Nicole Marinaro
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Vi siete mai chiesti quante lingue esistono al mondo? Il sito Ethnologue stima che le lingue parlate oggi siano più di 7000, ma in realtà non esiste una risposta definitiva. La cifra oscilla costantemente, tanto per le difficoltà legate alla catalogazione, quanto per la natura delle lingue stesse, entità dinamiche e soggette a continui cambiamenti. La caduta in disuso di alcune lingue non costituisce certo una novità, ma il dato che oggi risulta allarmante è la velocità con cui migliaia di idiomi si stanno estinguendo: secondo diversi studiosi, almeno la metà delle lingue parlate nel mondo si sarà spenta entro la fine del XXI secolo. Che cosa sta succedendo?
Un dato dal quale partire è il grande squilibrio tra il numero di parlanti delle lingue del mondo: sempre secondo Ethnologue, si stima che siano solo 200 le lingue parlate come idioma nativo dall’88% della popolazione mondiale. Alle altre migliaia di lingue non rimane quindi che una base demografica ristretta, in alcuni casi minima, e per quanto la correlazione non sia automatica, il numero esiguo di parlanti rappresenta in ogni caso un fattore indicativo di una possibile situazione di rischio.
Ma a cosa è dovuta una simile disparità? Non certo a una qualità intrinseca agli idiomi stessi, dal momento che non esistono lingue migliori o peggiori di altre; il destino di una lingua dipende, invece, da fattori prettamente sociali, politici ed economici. Le lingue non sono entità indipendenti, ma prodotti sociali che vivono nella mente e nella voce dei loro parlanti. La loro fortuna o sfortuna, quindi, è legata dalle vicende del gruppo umano che le utilizza: l’esempio più intuitivo è quello della morte improvvisa di una lingua in seguito a un genocidio o a una catastrofe naturale.
Una lingua, però, può sparire anche se le persone che la parlavano rimangono in vita, ma non la trasmettono più ai propri discendenti: in questo caso, si parla di language shift, intendendo con questo termine il processo graduale per cui una comunità di parlanti arriva a sostituire la propria lingua con un’altra. Questo cambiamento è spesso frutto di un’imposizione esterna, come nel caso dell’assimilazione coatta di una minoranza da parte di uno stato centrale, o della conquista militare di un territorio abitato da una popolazione indigena. Tristemente famoso è, ad esempio, il caso delle boarding school nordamericane, collegi che decine di migliaia di bambini amerindiani, sottratti alle loro famiglie, vennero costretti a frequentare, al fine di una completa assimilazione alla cultura dominante: l’intenzione era quella di “uccidere l’indiano per salvare l’uomo”. Un altro esempio è la lunga storia di oppressione della minoranza curda da parte dello stato turco.
Casi, come questo, di veri e propri genocidi culturali, si collocano all’estremo più violento di uno spettro di possibili politiche, messe in atto da stati o regioni in tutto il mondo, e che attraverso una discriminazione attiva o passiva producono effetti deleteri sulle lingue parlate da gruppi umani spesso emarginati e minoritari. La costante, in questo ventaglio di possibilità, è costituita dal fatto che il language shift – inteso come fenomeno collettivo – sia la conseguenza di una qualche forma di imposizione violenta, per quanto non sempre esplicita ed evidente: la rinuncia alla propria lingua e cultura, insomma, non è quasi mai frutto di una libera scelta.
La decisione dei genitori di non trasmettere la propria lingua ai figli – uno degli indicatori più significativi del rischio di estinzione – è dovuta, per lo più, al fatto che i parlanti arrivino a considerarla inutile, se non dannosa, per il loro futuro. Si tratta, quindi, di una strategia di sopravvivenza volta a far fronte a pressioni esterne: la propria lingua potrebbe, ad esempio, essere il segno distintivo di una minoranza fortemente discriminata; potrebbe essere ignorata ed esclusa dal sistema educativo e dalle istituzioni; potrebbe essere considerata un relitto antiquato, inadatto al mondo moderno, una zavorra inutile che ostacola il tentativo di sfuggire a situazioni di povertà ed emarginazione.
