Elisabetta Magni
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Spesso ci capita di usare l’aggettivo ambiguo per descrivere situazioni, comportamenti, discorsi o altri aspetti complessi della realtà che viviamo, percepiamo e comunichiamo. Ma questo termine, come già il suo antenato latino ambigŭus (da amb(i)- ‘intorno’ e agō ‘condurre’), ci trascina in più direzioni, per poi lasciarci in sospeso tra il senso di incerto, opaco, dubbio, e quello di molteplice, equivoco, doppio.
E così, perdendo le certezze e inseguendo i significati, finiamo nelle trame dell’ambiguità, che, nel legame con l’incertezza, si insinua nella prassi degli studiosi di gestione del rischio e processi decisionali, di economia e statistica, di fisica e matematica, nonché di teoria dell’informazione. Inteso invece come molteplicità di interpretazioni, il fenomeno attrae da sempre gli specialisti del segno linguistico, che ne hanno fatto l’oggetto di riflessioni critiche o di sperimentazioni creative.
Indubbiamente, le espressioni ambigue complicano il lavoro dei lessicografi e dei traduttori, ma possono anche inficiare la trasparenza e l’applicabilità delle norme formulate dai giuristi, o la validità delle argomentazioni elaborate dai retori e dai filosofi. Per questo i logici, progettando linguaggi formali fondati sull’univocità e la coerenza, hanno relegato l’ambiguità tra i limiti del linguaggio umano. D’altra parte, gli scrittori e i critici letterari ritengono che la ricchezza e la sovrapposizione di significati siano invece un pregio dell’opera d’arte che si sottrae a una lettura scontata e lineare. Inoltre, i doppi sensi e i giochi di parole non ispirano solo gli inganni degli oracoli, ma anche l’ironia e l’inventiva di umoristi, pubblicitari ed enigmisti.
Tra la diffidenza di chi ne evita le insidie e il favore di chi ne apprezza il fascino, questo concetto multiforme trova un punto di vista imparziale in chi, per mestiere, osserva le proprietà delle lingue in modo analitico e non normativo, indagandone le manifestazioni e precisandone il ruolo nell’uso dei sistemi.
Nella prospettiva dei linguisti, l’ambiguità, come fatto eminentemente semantico, riguarda i segni e le loro interpretazioni, ma, come fatto latamente comunicativo, chiama in causa anche il contesto e gli interlocutori. Inoltre, la moltiplicazione delle corrispondenze tra espressione e contenuto riguarda tutti i livelli e le categorie della lingua, scritta e parlata: nel lessico si manifesta come equivocità quando un significante rinvia a più significati, ad esempio nelle parole polisemiche (come caffè: ‘pianta’, ‘bevanda aromatica’, ‘locale pubblico’) e negli omonimi (come faccia: sostantivo e voce del verbo fare). Ma anche la sintassi presenta strutture equivoche del tipo Il libro di fiabe di Calvino, in cui lo scrittore può essere sia l’autore che il possessore del volume, o La professoressa di storia americana, in cui l’aggettivo può riferirsi sia all’insegnante che alla materia insegnata.
Di norma però le unità linguistiche non si presentano in isolamento, e le ambivalenze si sciolgono facilmente attraverso il contesto, la punteggiatura o l’intonazione dell’enunciato. Pertanto è opportuno distinguere la dimensione astratta e virtuale da quella concreta e reale del fenomeno, che, nel primo caso può anche passare inosservato, mentre nel secondo mette in luce i differenti ruoli degli interlocutori. L’ambiguità effettiva può infatti essere accidentale o strategica cioè indotta inconsapevolmente, oppure creata deliberatamente dal parlante (o scrittore): in entrambi i casi, essa provoca dapprima l’esitazione dell’ascoltatore (o lettore), poi l’intuizione di significati multipli e quindi il recupero di indizi utili alla disambiguazione.
Questo processo segue percorsi differenti a seconda dei casi: Ho visto mangiare un pollo è un esempio di ambiguità selettiva, in cui l’indecisione causata dalla ‘biforcazione’ di sensi mutuamente esclusivi si risolve scegliendo uno dei due scenari possibili: o l’animale è vivo in quanto soggetto dell’azione, oppure è morto perché ne è l’oggetto. Diversamente, quando Hannibal Lecter parla di un vecchio amico per cena, ci sorprende con l’ambiguità cumulativa, in cui lo ‘sdoppiamento’ di sensi sovrapposti genera la macabra ironia sull’invitato: vivo all’inizio e morto alla fine del pasto. D’altronde, leggendo la frase Ho voglia di mangiare Maria, è invece probabile che la perplessità sul cannibalismo lasci spazio alla ricerca di sensi ‘nascosti’ e della virgola mancante che, anteposta a Maria, le salva la vita!
