Emanuele Miola
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
In questo articolo, risponderemo a una delle domande che gli utenti del web interessati alla linguistica si pongono più di frequente: che differenza c’è tra lingua e dialetto?
Bisogna dire subito che saremo costretti a semplificare almeno un po’ un tema che è molto complicato almeno per due motivi: prima di tutto, perché – come vedremo tra pochissimo – i concetti centrali di questo articolo sono usati, nel parlare quotidiano, con significati diversi tra loro e diversi da quelli che danno loro gli specialisti; secondariamente, perché la comunità stessa degli studiosi delle scienze del linguaggio è molto ampia e copre specializzazioni differenti, e pertanto possono esserci anche pareri discordanti, com’è naturale che sia in un dibattito scientifico aperto.
Per iniziare, comunque, dobbiamo sapere che cosa intendono i linguisti quando usano la parola ‘dialetto’ e la parola ‘lingua’.
Per la linguistica moderna, con ‘dialetto‘ ci si riferisce, ad esempio, a parlate come quelle di singole città, villaggi o frazioni, come il dialetto di Catania, il dialetto della borgata Mondagnola di Frabosa Soprana (in provincia di Cuneo) o il dialetto di Chioggia (comune della città metropolitana di Venezia).
Tuttavia, nell’italiano che usiamo tutti i giorni, ‘dialetto’ può indicare anche altre cose. C’è infatti chi lo utilizza in un’accezione più larga rispetto a quella che abbiamo appena visto, per indicare entità come il siciliano, il piemontese, il veneto e via dicendo. Queste, però, per il linguista sono lingue tanto quanto l’italiano, il tedesco, il giapponese o il maori.
Una ‘lingua‘, infatti, è un insieme di parlate, con i loro particolari suoni, parole, frasi ed espressioni (cioè un insieme di dialetti o, per usare un altro termine tecnico, di ‘varietà’), differenti ma altamente intercomprensibili. Per fare il caso del siciliano, dunque, questo sarà formato dal dialetto di Catania, da quello di Agrigento, di Caltanissetta, di Cefalù, di Enna, di Palermo, di Patti e da tutti quegli altri dialetti che, pur con piccole differenze di pronuncia, di lessico e di grammatica, hanno un alto grado di intercomprensibilità.
Siciliano, piemontese, veneto e via dicendo sono dunque lingue diverse tra loro e, naturalmente, anche lingue diverse dall’italiano: infatti, ad esempio, un parlante di italiano che non ha avuto alcun rapporto con il Piemonte o con i piemontesi non comprenderà il piemontese tanto da poter prendere parte a una conversazione normale. Nelle sedi specialistiche, una buona etichetta con cui indicare lingue come queste è ‘lingue regionali‘ (o ‘minoritarie’), come proposto, tra gli altri, dal Consiglio d’Europa. Per lingue regionali si intenderà lingue parlate in una certa area, che non corrisponde a un’intera nazione, ma che non necessariamente coincide con una regione amministrativa. Val la pena di aggiungere che le lingue regionali parlate in Italia (e i loro dialetti) discendono direttamente dal latino e non sono quindi delle modificazioni o corruzioni dell’italiano, ma piuttosto delle lingue ‘sorelle’ dell’italiano.
C’è anche chi utilizza la parola ‘dialetto’ per riferirsi agli accenti, alle cadenze oppure alle espressioni particolari che si sentono da persone che provengono da regioni d’Italia diverse quando parlano l’italiano. Questi, per il linguista, sono tratti propri di quel che chiama, con maggior precisione terminologica, ‘varietà geografiche o regionali d’italiano‘. Queste varietà sono circoscritte a parti o macroaree d’Italia e, diversamente da quanto abbiamo detto per le lingue regionali e i loro dialetti, sono altamente comprensibili da tutti coloro che parlano italiano, da qualsiasi regione provengano. Ad esempio, a questo link si può ascoltare una signora di Torino che parla la varietà di italiano regionale piemontese, che è ben diversa dalla lingua piemontese così com’è parlata a Torino che si sente invece qui.