Il graduale passaggio, generazione dopo generazione, a lingue percepite come dominanti e più utili rispetto alla propria è quindi un risultato delle pressioni sociali, politiche ed economiche della globalizzazione. Se ne possono trovare esempi in tutto il mondo: per citarne solo alcuni, i Sami, una popolazione indigena che vive nel territorio degli attuali stati scandinavi, sono spinti ad adottare come lingua propria lo svedese, il finlandese o il norvegese; l’espansione dello swahili, la lingua decretata come ufficiale in alcuni paesi come Kenya e Tanzania, mette a rischio altre lingue con un minor numero di parlanti; in Papua Occidentale, il prestigio dell’indonesiano e l’immigrazione di abitanti da altre province del paese esercitano una forte pressione sulle lingue indigene dell’isola. Ma, in realtà, non è necessario guardare tanto lontano: molti dei dialetti parlati in Italia hanno avuto una sorte simile. Così, accade che una lingua perda progressivamente domini d’uso, cioè i suoi spazi nella società, mentre i parlanti rimasti diventano sempre meno e invecchiano senza poterla più usare con i propri figli o nipoti. Anche dietro quella che, a uno sguardo superficiale, potrebbe sembrare una libera scelta dettata dalla volontà di competere sul mercato globale, si cela in realtà un profondo dramma umano e sociale.
Queste decisioni, apparentemente volontarie e vantaggiose a livello economico, sono spesso legate a una violenza non perpetrata direttamente sui parlanti, ma sul loro habitat. Un esempio estremamente attuale è quello della deforestazione in America Latina, che oltre ad avere conseguenze deleterie a livello ecologico, depriva le popolazioni indigene dell’Amazzonia della loro base di sussistenza, spingendole quindi ad assimilarsi alla cultura urbana, e spesso condannandole a rimanerne ai margini.
Come osservano Nettle & Romaine (2001), se questi problemi sono in stretta correlazione, la buona notizia è che anche le soluzioni lo sono.
La cartina in Figura 1, che mette a confronto la distribuzione nel mondo della diversità biologica (A) e della diversità linguistica (B), ne suggerisce l’interdipendenza: si può osservare, infatti, che entrambe sono prevalentemente concentrate nelle stesse aree, cioè nelle zone tropicali.
Figura 1. A. Hotspot di biodiversità e aree selvatiche con alta biodiversità. B. Distribuzione geografica di lingue indigene e non immigrate nel 2009. Fonte: Gorenflo, Romaine, Mittermeier & Walker-Painemilla (2012).
Gli stessi fattori naturali che favoriscono la diversità biologica influenzano anche la diversità linguistica: in entrambi i casi, ad esempio, l’isolamento – rispettivamente riproduttivo e comunicativo – gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo di una grande varietà di specie e di lingue. Uno sviluppo sostenibile, che protegga la ricchezza degli ecosistemi del mondo (soprattutto delle sue zone più povere), porta quindi a preservare anche le lingue e le culture che in quelle nicchie ecologiche sono nate e si sono sviluppate per secoli. Al contempo, diversi autori sottolineano come siano proprio questi gruppi umani i più adatti e qualificati a prendersi cura dell’ambiente naturale in cui vivono, essendone grandi conoscitori; ambiente che, come è risaputo, rappresenta un tesoro inestimabile per tutti noi.
Il mantenimento della propria lingua non è un diritto fondamentale dell’uomo solo a livello astratto e teorico, ma ha una ricaduta concreta sulla vita e sulla salute dei parlanti. Recenti studi, condotti ad esempio in Australia, hanno dimostrato la correlazione tra il mantenimento o la rivitalizzazione della propria identità culturale – di cui l’idioma rappresenta, naturalmente, un elemento fondamentale – e una migliore salute fisica e mentale, con cali significativi dei tassi di abuso di alcol e droghe, di suicidi e di violenza domestica.
