Yasmina Pani
Insegnante e divulgatrice
Il tabù linguistico, cioè l’interdizione di una parola e la sua sostituzione con altre, è un fenomeno onnipresente nelle lingue del mondo. Il concetto di tabù, individuato per la prima volta dal Capitano James Cook alla fine del Settecento in relazione ad alcune regole di comportamento presso gli abitanti di Tahiti, non è prettamente linguistico: ogni società stabilisce comportamenti leciti e illeciti, alimenti concessi e proibiti, spesso in conformità alle pratiche religiose prevalenti. Avviene lo stesso con le parole: che sia per questioni di etichetta, per superstizione o per pudore, le parole possono venire tabuizzate e quindi rimosse e sostituite con eufemismi che, pur indicando lo stesso referente, non lo fanno in modo diretto.
Il tabù linguistico è apparentemente tanto più diffuso quanto più è forte presso la comunità linguistica il potere della superstizione: la convinzione che menzionare una cosa la evochi, portandola a manifestarsi concretamente, induce a un timore religioso nei confronti della parola stessa, che quindi può addirittura scomparire, come rilevato per la parola proto-indoeuropea per ‘orso’.
Tuttavia, il fenomeno è ampiamente rappresentato in tutte le lingue, anche in quelle società devote al pensiero razionale, come quella occidentale. Noi stessi, per esempio, al verbo ‘morire’ tendiamo a preferire espressioni metaforiche come ‘andarsene’, ‘lasciare [i propri cari]’ ecc.
La società occidentale contemporanea ha visto, negli ultimi trent’anni, una notevole estensione dell’interdizione linguistica, che assume varie forme, oggi per lo più genericamente racchiuse (a volte impropriamente) sotto l’ombrello del politicamente corretto. Tale espressione, in realtà non recentissima, si diffuse inizialmente negli Stati Uniti a partire dagli anni Ottanta, trovando poi il suo picco nell’ultimo decennio. Gli interventi di sanificazione linguistica hanno riguardato soprattutto parole ed espressioni usate per riferirsi a certe componenti del corpo civico, come le minoranze o i lavoratori di alcuni settori: sono eufemismi non vedente per cieco o operatore ecologico per spazzino.
Si è detto che l’interdizione linguistica è un fenomeno comune a tutte le lingue; pertanto, non dovrebbe destare particolare attenzione la sua diffusione attuale. Tuttavia, il ricorso a questa pratica assume caratteri diversi da quelli che si sono potuti osservare fino ad ora: il divieto sembra infatti giungere alla comunità di parlanti dall’alto, o comunque da una zona dell’insieme dei cittadini che non è ben identificata, ma che sembra avere controllo sulle manifestazioni linguistiche del pensiero. Non si tratta più quindi di un fenomeno inconsapevole e collettivo come sempre è il ricorso all’eufemismo o la rimozione di una parola, ma di un mutamento che si decide di attuare in conformità a un pensiero o una visione del mondo, in maniera programmatica.
I parlanti, quindi, per lo più rimangono ignari di queste riflessioni e hanno l’impressione di subire un mutamento subitaneo che non comprendono. Si trovano improvvisamente dinanzi a valutazioni negative di parole che hanno sempre usato: le leggono sui giornali, ne sentono parlare sui social network, trovano in libreria volumi dedicati a questo.
Da qui anche i numerosi fraintendimenti che portano a estremizzare la situazione, dipingendo la società attuale come una sorta di dittatura degli intellettuali, che impongono nuovi modi di esprimersi (“non si può più dire niente”).
Oltre a questo, una cruciale differenza sta nella ragione alla base degli interventi sulla lingua: mentre normalmente il tabù è motivato dal timore religioso, dal pudore, dalla repulsione o da altri sentimenti istintuali che vanno inseriti in un sistema di regole sociali, all’interno del panorama attuale esso deriva principalmente da una ragione morale. Ci si premura cioè di usare le parole giuste per riferirsi a certe realtà, in modo tale da non essere scambiati per persone irrispettose o poco sensibili nei confronti di argomenti attualmente molto dibattuti e delicati. La lingua viene quindi guidata in direzione di un cambiamento in chiave etica. Di conseguenza, usare la parola tabuizzata in luogo del suo sostituito costituisce una scelta quasi politica, più spesso involontaria che frutto di una riflessione.
