Nicola Grandi
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Di quello che hai detto non ho capito una parola!
Taci! Non dire neppure una parola!
Io, di tedesco, non capisco una parola!
Adesso ripeti quello che abbiamo detto, parola per parola.
A buon intenditor poche parole.
A parole son tutti bravi.
Vogliamo fatti, non parole!
Avete mai contato i ‘modi di dire’ che fanno riferimento alla parola? Sono davvero tantissimi.
In effetti la parola viene normalmente eletta a elemento tipico di una lingua: essa è il primo componente della ‘grammatica’ che ci viene in mente quando ci accostiamo ad esempio a una lingua nuova ed è il primo che cogliamo nell’uso che i bimbi fanno della lingua nativa (la pronuncia della prima parola è un evento che ogni genitore ricorda!).
Ebbene, potrà sembrare incredibile ma se c’è una cosa su cui i linguisti non riescono a mettersi d’accordo è proprio cosa sia realmente una parola! Dopo decenni di dibattiti e discussioni, nella comunità scientifica manca ancora una definizione di parola realmente soddisfacente e unanimemente accettata. Lo stesso problema non riguarda altri elementi della grammatica: siamo in grado di definire una frase, un fonema, un morfema, un sintagma… Ma la parola è un’entità che ancora sfugge ad ogni tentativo di ‘incasellamento’.
Se il linguista ha, tra i suoi obiettivi primari, quello di descrivere la competenza dei parlanti, bisogna ammettere che questo è il campo in cui forse si registra il maggior scollamento proprio tra linguisti e parlanti. La parola infatti è indubbiamente ben presente nell’immaginario di ogni parlante di ogni lingua. Questo significa che ogni parlante saprà riconoscere le parole della propria lingua. Il linguista, però, fatica a trasformare questa ‘intuizione’ dei parlanti in una definizione esplicita e sventola bandiera bianca di fronte a una domanda all’apparenza molto semplice come ‘cosa è dunque una parola?’.
Come è possibile che un ‘oggetto linguistico’ così evidente, quasi banale per i parlanti, diventi un cruccio quasi irrisolvibile per il linguista? Conviene innanzitutto ricordare che linguisti e parlanti ragionano su piani diversi: se il parlante ‘sa’ cosa è una parola nella sua lingua nativa e nelle altre lingue che, appunto, parla, l’obiettivo del linguista è quello di produrre una definizione valida per tutte le lingue del mondo. E se ci spostiamo sul piano della variazione interlinguistica, veniamo letteralmente travolti da parole così diverse da lasciarci sbalorditi. Per un parlante di ciukci, ad esempio, la sequenza təmeyŋəlevtəpəγtərkən, che letteralmente significa ‘ho un tremendo mal di testa’, è una parola. Ed è una parola, per uno yupik siberiano, la forma angyaghllangyugtuq, il cui significato più o meno è ‘lui vuole comprare una grande barca’. Insomma, esistono lingue in cui soggetto, verbo e complemento oggetto vengono realizzati dentro la parola, e non nella frase, come siamo abituati a fare in italiano. Un parlante di ciukci non è abituato a considerare parola una forma come libro, perché nella sua competenza le parole sono oggetti più complessi. Al contrario, un parlante di italiano non concepisce che qualcuno possa considerare una parola sola təmeyŋəlevtəpəγtərkən, perché nella sua competenza le parole sono oggetti molto più semplici (se ci pensate bene, abbiamo dubbi sul fatto che finesettimana / fine-settimana / fine settimana – la cui forma grafica, per altro, è incerta – sia una parola sola! Figuriamoci təmeyŋəlevtəpəγtərkən ‘ho un tremendo mal di testa’!).
È evidente che trovare una definizione di parola che ci consenta di collocare nella stessa classe oggetti così diversi come libro e angyaghllangyugtuq è un’impresa molto complessa. Prima ho affermato che tutti i parlanti hanno un’immagine mentale della parola; ma ora ci rendiamo conto che questa immagine non è la stessa per ogni parlante. Ed è proprio ciò che rende così difficile il lavoro del linguista in questo campo: cercare di ridurre ad unità dati così profondamente diversi.
