Emanuela De Vita
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Quanti di noi, immersi nella lettura di un grande classico come Moby Dick, o catturati dagli intrighi dell’ultima opera di Stephen King, si sono mai fermati a pensare al fatto che quella storia che avevano davanti agli occhi non aveva “visto la luce” con quelle stesse parole che stavano leggendo, bensì con le parole di un’altra lingua? Ben pochi, di certo. Nel momento in cui si legge, si è di norma coinvolti dalla trama e – giustamente! – non si pensa alla lingua, a meno che essa stessa non “si faccia notare” per qualche motivo (ad esempio, vistosi errori ortografici).
Tuttavia, se ci si vuole soffermare a pensare, il fattore “traduzione” apre scenari di riflessione linguistica interessanti, soprattutto se si considera il fatto che circa un terzo delle tirature totali di romanzi oggi in commercio in Italia è frutto di una traduzione da una lingua straniera. Come si potrà facilmente intuire, inoltre, una lingua su tutte spicca come lingua da cui si traduce: l’inglese, con oltre la metà dei titoli tradotti e due terzi delle rispettive tirature (senza considerare, oltre ai libri, altri prodotti culturali e d’intrattenimento come film e serie tv!). Lasciando volutamente da parte gli allarmismi relativi a una presunta “invasione” di anglismi (per cui si rimanda a questo contributo), ci si può chiedere se, nei fatti, l’italiano dei romanzi tradotti porti in sé qualche “traccia” dell’inglese della loro stesura originaria, non a livello lessicale, bensì sintattico, un livello di analisi linguistica che di solito risente poco del contatto con altre lingue. Per rispondere a questa domanda ho condotto uno studio su un corpus di testi, ponendo a confronto romanzi scritti fin dal principio in italiano con romanzi tradotti in italiano dall’inglese e, al contempo, i testi tradotti con le loro versioni originali in inglese.
Vediamo alcuni fenomeni interessanti che sono emersi.
- Maggiore esplicitazione dei pronomi soggetto: lui uscì…
Chiunque mastichi anche minimamente l’inglese sa che c’è una regola importante relativamente ai pronomi personali soggetto: devono essere sempre esplicitati. Il che significa che non possono mai essere sottintesi, cosa che invece in italiano non solo è possibile, ma è addirittura preferibile in assenza di particolari condizioni di ambiguità. Quindi, per esempio, in inglese dirò: “Today I’ll have pasta for lunch”, ma in italiano: “Oggi [Ø] mangerò la pasta per pranzo” (se esplicitassi il pronome la frase non sarebbe più neutra, ma assumerebbe una sfumatura contrastiva: “Oggi io mangerò la pasta… [tu fai come vuoi]”). Immaginatevi però di dover tradurre un testo inglese: potreste, anche senza accorgervene, essere portati a “seguire” passo passo la struttura della frase di partenza, e quindi potreste trovarvi a produrre una frase completa di pronome soggetto, per quanto magari quest’ultimo sia un po’… inutile. Nonostante la professionalità dei traduttori che si occupano delle opere letterarie, talvolta questo “istinto” coglie anche loro. Una semplice ricerca quantitativa, infatti, ha mostrato che il numero di pronomi soggetto di terza persona nei romanzi tradotti dall’inglese è parecchio più alto rispetto a quello degli stessi pronomi nei romanzi “nativi” italiani. Nello specifico, il numero di loro cresce dell’8%, quello di lui del 39,7% e quello di lei addirittura dell’87%!
- L’aggettivo qualificativo prima del nome: i lunghi capelli…
In inglese, si sa, l’aggettivo qualificativo va collocato sempre prima del nome a cui si riferisce; in italiano, al contrario, può essere collocato sia prima che dopo, nonostante si tenda a considerare come neutro l’ordine nome-aggettivo. Di nuovo, però, il traduttore potrebbe essere tentato di riprodurre l’ordine della frase di partenza, laddove possibile.
In realtà, la situazione varia molto a seconda del tipo di aggettivo e del suo significato. Alcuni aggettivi, come quelli che esprimono un colore, ad esempio, in italiano vengono sempre posti dopo il nome, se non in casi rari e particolari, come i testi poetici (“le bionde trecce” di Battisti… ma “gli occhi azzurri”, non “gli azzurri occhi”!). Con questo tipo di aggettivi, non a caso, l’interferenza dall’inglese si verifica molto raramente, anche se nel mio corpus ho comunque individuato almeno un paio di casi:
“avevo visto i rossi manici della barella” (da “I had seen the red handles of the stretcher”);
“vide una sconosciuta bicicletta” (da “she saw an unfamiliar bicycle”).
Di sicuro, sono costruzioni che fanno “storcere il naso” a un parlante (o a un lettore) italofono.
Diverso è il caso di altri tipi di aggettivi, che anche in italiano vengono comunemente usati prima del nome: con questi aggettivi, l’“istinto” del traduttore di seguire l’ordine della frase inglese è molto meno inibito dalle regole della propria grammatica mentale. Per fare un solo esempio, pensiamo alla coppia di alternative “capelli lunghi” e “lunghi capelli”: la ricerca ha confermato che i romanzi nativi italiani preferiscono la prima opzione, mentre quelli tradotti dall’inglese la seconda!