Gli italiani regionali fanno dunque parte di quell’insieme di varietà, differenti ma comunque ben intercomprensibili, che formano la lingua italiana. Si potrebbe dire, insomma, che i dialetti locali (ad esempio il chiozzotto, il veneziano, il padovano ecc.) stanno alle lingue regionali (in questo caso il veneto) così come gli italiani regionali (di Torino o del Piemonte, di Roma, di Sardegna ecc.) stanno alla lingua italiana, la nostra lingua nazionale.
I concetti che abbiamo visto nei paragrafi precedenti sono visivamente illustrati e riassunti nell’immagine qui sotto.
Tra i falsi miti che si sentono a volte sui dialetti e sulle lingue regionali ce ne sono almeno due piuttosto duri a morire. Il primo, cui abbiamo già fatto cenno prima, vuole che le lingue regionali e i loro dialetti siano una corruzione della ‘buona lingua’, ovvero dell’italiano, e che siano perciò inferiori, rozzi, addirittura che il loro uso sia capace di abbruttire, in special modo le ragazze (come si evince da certi commenti da bar del tenore di “le contadine una volta parlavano solo dialetto ed erano tutte senza denti; guarda invece le ventenni di oggi”). Niente di tutto questo è vero: i dialetti delle lingue regionali, lo abbiamo già visto, non discendono dall’italiano, ma sono figli del latino passato di bocca in bocca per secoli in un determinato luogo. Quanto alla rozzezza e all’abbruttimento, è noto che Piero Angela sia un parlante fluente di piemontese, che Sophia Loren parli napoletano e che la campionessa di sci e influencer Sofia Goggia conosca una varietà di lombardo…
In secondo luogo, ogni tanto si sente portare a supporto della inferiorità delle lingue regionali o dei loro dialetti il fatto che siano senza grammatica o addirittura senza regole. È quasi inutile dire che se davvero si trattasse di lingue e varietà senza regole, nessuno potrebbe usarle per comunicare con qualcun altro, ma questo non corrisponde certo al vero: in Italia, per esempio, circa un italiano su due sa far uso, oltre che dell’italiano, di una delle lingue regionali presenti sul territorio e la impiega per dialogare con altri. Non solo: molte lingue regionali dispongono di una letteratura e di tradizioni importanti. Il Ruzzante (1502-1542), ad esempio, scriveva in una varietà antica di veneto; Pirandello ha scritto un certo numero delle sue commedie anche in siciliano, cosa che rende questa lingua praticamente l’unica lingua regionale d’Italia a vantare testi originali scritti da un premio Nobel per la letteratura. Inoltre, quello che è stato ritenuto dalla critica il miglior disco italiano degli anni ’80 ed è ai primi posti della classifica di Rolling Stone dei cento dischi italiani più belli… non è in italiano! Si tratta Creuza de mä (così il titolo sull’ellepì del 1984) di Fabrizio De André, interamente cantato in un dialetto ligure.
Usando la terminologia specialistica, dunque, la domanda iniziale potrebbe ora essere riformulata così: che differenza c’è tra lingue nazionali e lingue regionali?
Dal punto di vista esclusivamente linguistico, l’abbiamo ripetuto più volte: nessuna. Le differenze saranno semmai di tipo sociale. Ad esempio, in genere una lingua regionale è parlata da un numero di persone minore di chi parla la lingua nazionale e infatti praticamente tutti coloro che parlano siciliano in Italia parlano anche italiano, ma non è vero il contrario. Inoltre, una lingua regionale di solito non ha gli stessi riconoscimenti giuridici di cui gode una lingua nazionale: molte delle lingue regionali italiane, ad esempio, attendono ancora di essere riconosciute dallo stato con adeguate leggi. Questi mancati riconoscimenti contribuiscono a diminuire il prestigio e ad aumentare la svalutazione delle lingue regionali, non di rado anche da parte dei loro stessi parlanti, che decidono di non usarle più, o sono costretti ad abbandonarle dalle circostanze. La possibile morte delle lingue regionali, che si verificherebbe se nessuno le parlasse più, sarebbe un’enorme catastrofe non solo dal punto di vista culturale, ma anche in termini cognitivi, in quanto essere bilingui fa bene anche al nostro cervello.