In realtà, a ben vedere, anche il quadro interno alle singole lingue è molto più complesso di quanto appaia a prima vista. E questa complessità spesso sfugge alle ‘sensazioni’ immediate dei parlanti. Ad esempio, sono certo che qualunque parlante dell’italiano risponderebbe ‘cinque’ alla domanda ‘quante parole ci sono nella frase il bambino corre a casa?’. Eppure, a pensarci bene, due di queste parole, l’articolo il e la preposizione a, non hanno un vero significato, come bambino, corre e casa; esse indicano piuttosto relazioni grammaticali che in altre lingue vengono realizzate con affissi uniti alla parola. E non hanno un accento primario ‘intenso’ come quello che troviamo in bambino e in casa. Se qualcuno ci chiedesse ‘dimmi una parola italiana’ nessuno di noi risponderebbe con il oppure a! Possiamo quindi dire davvero che il e bambino sono parole allo stesso modo?
La risposta ‘cinque’ è senza dubbio condizionata dalla grafia dell’italiano, che separa le unità con gli spazi bianchi senza considerare altri parametri e ponendo, dunque, sullo stesso piano elementi molto diversi tra loro. Nella realtà dei fatti, però, gli spazi bianchi spariscono nella pronuncia e una sequenza come il bambino è pronunciata come se fosse unita, come se fosse una parola sola, in un certo senso. La grafia è in effetti un criterio che è stato spesso proposto per identificare le parole, ma presenta almeno tre problemi. Il primo, e più importante, è che si tratta di un criterio discriminatorio: le lingue del mondo che non sono scritte sono centinaia e per esse questo parametro è inapplicabile. Potremmo dire che una lingua è senza parole solo perché non è scritta? Certamente no. Il secondo è che le lingue che adottano sistemi di scrittura logografici o ideografici, come il cinese (o come i geroglifici dell’antico Egitto), non usano spazi bianchi per separare le parole. Il terzo è che ci sono oscillazioni anche per lingue con norme ortografiche molto rigide come l’italiano: lo sarebbe una parola in lo mangio, ma non in mangialo; glielo sarebbe una parola in glielo dico, ma non in diglielo, e così via.
Un secondo criterio spesso citato in letteratura per individuare la parola è quello del significato convenzionale. Parole, cioè, sarebbero quelle strutture della lingua dotate di un significato convenzionale, cioè di un significato che va imparato a memoria perché non è ricavabile dalla somma dei significati parziali dei costituenti di quelle strutture. Nella pratica, però, anche questo criterio è inservibile. In effetti, ci sono elementi che ci paiono sia più grandi, sia più piccoli della parola che soddisfano appieno questo parametro. Ad esempio luna di miele, che a prima vista ci pare una sequenza di più parole, ha senza dubbio un significato convenzionale, in quanto sommando il significato di luna, di e miele non si ottiene il significato di luna di miele. E, a ben vedere, in una forma come libro quasi tutto il significato è espresso in realtà da libr; la o finale si limita ad aggiungere qualche informazione grammaticale.
Come si esce, dunque, da questo labirinto?
Se ne esce intanto cambiando prospettiva e rinunciando all’ambizione di dare, della parola, una definizione ‘secca’, quasi da dizionario, come quella che possiamo dare di altre unità della lingua come il fonema (ogni suono che ha valore distintivo, ne abbiamo parlato qui) o il morfema (la più piccola unità della lingua dotata di significato, ce ne siamo occupati qui).
Per la parola serve qualcosa di più o qualcosa di diverso, cioè una definizione multifattoriale: in questo caso è la convergenza di diversi parametri a definire il perimetro della nozione. Parola, dunque, sarà ogni costituente linguistico che soddisfi un insieme piuttosto vasto di criteri. Qui ci limiteremo a citarne tre. Il primo, il più ovvio, è il significato convenzionale a cui già abbiamo fatto cenno. Affermare che questo criterio non è sufficiente a definire la parola (in quanto si applica anche a unità più piccole, come libr, o più grandi, come luna di miele) non significa affermare che esso non sia necessario. Lo è eccome, ma da solo non basta. Il secondo è una conseguenza del primo: la cosiddetta coesione interna. Esiste in effetti una correlazione tra la convenzionalità del significato e la coesione interna della struttura linguistica che lo esprime: più è convenzionale il significato di una struttura, più essa sarà coesa, cioè più forte sarà il legame tra gli elementi che la compongono. Misurare la coesione è piuttosto semplice: una struttura linguistica è coesa se non può essere interrotta dall’aggiunta, al suo interno, di altro materiale linguistico. Ad esempio, tra i costituenti di libro, i morfemi libr– e –o, non si può inserire nulla. Ma anche tra i costituenti di luna di miele non si può inserire nulla: *luna romantica di miele è inaccettabile (si dice, piuttosto, romantica luna di miele o luna di miele romantica). L’ultimo criterio è quello della mobilità: una parola è quell’insieme di elementi linguistici che, in quanto coeso, si sposta ‘in blocco’ all’interno di una frase: ho letto un libro può diventare un libro, ho letto, ma non *un libr ho letto o! Di nuovo, anche luna di miele si sposta ‘in blocco’: ti racconterò la luna di miele diventa la luna di miele, ti racconterò, ma non *la luna ti racconterò di miele.