Questi interventi lessicali nascono nell’ambito di riflessioni più ampie sul ruolo del linguaggio umano nello sviluppo della cultura e della mentalità, iniziate soprattutto nel mondo anglosassone in seno a rivendicazioni femministe di più ampia portata. La rilettura della storia alla luce della maggiore consapevolezza delle discriminazioni di genere si è ripercossa anche sul linguaggio, ritenuto erede di una mentalità sessista, di cui al contempo pare essere la causa stessa: la lingua, quindi, come strumento per cambiare lo status quo.
Tali riflessioni, sebbene spesso presentate all’interno di un dibattito scientifico, più che sulla scienza si basano su un ritorno al pensiero magico, cioè alla convinzione che le parole operino sulla realtà in maniera diretta. È piuttosto frequente, ormai, leggere che “la lingua plasma la realtà”, ed è sulla base di questo assunto (non dimostrato, ricordiamolo, e nemmeno suggerito, in questa forma così rigida, dagli studi attualmente in nostro possesso) che si ritiene di dover modificare la lingua: pensiero magico, quindi, travestito stavolta, però, da pensiero razionale, in quanto è frequente l’appello a studi di linguistica e psicologia che sembrerebbero indicare che cambiando la lingua si cambia anche la realtà.
A livello pratico, quindi, questa convinzione produce come prima cosa l’interdizione applicata sempre più frequentemente a una serie di termini anche non necessariamente dotati di connotazione negativa: è di qualche mese fa la notizia dell’intervento di ripulitura lessicale dei romanzi di Roald Dahl (fortemente osteggiata da critici e lettori e quindi poi ritirata), che prevedeva la rimozione anche di parole come fat (‘grasso’), che non necessariamente hanno una connotazione negativa.
Parallelamente, si osserva l’attribuzione di un valore simbolico (che sfocia però nel potere sovrannaturale) alle parole invece considerate ‘buone’, nonché alla morfosintassi stessa: ecco che gli interventi sulla lingua in chiave etica non si limitano al lessico ma si propongono di cambiare la morfosintassi affinché la lingua diventi più ‘buona’, inclusiva. Proposte come lo schwa, l’asterisco e altre opzioni per evitare il maschile non marcato hanno questo obiettivo. Si dà quindi al mezzo linguistico una connotazione morale a tutto tondo, non più limitata ad alcune sfere precise del lessico e ad alcune situazioni comunicative, come normalmente accade con l’interdizione linguistica. Insomma è la lingua in sé, come sistema e come mezzo, a doversi far carico di un’istanza di natura etica.
La lingua diventa cioè rappresentazione simbolica di un modo di vedere i rapporti sociali e i valori che dovrebbero governarli: la struttura stessa della lingua deve rispecchiarlo. Possiamo quindi con ragione parlare di attribuzione di un valore magico alla lingua, sia nel suo lessico che nella morfosintassi.
Per approfondire
Allan, Keith & Burridge, Kate. 2006. Forbidden words. Taboo and the censoring of language. New York: Cambridge University Press.
Deutscher, Guy. 2010. Through the language Glass. Why the world looks different in other languages. Londra: Arrow Books.
Galli de’ Paratesi, Nora. 1969. Le brutte parole. Semantica dell’eufemismo. Milano: Mondadori.
Reutner, Ursula. 2014. Eufemismo e lessicografia. L’esempio dello «Zingarelli». In Studi di lessicografia italiana, vol. XXXI. Firenze: Le Lettere.
2 Commenti
Giovanni 04 Gennaio, 2024
Sono d’accordissimo, tanto è vero che continuo ad usare “negro” come lo si usava prima che le americanate prendessero il sopravvento.
Yasmina Pani 05 Gennaio, 2024
Buonasera, vorrei chiarire che l’intento del mio articolo non era di sdoganare parole che oggi hanno una connotazione negativa e che costituiscono insulto! Le parole hanno il significato che i parlanti danno loro: “negro” è oggi indiscutibilmente un termine offensivo, non neutro. Riflettere sulle attuali dinamiche di pulizia linguistica non significa rifiutare in toto un processo naturale della lingua come quello a cui è stata sottoposta la parola in questione. Spero di essermi spiegata, la ringrazio per il suo commento.
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