Per approfondire
ParlaTO (Corpus plurilingue del parlato di Torino)
VIVALDI (Vivaio Acustico delle Lingue e dei Dialetti d’Italia)
Wichmann, Søren. 2019. Why languages and dialects really are different animals. Aeon.
11 Commenti
Camilla Cederna 17 Luglio, 2020
Grazie. Si dovrebbe citare per la letteratura il caso di carlo Goldoni e delle sue commedie in veneziano
Marta Maddalon 21 Settembre, 2020
Sono Marta Maddalon, docente di linguistica generale e glottologia all’università della Calabria. Da sempre mi occupo di sociolinguistica; la mia formazione è avvenuta a Padova con Alberto Mioni, John Trumper e con i maggiori sociolinguisti britannici e americani, alle cui analisi ho sempre fatto riferimento. Dire che sono esterrefatta non rende l’idea. Queste definizioni fornite sono piuttosto personali e le motivazioni addotte sono, in alcuni punti, francamente errate. La situazione italiana è molto ben analizzata in letteratura; negli anni ’60-’70 e ’80 la creazione o meno di koiné regionali è stata commentata sulla base di studi di sociolinguistica, qualitativa e quantitativa assai precisi. Certo, bisogna conoscere bene la dialettologia, la linguistica storica dell’italiano e le fonti per disegnare un quadro che abbia senso. In Calabria NON esiste nessun calabrese ma dire questo ha poco senso, meglio costruire un quadro preciso della storia linguistica della regione, a partire da tempi remoti e studiarne i circuiti linguistici in sincronia e diacronia. Poi, capìta questa complessità italiana, si può, con semplicità, proporre definizioni di lingua e dialetti.
Emanuele Miola 28 Settembre, 2020
Spiace comprendere di essere stato così poco chiaro nella stesura del mio intervento da suscitare lo sconcerto di una specialista, che nell’intervento ravvisa definizioni personali e in alcuni casi errate.
Le definizioni cui è implicito il riferimento non possono che essere quelle di ‘dialetto’, ‘lingua’, ‘lingua regionale’ e ‘varietà geografiche o regionali di italiano’. Le riporto di seguito per comodità:
Per la linguistica moderna, con ‘dialetto’ ci si riferisce, ad esempio, a parlate come quelle di singole città, villaggi o frazioni […].
Una ‘lingua’ […] è un insieme di parlate, con i loro particolari suoni, parole, frasi ed espressioni (cioè un insieme di dialetti o, per usare un altro termine tecnico, di ‘varietà’), differenti ma altamente intercomprensibili.
Per lingue regionali si intenderà lingue parlate in una certa area, che non corrisponde a un’intera nazione, ma che non necessariamente coincide con una regione amministrativa.
Queste varietà [cioè le ‘varietà geografiche o regionali d’italiano’] sono circoscritte a parti o macroaree d’Italia e […] sono altamente comprensibili da tutti coloro che parlano italiano, da qualsiasi regione provengano. […] Gli italiani regionali fanno dunque parte di quell’insieme di varietà, differenti ma comunque ben intercomprensibili, che formano la lingua italiana.
La prima definizione, quella di ‘dialetto’, mi pare null’altro che la parafrasi della seconda accezione data s.v. dal GRADIT: “nella linguistica angloamericana e francese, varietà regionale o connotata socialmente della lingua ufficiale” (io estendo, com’è in realtà prassi nella linguistica angloamericana, l’applicazione della definizione a tutte le lingue, non solo a quelle ufficiali). Penso che spicchi bene il parallelismo “varietà regionale” / “parlate come quelle di singole città, villaggi o frazioni”. Si tratta cioè sempre di varietà diatopiche. Inoltre, nella definizione di lingua appare chiaro che il sostantivo ‘parlata’ è un termine che uso per i non esperti e che equivale, nell’economia della pagina, al tecnicismo ‘varietà’. Si noti anche “ad esempio”, costruzione esemplificativa che allude al fatto che si potrebbe parlare di ‘dialetti’ anche per altri tipi di varietà dia-, come le varietà socialmente connotate (diastratiche), che ho evitato di trattare perché d’accordo con i gestori della pagina si era deciso di affrontare il problema solo dal punto di vista della linguistica teorica e non della sociolinguistica o della storia linguistica d’Italia.