Uno dei possibili ruoli di un linguista può consistere proprio nel documentare e registrare lingue a rischio di estinzione. Si tratta di un compito di grande rilevanza, dal momento che, nella grande maggioranza dei casi, queste lingue non hanno una forma scritta, e svanirebbero nel nulla con la morte degli ultimi parlanti. L’importanza di questo lavoro non deriva solamente da ragioni etiche: ciascuno di questi idiomi, infatti, rappresenta un deposito di sapere biologico, storico e culturale di valore inestimabile. Millenni di conoscenza scientifica, accumulata attraverso uno stretto rapporto con il proprio ecosistema naturale, sono codificati nelle parole che ne descrivono stagioni, cicli di vita, piante e animali.
Ad esempio, come spiegano Nettle & Romaine (2001), una tendenza comune a molte lingue del Pacifico è il fatto che nelle parole usate per classificare pesci e pratiche di pesca sia ‘impacchettata’ la dettagliata conoscenza dell’ambiente e dei cicli lunari. La denominazione di determinati giorni del mese suggerisce la probabilità di pesca proficua intorno alle notti di luna nuova: per esempio, a Namoluk, un atollo delle Isole Caroline, la notte precedente alla luna nuova è chiamata Otolol, che significa ‘sciamare’, in riferimento ai pesci. Harrison (2007) sottolinea che, per quanto sia possibile tentare una traduzione, sostituire le parole di una lingua con quelle di un’altra porta inevitabilmente alla perdita di almeno una parte della conoscenza implicita che si nasconde dietro queste tassonomie.
Spesso, quindi, questo sapere muore insieme alle lingue, senza che sia neppure possibile stimare l’entità del danno che ne deriva. Ogni lingua descrive e narra il mondo in un modo unico e peculiare; ogni voce che si spegne, ogni mito, racconto o canzone non più tramandati, sono quindi tasselli perduti per sempre dal mosaico della diversità umana.
Possiamo concludere, quindi, che ogni lingua è degna di essere preservata e protetta. In questo senso, le ricerche dei linguisti che le documentano possono fornire – attraverso la produzione di grammatiche e materiali didattici, ma anche contribuendo a riaffermarne il valore culturale – un aiuto prezioso alle comunità che decidano di mantenere in vita e continuare a trasmettere il proprio idioma.
Per approfondire
ABS (Australian Bureau of Statistics). 2009. National Aboriginal and Torres Strait Islander Social Survey (NATSISS), 2008.
Eberhard, David M., Gary F. Simons & Charles D. Fennig (eds.). 2020. Ethnologue: Languages of the world. Twenty-third edition. Dallas, Texas: SIL International.
Gorenflo, J. Larry, Suzanne Romaine, Russell A. Mittermeier & Kristen Walker-Painemilla. 2012. Co-occurrence of linguistic and biological diversity in biodiversity hotspots and high biodiversity wilderness areas. Proceedings of the National Academy of Sciences. May 22, 2012.
Hagege, Claude. 2002. Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità. Milano: Feltrinelli.
Harrison, K. David. 2007. When languages die: The extinction of the world’s languages and the erosion of human knowledge. Oxford: Oxford University Press.
Nettle, Daniel & Suzanne Romaine. 2001. Voci del silenzio. Sulle tracce delle lingue in via di estinzione. Roma: Carocci.
UNESCO (United Nation Educational, Scientific and Cultural Organization). 2001. UNESCO Universal Declaration on Cultural Diversity: Adopted by the General Conference, 31st session, Paris, 15 October to 3 November 2001. Paris: UNESCO.