Di fatto, l’equivoco si muove spesso sul filo del ‘non detto’ e tra i tasselli dimenticati nel discorso, ma prima che l’inferenza intervenga a colmare le lacune del messaggio, è l’impasse interpretativa che svela la possibilità di diverse letture. Insomma, l’ambiguità non esiste a priori, ma scaturisce dall’incertezza associata a qualunque segno, o combinazione di segni, che sia passibile di interpretazioni multiple in un dato contesto.
Figura 1. Coppa di Rubin.
In altre parole, confrontarsi con un’espressione ambigua è un po’ come osservare un’illusione figurativa: nella Coppa di Rubin (in Figura 1) percepiamo due immagini in conflitto e selezioniamo quella del calice su fondo nero, o quella dei profili su fondo bianco, mentre nella Scala di Penrose (in Figura 2) accettiamo il paradosso della discesa e della salita infinite e compresenti. In questi i casi, così come nell’ambiguità linguistica, l’opacità dell’oggetto sfida l’attività analitica del cervello, stimolando l’emergere di soluzioni alternative.
Figura 2. Scala di Penrose.
Ma se i percorsi di disambiguazione sono così tortuosi e il loro fallimento può creare incomprensioni, come si spiega la presenza dell’ambiguità nelle lingue? Se si escludono gli usi strategici, creativi o ludici, questa caratteristica è un vero e proprio rompicapo perché, apparentemente, diminuisce l’efficienza del codice linguistico. In teoria è infatti vero che, alterando la prevedibilità del rapporto tra espressione e contenuto, le forme ambigue conferiscono ai messaggi un livello di ‘sorpresa’ che incrementa il ‘disordine’ o, per dirla con i teorici dell’informazione, l’entropia complessiva del sistema. In pratica però i dati contestuali permettono normalmente di inferire il significato più probabile rispetto alla comunicazione in corso.
Quindi, a ben guardare, nelle lingue naturali l’ambiguità rappresenta un duplice beneficio, perché consente sia di omettere le informazioni superflue e inferibili, sia di reimpiegare le parole più brevi, frequenti e polisemiche variando sensi e funzioni. Per questo, i sistemi che tendono all’efficienza comunicativa (riducendo la ridondanza nei messaggi) e cognitiva (limitando le forme da memorizzare) sono intrinsecamente ambigui e, a differenza dei linguaggi formali, bilanciano l’entropia tramite il contesto.
Ciò nonostante, l’enigma non è del tutto risolto perché, pur essendo un fattore positivo e stabile nel funzionamento sincronico delle lingue, l’ambiguità resta ancora un’incognita sul piano diacronico. Un esempio dei suoi numerosi intrecci con i meccanismi del cambiamento linguistico è la vicenda del lat. vagabundus lett. ‘che è incline a vagare’, un derivato in –bundus dal verbo vagor ‘errare, vagare’, che continua nello sp. vagabundo. Il passare del tempo aumenta l’opacità morfologica e semantica del termine al punto che, nel XV secolo, i parlanti lo reinterpretano con l’etimologia popolare, inventando il composto più trasparente vagamundo ‘giramondo’, poi affiancato dal femminile vagamunda!
Casi simili mostrano che, nel divenire delle lingue, l’ambiguità può essere sia il prodotto che la causa dei mutamenti: ma questa è un’altra storia, e una nuova giravolta del labirinto.
Per approfondire
Magni, Elisabetta. 2020. L’ambiguità delle lingue. Roma: Carocci.
Magni, Elisabetta & Yahis Martari (a cura di). 2020. L’ambiguità nelle e tra le lingue. Prospettive a confronto. Numero speciale di Quaderni di Semantica (6).
Piantadosi, Steven T., Harry Tily & Edward Gibson. 2012. The communicative function of ambiguity in language. Cognition 122(3). 280-91.
Wasow, Thomas, Amy Perfors & David Beaver. 2005. The puzzle of ambiguity. In Orhan Orgun & Peter Sells (a cura di), Morphology and the web of grammar: Essays in memory of Steven G. Lapointe, 265-282. Stanford: CSLI Publications.
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