Se poi si bada alla formulazione, l’unico spazio per dir così personalistico è “per la linguistica moderna”: in questo modo, io – se si vuole, un esperto della materia – asserisco che la linguistica, per diventare più scientifica e, almeno a mio dire, moderna, dovrebbe avvicinarsi di più alla terminologia specialistica impiegata in ambito anglofono o francofono. Una posizione certamente discutibile, ma che non penso possa ritenersi tout court errata.
La definizione di ‘lingua’ è in pratica una traduzione, con alcune aggiunte, della definizione “a language is a collection of mutually intelligible dialects”, nella quale ovviamente ‘dialects’ ha come traducente italiano acclimato ‘varietà’, contenuta nella p. 3 della seconda edizione di “Dialectology” di Chambers e Trudgill (CUP, 2004).
Penso che nessuno possa sollevare dubbi che dal punto di vista scientifico una lingua è un insieme di varietà differenti (ovvero, una “gamma di varietà”). Invocando il criterio – questo sì non condiviso da tutta la comunità scientifica – della mutua comprensibilità mi ponevo nel solco, tra gli altri, di Mioni e Arnuzzo-Lanszweert (Sociolinguistics in Italy, “IJSL” 21, 1979) quando scrivono che “Italian dialects are not just variants of the Standard form (either substandard or local alternative standards of the same language) but are rather separate languages, much different from the Standard and from each other, so that they are rarely mutually intelligible if they do not belong to adjoining areas” (p. 82): si dice cioè che i dialetti d’Italia non sono dialetti dell’italiano, ma piuttosto lingue differenti, indicando come criterio di differenziazione proprio la mutua intelligibilità (cosa ribadita ancora alla pagina seguente).
È certamente vero che nel testo di Chambers e Trudgill citato sopra gli autori (pp. 3-4) discutono subito criticamente il criterio della mutua intelligibilità, ma io, da parte mia, penso che i problemi additati da Chambers e Trudgill siano ora superati dalle ricerche di Wichmann e colleghi (linkate direttamente in calce alla pagina web).
Quando parlo delle ‘lingue regionali’ (o ‘minoritarie’) e ne do esempi, ricalco in buona sostanza la definizone che ne dà il Consiglio d’Europa: “‘regional or minority languages’ means languages that are: (i) traditionally used within a given territory of a State by nationals of that State who form a group numerically smaller than the rest of the State’s population; and (ii) different from the official language(s) of that State; it does not include either dialects of the official language(s) of the State or the languages of migrants” (“Carta europea per le lingue regionali e minoritarie”, come al solito, ‘dialect’ vale ‘varietà’). Piemontese, veneto, siciliano e tutte le altre lingue regionali d’Italia che ho in mente rientrano precisamente in questa definizione, per quanto la Carta non sia stata ancora ratificata dall’Italia. Del resto, che il piemontese (ma anche le varietà altre citate e quelle consimili) possa essere a buon diritto dal linguista chiamato ‘lingua’ è mostrato, tra i moltissimi esempi possibili, dalla p. 3 di “La linguistica. Un corso introduttivo” di Berruto e Cerruti (Utet, 2017, enfasi non originali): “Oggetto della linguistica sono dunque le cosiddette __lingue storico-naturali__, vale a dire __le lingue__ nate spontaneamente lungo il corso della civiltà umana e usate dagli esseri umani ora o nel passato: l’italiano, il francese, il romeno, lo svedese, il russo, il cinese, il tongano, il latino, il sanscrito, il swahili, il tigrino, __il piemontese__ ecc.” Considerazioni simili, che prendono in considerazione la distanza linguistica e il punto di vista storico, si leggono a p. 232.
