Serenella Baggio
Università di Trento
Facendo ordine si trovano cose che ci si era dimenticati di avere. Quando l’Archivio Fonografico dell’Accademia delle Scienze di Vienna ha deciso di festeggiare il centenario della sua nascita (1899-1999) digitalizzando la sua sezione antica, fatta di dischi in cera incisi con tecnica Edison in verticale e di negativi in rame placcato nichel, ha scoperto di avere delle registrazioni dialettali italiane che risalivano al 1918.
La vita del pendolare non è facile. Ma viaggiando una volta per un tratto con un collega che non si vede da tempo non è detto che ci si racconti solo qualche vicenda personale. È stato così, per caso, che sono venuta a sapere di quelle registrazioni dialettali da un etnomusicologo che ha casa a Trento e insegna all’Università di Cagliari, Ignazio Macchiarella.
Era il 2016 e stavamo tutti lavorando da due anni per il centenario della Grande Guerra, smontando i miti della retorica nazionalista. Io mi stavo occupando di fonti scritte popolari, rileggevo criticamente il libro di Leo Spitzer sulle Lettere di prigionieri di guerra italiani, assegnavo tesi di ricerca a studenti che mi portavano epistolari, diari, memorie dei loro bisnonni, donne e uomini costretti dalla guerra a lasciare paesini del Trentino per affrontare la profuganza nei campi di raccolta boemi, le donne, e la vita militare o la prigionia dalla Galizia alle steppe dell’Asia centrale e alla Siberia, gli uomini. Macchiarella aveva cominciato a collaborare con tre archivi sonori: oltre a quello Fonografico di Vienna, il suo corrispettivo di Berlino e, ancora a Berlino, il Lautarchiv, nato dopo la guerra, nel 1920, per dividere le registrazioni del parlato da quelle musicali. Emergevano cilindri di cera e dischi, che avevano conservato voci cavernose da una distanza temporale finora impensabile per gli studi etnomusicologici come dialettologici.
Immagine 1. Dischi in cera (© Phonogrammarchiv, Österreichische Akademie der Wissenschaften)
Il giorno dopo ho scritto a Vienna e ho comperato coi miei fondi di ricerca la riproduzione delle tracce sonore italiane insieme ai rispettivi verbali d’archivio. Pochi mesi dopo ho mandato un mio bravo allievo trentino, Stefano Bannò, con una borsa di studio di tre mesi, al Lautarchiv di Berlino perché studiasse la situazione e ci facesse la sua tesi magistrale. Nel 2016 era uscita la mia miscellanea Memorie della guerra dove avevo dato spazio alle ricerche degli studenti e di alcuni colleghi su fonti inedite (archivi familiari, archivi diocesani, Archivio della scrittura popolare) e di storia orale; io parlavo di Spitzer, ma Ignazio Macchiarella, nel suo contributo (Voci catturate: a proposito di alcune registrazioni di canti di prigionieri italiani della Grande Guerra, pp. 81-101), aveva già modo di mostrare in concreto, con esempi, l’interesse che avevano alcune registrazioni berlinesi per la storia delle tecniche del canto popolare regionale. Il libro cominciò a circolare e fu presentato in varie sedi universitarie. Poiché era uscita in contemporanea la nuova edizione italiana curata da Lorenzo Renzi delle Lettere di prigionieri di Leo Spitzer, ci trovammo a volte a presentare i nostri libri insieme. Renzi sapeva dell’esistenza di registrazioni fonografiche berlinesi, ma non di quelle italiane; la British Library aveva acquisito quelle relative ai soldati dell’esercito britannico, anglofoni o delle colonie, e i dialettologi inglesi e irlandesi erano già al lavoro.
Renzi e io fummo invitati insieme nel febbraio del 2017 all’Accademia della Crusca ad un convegno di linguisti e di storici intitolato Le voci della grande guerra, organizzato da Alessandro Lenci e Nicola Labanca. Nonostante il titolo, le voci di cui si stava parlando erano metaforicamente quelle delle scritture. Fu sorprendente per tutti che si potessero invece ‘sentire’ voci di quella guerra. Avrei dovuto parlare per venti minuti e finii per occupare quasi un’ora, facendo ascoltare anche un paio di registrazioni, nell’emozione generale. Rivolsi all’Accademia della Crusca, nella persona del suo Presidente, Claudio Marazzini, la proposta di acquisire tutto il materiale sonoro italiano, di Vienna e di Berlino, per conservarlo e studiarlo, seguendo l’esempio di Londra e di Dublino.
