avverbio fasale ancora, tutte le lingue hanno elementi linguistici di vario tipo, spesso brevissimi e apparentemente insignificanti, che una volta in azione all’interno del discorso agiscono da potentissimi attivatori di presupposizioni, e anche, talvolta, va da sé, di stereotipi (ad es., avverbi fasali come ancora, già, non più, ecc.; congiunzioni e connettivi logici: È francese, ma è simpatico; È fatto a mano, quindi durerà più a lungo; ecc.). Inoltre, è ancora la pragmatica che può spiegare perché certe espressioni di altissimo uso finiscano spesso per acquistare nel tempo un significato addirittura opposto a quello originario (cfr. affatto, che un tempo significava ‘del tutto’ e ora vuol dire ‘per niente’; oppure altro che, a Firenze, pronunciato con tono discendente da un cliente in un negozio, significa che non ha bisogno di comprare altro; ecc.).
La pragmatica, e più in generale, l’intero piano del significato (che tradizionalmente comprende pragmatica e semantica), è spesso considerata nei manuali di linguistica come uno dei diversi livelli della lingua (alla stregua di fonetica, fonologia, morfologia, lessico, sintassi), e neppure il più importante (spesso è il capitolo che viene per ultimo). Tuttavia, come spero sia già in parte emerso da questa brevissima presentazione, la pragmatica (e l’intero piano del significato in genere) non può, o non dovrebbe, esser considerato un ‘livello’ come gli altri, ma come una sorta di ‘super-livello’ che, in modi diversi, li tocca e li riguarda tutti.
Per approfondire
- Andorno, Cecilia. 2005. Che cos’è la pragmatica linguistica. Roma: Carocci.
- Bianchi, Claudia. 2003. Pragmatica del linguaggio. Roma/Bari: Laterza.
- Calaresu, Emilia. 2016. Dialogicità e grammatica. In Cecilia Andorno & Roberta Grassi (a cura di), Dinamiche dell’interazione: testo, dialogo, applicazioni educative, 13-27. Milano: Officinaventuno.
- Domaneschi, Filippo. 2014. Introduzione alla pragmatica. Roma: Carocci.
- Domaneschi, Filippo & Carlo Penco. 2016. Come non detto. Usi e abusi dei sottintesi. Roma/Bari: Laterza.
- Mauri, Caterina. 2017. Possiamo fare cose con le lingue? In Francesca Masini & Nicola Grandi (a cura di), Tutto ciò che hai sempre voluto sapere sul linguaggio e sulle lingue, 161-164. Cesena/Bologna: Caissa Italia.
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