Circa il concetto di ‘varietà geografiche o regionali di italiano’, basti ancora il rinvio allo stesso manuale di base, p. 285: “le varietà diatopiche dell’italiano sono i cosiddetti ‘italiani regionali’”. Che in genere la classificazione degli italiani regionali si articoli in macroaree è riscontrabile, tra i moltissimi altri, in Poggi Salani 2010 (Italiano regionale, in “Enciclopedia dell’Italiano”, disponibile anche online); che siano altamente comprensibili a tutti gli italiani – se ce ne fosse il bisogno – si può evincere dalla lettura del cap. 1 di “Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo” di Gaetano Berruto (qualsiasi edizione).
Tutto sommato, quand’anche le definizioni offerte da me potessero dirsi personali, mi pare che siano appoggiate su lavori, anche di consultazione, di amplissima diffusione, non solo nazionale, e di comprovata autorità scientifica.
Ora, l’uso del criterio della mutua intelligibilità, se accettato, porta senz’altro a concludere che in Calabria non esista (ness)un calabrese. In effetti questo criterio ci direbbe con tutta probabilità che sul territorio della Calabria si parlano almeno due lingue regionali italo-romanze, la ‘punta’ d’Italia ospitando varietà che afferiscono a quello che ho chiamato siciliano; le varietà parlate a nord di un certo fascio di isoglosse essendo invece parte di quello che si può trovare etichettato come alto meridionale o Southern Italo-Romance.
Ma d’altronde Calabria e calabrese non vengono menzionati mai nel testo, perché se l’avessi fatto avrei dovuto trattare questioni molto tecniche, non adatte secondo me a un approccio divulgativo, che è proprio del sito che mi ha voluto ospitare. Ho menzionato direttamente piemontese, veneto e siciliano (aggiungendo sempre vaghi “e così via”, “e via dicendo”) proprio per evitare questo tipo di polemiche, dato che tutti riconoscono l’esistenza di una koiné regionale piemontese e veneta, e dato che per la letteratura il siciliano gode di uno standard, anche grafico (“L’abbondante e spesso anche pregevole letteratura dialettale si serve di uno standard di costituzione settecentesca e molto stabile”, Varvaro 1988, Italienisch: Areallinguistik XII. Sizilien, in “LRL”, Band IV, p. 717). Ovviamente sia le koinài sia il siciliano standard sono stati coinvolti negli ultimi decenni nei processi di dekoinizzazione descritti dagli studi in merito.
In ogni caso, l’appello (velato) all’esistenza o alla mancanza di koinài mi sembra fuori luogo, in quanto in un discorso linguistico-teorico – come è quello che mi è stato richiesto e che faccio nel testo (cfr. spie come “cosa intendono i linguisti”, il già citato “per la linguistica moderna”, “per il linguista” e molte altre) – è chiaro che si può avere (e anzi secondo me si ha) una lingua anche senza la presenza di koiné o standard. Tralasciando l’esempio classico del norvegese, alla ribalta della discussione accademica degli ultimi anni è salito il pirahã, che non è dotato di koiné o di standard, ma che nessuno oserebbe non considerare ‘lingua’ al pari di inglese, italiano ecc.: anzi una lingua tanto importante che per alcuni studiosi può ridefinire le caratteristiche stesse delle lingue storico-naturali.
Infine la frase “capìta questa complessità italiana, si può, con semplicità, proporre definizioni di lingua e dialetti” sembra lasciar intendere per la nostra nazione una situazione del tutto peculiare rispetto al resto del mondo.
Pur ribadendo che per necessità non ho fatto che brevissimi cenni alla storia linguistica d’Italia (e non dubito che linguisticamente.org approfondirà questo tema con contributi di studiosi ferrati in materia), invece che ravvisare nell’Italia un caso particolarissimo, io ritengo che sarebbe meglio presentarne la situazione così com’è: un paese multilingue, come tanti, ma, come tanti, non governato, almeno per l’occhio dello scienziato, da una frammentazione estrema o inaudita. Piuttosto, un paese ricco di diversità orizzontale (che è studiata dalla tipologia), articolata al suo interno in tante diversità verticali (oggetto precipuo di sociolinguistica e dialettologia).