- Il soggetto prima del verbo inaccusativo: la posta è arrivata…
Esiste un gruppo di verbi il cui soggetto ha alcune caratteristiche sintattiche tipiche dell’oggetto, e che in italiano seleziona essere come ausiliare. Con questi verbi, detti “inaccusativi”, la posizione più naturale per il soggetto è quella posposta. Si pensi a una frase come “È scoppiata una lampadina”: l’ordine inverso (“Una lampadina è scoppiata”) è possibile, e tuttavia suona meno naturale, o sembra suggerire che il soggetto sia già stato introdotto nel discorso (si parlava di lampadine?). L’inglese non ha questa doppia opzione: il soggetto va collocato esclusivamente (se non con rarissime eccezioni) prima del verbo, qualunque natura esso abbia. Il traduttore, dunque – ormai avete capito – tenderà a seguire l’ordine della frase modello. Quindi, per esempio, nei romanzi analizzati si è trovata questa traduzione: “Nothing so important has come on the market for years” → “Nulla di così importante è arrivato sul mercato da anni”, quando, con tutta probabilità, un italiano madrelingua avrebbe prodotto spontaneamente frasi come: “Da anni non arriva nulla di così importante sul mercato” oppure “Erano anni che non arrivava qualcosa di così importante sul mercato”.
L’indagine ha messo in luce molti casi simili, sebbene, probabilmente anche a causa della grande flessibilità in termini di ordine delle parole che caratterizza l’italiano, il fenomeno non sia emerso particolarmente a livello quantitativo.
- La perifrasi progressiva: stava piovendo…
Secondo gli esperti, la costruzione stare + gerundio (la cosiddetta “perifrasi progressiva”) è in espansione in italiano a prescindere da fattori esterni. Un tempo, per esempio, per esprimere l’aspetto progressivo, si sarebbe detto con molta probabilità “Mario leggeva”, mentre oggi, sempre di più, si dice “Mario stava leggendo”. In questa evoluzione naturale, tuttavia, il modello inglese potrebbe agire da fattore di rinforzo e accelerazione, dal momento che la corrispondente forma progressiva (“la forma in –ing”, del tipo “He was reading”) si è da molto più tempo stabilizzata e diffusa, e risulta a oggi l’unico modo per esprimere l’aspetto progressivo. E dunque, se in un testo inglese troviamo una perifrasi (“it is / was raining”), sarà molto facile e immediato per noi tradurla con la corrispondente perifrasi (“sta / stava piovendo”), piuttosto che pensare ad un tempo semplice, come il presente o l’imperfetto (“piove / pioveva”), seppur il significato sia identico. La ricerca condotta avvalora nettamente questa tesi: nei romanzi nativi italiani sono state rilevate 1.379 occorrenze di perifrasi progressiva, mentre nelle traduzioni dall’inglese ben 2.315: un incremento del 63%! Interessante anche il fatto che da un’ulteriore indagine è emerso che, tra quelli analizzati (e qui presentati molto sinteticamente), la perifrasi progressiva è il tratto che meno “salta all’occhio” nei testi tradotti: un lettore non lo riconosce come “strano”, in quanto effettivamente non lo è! Essendo pienamente previsto dal sistema linguistico italiano è probabile che, anche grazie alle traduzioni, il suo utilizzo nella lingua parlata e scritta cresca sempre di più.
Tirando le somme…
I romanzi tradotti dall’inglese sono caratterizzati da un italiano “anglicizzato”? Sì e no!
Il titolo provocatorio di questo articolo contiene, sicuramente, un’etichetta troppo generica ed estremista. Tutto ciò che si è detto non deve far pensare, infatti, che l’italiano delle traduzioni sia un italiano “corrotto”, un grande calco dall’inglese. Bisogna infatti sottolineare alcuni punti: in primis, l’interferenza della lingua di partenza su quella di arrivo è una caratteristica tipica della traduzione in generale, dovuta al “contatto” virtuale delle due lingue all’interno della competenza del traduttore; non riguarda, quindi, solo l’inglese. Inoltre, l’interferenza sintattica dovuta alla traduzione dall’inglese (ma anche da altre lingue) non genera mai – se non eccezionalmente – frasi totalmente inaccettabili (in gergo tecnico, agrammaticali). In altre parole, non altera le regole della lingua, non le infrange totalmente. Essa, infatti, interessa soprattutto strutture linguistiche per le quali la lingua d’arrivo, in questo caso l’italiano, contempla già una scelta, magari tra due o più varianti. Tra queste la “forza di attrazione”, in questo caso dell’inglese, fa sì che venga selezionata la variante che meglio corrisponde a quella presente nel testo di partenza, magari a costo di “forzare” un po’ quelle convenzioni d’uso che normalmente guidano le scelte linguistiche dei parlanti in base al contesto. Insomma, se si può dire che l’italiano dei romanzi tradotti dall’inglese non è (e non sarà mai) un grande calco dall’inglese, si può altrettanto dire, però, che non è nemmeno lo stesso identico italiano parlato (o scritto) spontaneamente dai parlanti nativi!
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