2 Commenti
Nicola 01 Ottobre, 2020
Mi vedo d’accordo a metà… Io sono sempre stato dell’avviso che non bisogno discriminare nessuno sulla base della lingua che parla, che ognuno debba essere libero di parlare la lingua che vuole senza essere discriminato, convengo che sia opportuno documentare e registrare tante lingue minori (cosa che fino a non troppo tempo fa non era tecnicamente possibile) prima che scompaiano…
Eppure, non sono mai stato d’accordo che le lingue vadano DIFESE o SALVATE. Le lingue sono come le specie viventi (lo diceva anche Darwin nel capitolo 14 della seconda edizione de “Le origini della specie”): nascono, crescono, poi si estinguono, è un processo naturale. Provo orrore quando questo processo viene imposto, ma se poi una lingua si estingue semplicemente perché la gente che la parla si estingue o cambia, non ci vedo nulla di male, anzi, mi permetto di dire che impiegare risorse (preziose e mai sufficienti) per tenerla artificiosamente in vita con tutte le cose che ci sono da fare sarebbe una violazione delle priorità.
Un’altra cosa (qui diventerò meno popolare, ma pazienza…) è che di solito quelli che si ergono a difensori di una lingua ormai moribonda non si accorgono che è già troppo tardi e che bisognava agire prima. Non imponendo lo studio della lingua minoritaria nelle scuole (spesso gli stessi bambini non hanno alcun interesse), ma “facendo qualcosa di buono con quella lingua”. Cerco di spiegarmi. Gli antichi Romani hanno fatto tantissime cose egregie: non a caso il latino ha prosperato a lungo e, anche quando è scomparso, ha lasciato tracce evidenti, e finché ci sarà l’uomo ci sarà gente che studia il latino. Tante popolazioni oceaniche, per esempio, ma anche solo di molte regioni italiane, non hanno fatto nulla di rilevante. Perché i loro figli dovrebbero voler preservare la lingua dei loro avi? Per loro gli avi sono storia, non hanno alcun vantaggio dall’imparare quella lingua e non la sentono come “loro”. Se i loro bisnonni o trisavoli avessero fatto qualcosa di importante con quella lingua (chessò, della letteratura di pregio, oppure delle sentenze in tribunale…), allora il problema non si porrebbe proprio. Se sento dei gruppi minoritarî in Italia, per esempio, che a gran voce chiedono risorse per insegnare una qualche lingua moribonda nelle scuole e parlano di “soprusi linguistici” quando i loro figli per primi non vogliono imparare quella lingua e con quella lingua non puoi fare nulla di “utile”, mi sembra veramente un malinteso senso della “uguaglianza”, che rasenta il ridicolo.
Nicole Marinaro 13 Ottobre, 2020
Grazie del suo commento.
Il punto dell’articolo è che, per lo più, le lingue si estinguono precisamente perché i parlanti sono messi in una condizione tale da non essere liberi di parlare la propria lingua. Non si tratta quindi di sprecare risorse in un processo artificioso, ma di garantire un diritto fondamentale: la difesa di una lingua è inscindibilmente legata alla garanzia di condizioni socioeconomiche dignitose per la comunità che la parla.
Per quanto riguarda l’ultimo paragrafo del suo commento, osserverei che il valore di una lingua non dipende dal suo apporto alla letteratura o alla giurisprudenza, che peraltro spesso giunge ai nostri giorni per meri accidenti storici (e la cui valutazione non è certamente esente da un qualche grado di eurocentrismo). Ogni lingua ha valore e dignità di per sé, in quanto espressione di una comunità, per quanto questa sia piccola o poco conosciuta. Spesso questo valore viene disconosciuto sulla base di una presunta inutilità, che segue però i parametri della cultura dominante, senza che si tenga conto di ciò che effettivamente possa apportare o meno un beneficio alla comunità in questione. Tendenzialmente, proprio lo scarso valore associato alla lingua minoritaria induce i ragazzi a non volerla studiare.
Ha ragione a dire che bisognerebbe agire subito, ma la prima linea d’azione da intraprendere sarebbe proprio quella di insegnare a scuola che ogni lingua vale, che ogni idioma porta con sé un bagaglio di ricchezze inestimabile, e che il diritto a mantenere la propria cultura dovrebbe essere un diritto inalienabile.
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