Proporre definizioni di ‘lingua’ e ‘dialetto’ diverse da quelle offerte nel mio contributo (che resta comunque solo un punto di partenza per la ricerca, non certo un approdo, e accetta, come scritto nel cappello introduttivo, anche i pareri discordanti, purché argomentati e non frutto di pregiudizio) ci espone – mi pare – a gravi aporie, evidenti anche a uno studente del primo anno, come mi è capitato di toccare con mano spesse volte. Una su tutte: è prassi sentir dire che ogni dialetto può essere considerato e definito lingua e che in Italia in ognuno degli 8000 comuni si parla un dialetto diverso (ergo, una lingua diversa), quindi ci si riferisce al mondo intero e si dice che le lingue sono circa 7000. È naturale che chi abbia un grano di sale si chieda come queste affermazioni possano essere tutte vere contemporaneamente.
La mia proposta terminologica – mi pare – è semplice ma anche scientificamente robusta dato che si basa (a) sul principio che entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem (se un “dialetto” è strutturalmente una lingua non c’è motivo di usare, almeno nelle sedi teoriche, un’etichetta diversa; per segnalare differenze non strutturali è sufficiente un’adeguata qualificazione: ufficiale, nazionale, regionale – nel senso da me spiegato nella pagina web – o ancora alta, bassa ecc.) e (b) sull’evitamento della polisemia, perniciosissima per la terminologia specialistica di una scienza come vuole essere la linguistica: ‘dialetto’, nella tradizione italiana, può riferirsi tanto al catanese quanto al siciliano, che pure sono evidentemente due ‘oggetti linguistici’ differenti, dal momento che il primo è una ‘contenuto’ nell’altro.
Del resto, i problemi che scaturiscono dall’uso polisemico di ‘dialetto’ nelle sedi scientifiche sono ormai riconosciuti da un largo numero di studiose e studiosi, e non certo unanimemente risolti. Ad esempio, nel recentissimo “Italiano e dialetto”, di Cerruti e Regis (Carocci, 2020), si definisce ‘dialetto’ come “un sistema linguistico a sé stante e non una varietà geografica o sociale di lingua” (p. 9; ovvero ciò che io preferisco chiamare ‘lingua regionale’). Come si vede, gli autori (riposando sulla prima accezione di ‘dialetto’ nel GRADIT) risolvono la polisemia secondo una prospettiva (che direi sociolinguistica o dialettologica) opposta rispetto alla mia (appunto, linguistico-teorica): se, per riprendere l’esempio di prima, io sostengo che si debba chiamare ‘dialetto’ solo il catanese, e non il siciliano; loro propongono di chiamare ‘dialetto’ solo il siciliano, e non il catanese (perché è una varietà geografica del siciliano). Cerruti e Regis, a ben guardare, si allontanano dunque anche loro, consapevolmente, dal tradizionale impiego di ‘dialetto’, in quanto con la loro definizione negano che così si possano definire l’altamurano, il bolognese, il milanese ecc., cosa tutt’altro che pacifica nella letteratura scientifica (e basta dare uno sguardo alla bibliografia del loro stesso volume).
Ripeto: Cerruti e Regis propongono etichette in un certo senso opposte alle mie, ma questo fermento (ri)definitorio mi pare possa essere letto come il sintomo del fatto che, tra i linguisti, l’uso polisemico di (‘lingua’ ma soprattutto di) ‘dialetto’ sta mostrando tutti i suoi limiti e si è ben lontani da ritenere che vi sia una soluzione semplice al problema. La mia proposta, se non altro, è una di quelle sul tappeto.