È dunque la convergenza di questi criteri, e di molti altri ancora che qui non possiamo menzionare, a definire ciò che è parola e ciò che non lo è. Questi criteri si applicano a tutte le lingue del mondo, al netto delle differenze strutturali che le caratterizzano. In questo modo possiamo ottenere una definizione ‘impermeabile’ alla variazione interlinguistica, come nel caso di fonema e morfema.
Ma una definizione multifattoriale ha anche alcuni difetti. Il primo e più importante è dato dai casi in cui la convergenza tra i criteri è solo parziale: cosa accade se un elemento linguistico risponde affermativamente ad alcuni criteri e negativamente ad altri? Pensiamo all’italiano e consideriamo, ad esempio, le preposizioni, le congiunzioni, gli articoli, ecc. Essi hanno senza dubbio un significato convenzionale anche se, come si è detto, esso esprime solo valori grammaticali e non lessicali. Sono senza dubbio forme coese. Ma non sono mobili: se un articolo si sposta solo ‘a rimorchio’ del nome a cui si riferisce; la preposizione, se si sposta, si porta dietro il nome che la segue: ho letto un libro > *un ho letto libro; vado a casa > *a vado casa. D’altra parte, come si è visto, ci sono strutture, come luna di miele, che nessuno considererebbe parole, ma che si comportano a tutti gli effetti come se lo fossero.
Dunque, come gestire casi inattesi come questi? La soluzione al problema sta nella natura delle nozioni che la nostra mente costruisce. Anche se spesso non ce ne rendiamo conto, le cartelle in cui archiviamo i file della nostra conoscenza non sono quasi mai basate su condizioni necessarie e sufficienti, ma, piuttosto, su un’immagine ideale, astratta alla quale poi gli elementi del mondo reale vengono associati in base al loro grado di somiglianza con essa.
Facciamo un esempio: se dovessimo descrivere un uccello diremmo che è un essere vivente che ha le piume, le ali, vola, fa le uova, ecc. Questo ci consente di costruire un identikit mentale e di riconoscere come uccelli tipici l’aquila, il merlo, il pappagallo, il gabbiano, ecc. Che dire, invece, della gallina? Ha certamente le piume e le ali, fa le uova, ma non vola. E che dire del pinguino? Non siamo certi di poter dire che ha le piume; di certo ha le ali, ma non vola. E pensiamo al kiwi, uccello neozelandese che non ha neppure le ali! La gallina, il pinguino, il kiwi devono essere esclusi dalla categoria degli uccelli? Certamente no, anche se non hanno tutte le caratteristiche che siamo soliti attribuire agli uccelli. Proprio per questo, però, essi non sono i primi esempi che ci vengono in mente quando pensiamo ad un uccello. Nella nostra mente la categoria degli uccelli è dunque organizzata attorno ad un’immagine ideale e tanto più un uccello reale si allontana da esso, tanto più sarà considerato un esempio poco tipico o periferico della categoria.
Con le parole funziona allo stesso modo: la nostra immagine mentale ci fa riconoscere come tipiche le parole nelle quali ritroviamo tutte o quasi le caratteristiche che, nella nostra competenza, riconosciamo alla parola. Gli elementi che esibiscono poche di queste caratteristiche saranno parole atipiche: cioè non ci verranno in mente per prime, quando pensiamo alle parole della nostra lingua. Per riprendere l’esempio appena fatto, possiamo dire, in un certo senso, che le preposizioni, gli articoli ecc. sono i pinguini della parola, cioè forme a loro modo inaspettate, ma non al punto da essere escluse dalla categoria stessa!
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