Fu invece l’Archivio Fonografico di Vienna a prendere contatto con me in quei mesi e a offrirmi di collaborare alla pubblicazione in digitale delle 15 tracce sonore in loro possesso; sarebbe bastata la mia supervisione alla loro trascrizione in un italiano semplificato dei testi recitati. Accettai, ma pensai subito che la scoperta meritava tutt’altro impegno scientifico. Mi misi a trascrivere i verbali, che contenevano i dati anagrafici sui ‘fonografati’, la trascrizione fonetica della loro performance, una trascrizione semplificata e la traduzione in tedesco.
Immagine 2. Esempio di verbale. Traccia audio. (© Phonogrammarchiv, Österreichische Akademie der Wissenschaften)
Le 15 tracce erano state raccolte in due campi di prigionia austriaci, i Lager di Mauthausen e Marchtrenk, in due giorni dell’aprile del 1918, da un linguista molto noto, Karl Ettmayer von Adelsberg, allora titolare della cattedra viennese di Linguistica Romanza che era stata di Wilhelm Meyer-Lübke. Nell’uso del fonografo lo avevano coadiuvato un linguista più giovane, Hans Pollak, e un fisico, Leo Hajek, entrambi impiegati come tecnici nell’Archivio. Ettmayer non era un topo di biblioteca. Era esperto di ricerca dialettale sul campo nell’area trentino-occidentale e ladina e si era servito già del fonografo per le sue inchieste; ne condurrà altre in val Gardena, ancora con il fonografo e sempre con la collaborazione di Hajek, nell’agosto del 1918, ultimi mesi di guerra e prossimi al disastro dell’impero asburgico.
Immagine 3. L’apparecchio per le registrazioni (© Phonogrammarchiv, Österreichische Akademie der Wissenschaften)
Quella della raccolta delle voci dei prigionieri italiani nei due Lager non era stata, però, una sua iniziativa personale. Ferveva nei campi di prigionia un’attività coperta dal segreto di stato, svolta nelle infermerie al riparo da occhi indiscreti e dai rumori che avrebbero compromesso la qualità del sonoro. Nel 1915 era stata istituita, come a Berlino, una Commissione Fonografica, allo scopo di approfittare della comoda occasione che avvicinava agli studiosi (antropologi, etnomusicologi, ultimi arrivati i linguisti) i rappresentanti di popolazioni appartenenti a tutti i continenti, spesso di remote etnie, arruolati negli eserciti coloniali della prima guerra globale. Le tecnologie disponibili permettevano di fotografare, filmare e registrare i prigionieri a cui si chiedeva di riprodurre comportamenti del loro folklore, danzando, cantando, suonando, recitando. Si nutriva l’ambizioso proposito di raccogliere un archivio delle lingue e delle culture del mondo che avrebbe enormemente favorito gli studi accademici e sarebbe rimasto a disposizione nel tempo per chi se ne fosse poi voluto servire per scopi scientifici, dalla fisica del suono alla dialettologia.
Alla fine della guerra, catastrofica, com’è noto, per i due imperi centrali, il principale responsabile della Commissione Fonografica di Berlino, Wilhelm Doegen, un glottodidatta anglista strenuo sostenitore delle nuove tecnologie, pubblicò un libro (Unter fremden Völker) per mostrare al mondo il servizio che la comunità accademica di lingua tedesca aveva fatto all’umanità durante il conflitto, ottimizzando le risorse e, come oggi si direbbe, il capitale umano. La ‘nuova etnologia’, nonostante la guerra e grazie alla guerra, aveva documentato, a perenne memoria universale, la varietà delle culture e delle lingue, in particolare quella delle lingue esotiche in altri continenti e delle lingue minoritarie in Europa (il basco in Francia, le parlate sarde in Italia) che si ritenevano a rischio di estinzione nel mondo globalizzato. Nel libro di Doegen molti degli studiosi che avevano partecipato alla raccolta nei campi di prigionia poterono scrivere dei risultati del loro lavoro, fino ad allora, come si è detto, tenuti segreti, tanto che, durante la guerra, chi voleva pubblicare articoli scientifici con esempi tratti dal proprio lavoro di raccolta, doveva passare al vaglio della censura e non poteva che alludere vagamente ad una propria inchiesta in corso. Ma il libro report era uscito fuori tempo massimo e cadde nel disinteresse generale, né bastò a riabilitare il mondo accademico tedesco, già compromesso dal sostegno che nel 1914 aveva dato al Reich per l’invasione del Belgio, paese neutrale: 93 professori di chiara fama avevano firmato un Manifesto rivolto a intellettuali di tutto il mondo, accusando gli avversari della Germania di aver scatenato contro la ‘razza bianca’ Mongolen e Neger.