Chiara Scanavino 20 Ottobre, 2020
Emanuele, così come l’hai esposta nel commento qui sopra è tutto corretto e chiaro. Ma personalmente, da persona che ha studiato per anni sociolinguistica e il tema “il tedesco come lingua pluricentrica” presso l’Università di Duisburg, trovo che nell’articolo tu l’abbia davvero un po’ raccontata di parte…
Che questo non sia il posto più ideale per discussioni molto teoriche, perfettamente d’accordo. Ma io al tuo posto avrei scritto che alcuni linguisti, soprattutto studiosi americani, definiscono “dialetto” le parlate regionali (secondo questa definizione anche l’americano e l’australiano sono dialetti dell’inglese). Mentre altri (es. Ulrich Ammon) considerano dialetti tutte quelle varietà come il piemontese, il lombardo, etc.
Emanuele Miola 28 Ottobre, 2020
Grazie anche di questo commento. Mi sembra che il punto sia sempre uno solo: e cioè che l’etichetta ‘dialetto’ si adopera tra gli specialisti con (almeno) due significati diversi a seconda che si tratti di sociolinguistica, di cui appunto Ammon è uno dei massimi esponenti, o di altre branche della linguistica. Questo era quanto intendevo dire nel cappello introduttivo, che recita tra l’altro: “la comunità stessa degli studiosi delle scienze del linguaggio è molto ampia e copre specializzazioni differenti, e pertanto possono esserci anche pareri discordanti, com’è naturale che sia in un dibattito scientifico aperto”.
Pur a voler tralasciare la polisemia dell’etichetta ‘dialetto’, comunque, e per non fare che qualche esempio, accade di rado e sembra almeno un po’ controintuitivo definire il Pennsilfaanisch Deitsch un dialetto dell’inglese; o il pirahã un dialetto del portoghese, anche se vi si attaglierebbe benissimo la definizione di ‘dialetto’ à la Ammon, o quella cui ho accennato in un altro commento, fornita da Cerruti e Regis 2020.
Se di partigianeria mi si può tacciare, si può al massimo dire che – come mi è stato richiesto – ho parlato dalla parte del linguista teorico, o del tipologo. Per quest’ultima branca della materia, peraltro, la definizione di ‘lingua’ e ‘dialetto’ mi paiono di cardinale importanza. La tipologia studia la variazione interlinguistica e ambisce a generalizzazioni del genere di “il 45% delle lingue del mondo adotta come ordine non marcato l’ordine SOV”: senza una definizione di chiara ‘lingua’, come potrebbe essere quella che ho proposto, si rischia di falsare enormemente i calcoli percentuali, con evidenti cadute sulla ricerca.
luca sechi 27 Ottobre, 2020
chiedo a voi specializzati in materia,
ma non ho visto accenni al sardo.
cosa mi potete dire in proposito ?
grazie Luca
Rino 20 Dicembre, 2020
Ho una domanda per i linguisti esperti. Lingue o dialetti che siano, ogni parlata ha una “casetta di attrezzi” per esprimere dei concetti. Non credo che nella cassetta degli attrezzi del napoletano, siciliano ecc.ci siano gli strumenti per tradurre Essere e tempo di Heidegger,i canti di Rilke o di Holderlin o di Leopardi, Dante o della fisica quantistica e così via. Pertanto, non potrebbe essere questa la differenza tra Lingua e dialetti :la differenza di orizzonti? Lingue diverse possono essere traducibili, avendo analoga “attrezzatura” ma non è possibile un analogo scambio tra lingue e dialetti
Francesca Donazzan 30 Dicembre, 2020
Buongiorno Rino, pur non essendo un’esperta vorrei comunque proporre la mia idea. Non sono d’accordo con la sua ipotesi finale: ci sono termini stranieri intraducibili in altre lingue, se non attraverso perifrasi. Penso ad esempio al tedesco ‘Sehnsucht’ nell’accezione romantica, che si può tradurre solo con una perifrasi (che potrebbe essere ‘forte e sofferto anelito verso qualcosa o qualcuno di difficilmente raggiungibile’), o al nostro ‘abbiocco’ (‘drowsiness after a great lunch’ ??). Per me è illuminante un bellissimo libro (che, mi rendo conto, è difficilmente godibile da un non veneto, anche perché è fuori catalogo, ahimè) di Luigi Meneghello, “Maredè, maredè…”: è composto di frammenti sugli usi lessicali, sintattici e non solo del vicentino. Uno degli aspetti più esaltanti è il libero gioco di interferenze tra le sue tre lingue (definisco, per comodità, L1 dialetto, L2 italiano, L3 inglese). Nel libro, oltre ad esempi di intraducibilità di termini L1 – che conforterebbero pertanto la sua ipotesi – come ‘freschin’ (trad. mia: ‘odore che rimane sulle stoviglie non lavate adeguatamente con aceto, limone o simili, dopo averci mangiato pesce o uova’), ci sono anche dei godibilissimi casi in cui la parola dialettale trova una traduzione possibile solo in inglese, saltando a piè pari la lingua mediana, l’italiano (es.: ‘dirghe-su a qualcuno’ > “ha la press’a poco la forza dell’EN tell off, tick off”, pag. 42). Oppure: “Il soprannome ‘Balòco’ dice cose che non saprei come dire con una parola italiana, se mai si avvicina a ‘Lump’ ” (pag. 60). Quindi due casi (ma non sono gli unici) di traducibilità dialetto – lingua straniera.
Antonio 04 Maggio, 2023
>al nostro ‘abbiocco’
Volendo essere precisi, “abbiocco” non è “nostro”, cioè italiano, ma è vocabolo del dialetto romanesco, che l’Italiano è uso saccheggiare spesso e volentieri forse per darsi un’espressività maggiormente colorita di cui non è forse poi così fornito. Lo si può constatare con una semplice ricerca su un qualsiasi vocabolario italiano del termine che lo ha originato: “biocca”, vale a dire, “chioccia”, gallina che cova.
Il termine “abbiocco” origina appunto dalla postura della chioccia che durante la cova viene sovente colta da sprazzi di sonnolenza con conseguenti sussulti della testa che tende a cadere verso il basso, salvo subitanee impennate una volta che l’animale si ridesta a causa del movimento inconsulto dovuto al sopore. Esattamente come capita alle persone che rischiano di addormentarsi quando vorrebbero invece rimanere sveglie.
Il termine “biocca”, infatti, non verrà trovato su alcun vocabolario italiano, non facendo esso parte della lingua unitaria.
Però “abbiocco”, di contro, è ormai talmente “sdoganato” – a causa della solita inflazione romanocentrica telecinematografica – da comparire anche sui vocabolari, e ben pochi si rendono conto che in origine non appartiene alla lingua italiana, per la quale può costituire al massimo un “prestito”. Personalmente mi è capitato di trovare persone del profondo Nord (Vaprio d’Adda, città metropolitana di Milano) convinte che tale termine, ma anche quello parallelo di “pennica” fossero termini dell’italiano regionale lombardo, tanto da farli precedere dal proverbiale detto: “come si dice dalle MIE parti…”. Potenza dell’omologazione culturale…
Stefano 25 Giugno, 2021
Grazie per aver citato la mia borgata: Mondagnola di Frabosa Soprana 😉
Franco Tamassia 14 Novembre, 2021
Nella pagine che precedono si parla del problema del rapporto fra lingua e dialetto trascurando la dimensione geopolitica del problema che investe anche il problema delle definizioni e condiziona gli stessi linguisti a seconda del loro indirizzo politico. In sintesi: una parlata comune serve a costruire una Nazione per la quale la lingua comune, intercomprensibile nella Regione, è un momento di arrivo e non di partenza. I movimenti secessionisti che vogliono eliminare la Nazione alla quale non vorrebbero appartenere, esigono di elevare giuridicamente il dialetto (c.d. lingua regionale) al rango di lingua per giustificare l’indipendenza politica di una Regione e farla diventare Nazione e quindi Stato indipendente. è storicamente comprovato che spesso (non sempre) i movimenti secessionisti in uno Stato sono supportati da agenti di Stati confinanti per mettere in crisi uno Stato antagonista. Lo strumento principale per questa operazione è quello linguistico che tende a mettere in crisi la lingua nazionale vigente per farle perdere la comprensibilità, sostituendola con una lingua straniera.
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