Di tutto questo Spitzer, ebreo pacifista, chiuso nell’Ufficio Censura di Vienna, seppe poco o niente. Capii subito che la sua ricerca sulle lettere andava quindi considerata a parte rispetto all’iniziativa istituzionale tanto rilevante dei due governi imperiali e delle rispettive Accademie. Resta ancora molto misterioso, al limite dell’incomprensibilità, il generoso impegno di mezzi, finanziari e tecnici, oltre che di accademici profuso nella grande inchiesta. Cos’erano veramente i campi di prigionia? La Germania guglielmina aveva sperimentato già nel colonialismo in Namibia i Konzentrationslager e il genocidio delle minoranze Herero e Nama (1904-1907); molto se ne discute oggi a proposito della creazione a Berlino dell’Humboldt Forum, un grande museo dedicato alle arti extraeuropee, che dovrebbe esporre oggetti provenienti dal bottino coloniale. I verbali che accompagnano le registrazioni portano prestampata, fra i dati anagrafici del prigioniero, la voce Rasse (o Stamm, origine etnica), categoria classificativa normale per un’antropologia che ancora poco distingueva tra aspetto fisico e aspetto culturale. E allora la Germania di oggi, sensibile al tema del razzismo e critica verso il proprio passato, vede anche nelle voci, nei manufatti, nelle ossa raccolti nei campi di prigionia di guerra e depositati negli Archivi, delle proprietà violate, degli oggetti materiali e immateriali rubati con intento predatorio, che, forse, si dovrebbero restituire alle comunità d’origine.
Se non vogliamo dare ragione a Doegen 1925 e pensare che si lavorasse, disinteressatamente, a favore della conoscenza dei popoli e della pace, dovremo trovare spiegazioni migliori, anche con l’aiuto degli storici.
Per approfondire
Bannò, Stefano. 2018. Voci e scritture di prigionieri italiani della prima guerra mondiale. Rivista Italiana di Dialettologia 41. 171-196.
Baggio, Serenella (a cura di). 2016. Memoria della guerra. Fonti scritte e orali al servizio della storia e della linguistica (Labirinti 161). Trento: Università degli studi di Trento.
Baggio, Serenella. 2019. I Phonogrammarchive di Berlino e Vienna. Un banco di prova per i linguisti. Lingua e Stile 1. 95-118.
Baggio, Serenella. 2019. Il parlato nelle fonti della Grande Guerra. Le prime registrazioni dialettali. Quaderni di semantica 5. 287-306.
Doegen Wilhelm (a cura di). 1925. Unter fremden Völkern: eine neue Völkerkunde. Berlino: Stollberg.
Ettmayer, Karl von. 1902. Lombardisch-Ladinisches aus Südtirol. Ein Beitrag zum oberitalienischen Vokalismus. Romanische Forschungen 13. 321-672.
Johler, Reinhard, Christian Marchetti & Monique Scheer (a cura di). 2010. Doing anthropology in wartime and war zones. World War I and the cultural sciences in Europe. Bielefeld: Transcript.
Lange, Britta. 2013. Die Wiener Forschungen an Kriegsgefangenen 1915-1918. Anthropologische und ethnographische Verfahren im Lager. Vienna: Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften.
Spitzer, Leo. 1921. Italienische Kriegsgefangenenbriefe. Materialien zu einer Charakteristik der volkstümlichen italienischen Korrespondenz. Bonn: Hanstein V. [ed. it. Lettere di prigionieri di guerra italiani. 1915-1918, Milano, il Saggiatore 2016).
Volpi, Mirko (a cura di). 2018. Voci della Grande Guerra. Atti della giornata di studi (Firenze, Villa Medicea di Castello, 10 febbraio 2017). Firenze: Accademia della Crusca.
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