Fabio Romanini
Università di Trieste
Se potessimo tornare indietro nel tempo e passeggiare per le strade di alcune città italiane del XII, XIII o XIV secolo, e anche ben oltre, sentiremmo la popolazione parlare una lingua locale, un volgare, molto diverso da luogo a luogo. Per le città più grandi, tale differenza era un tempo avvertibile anche tra quartieri diversi, come notò Dante riguardo a Bologna, e in particolare relativamente alla diversità di parlate tra Borgo San Felice e Strada Maggiore (De vulgari eloquentia, I 9).
Nel corso di quei secoli lo sviluppo dei commerci, e dei contatti, portò gradualmente alla formazione di parlate regionali, promosse dalle burocrazie di corte; in particolare nel Nord nacque una varietà, chiamata oggi di koinè (sul modello delle varietà greche), che presentava poche marcature lombarde, venete o emiliane, ma si fondava su un lessico comprensibile su un vasto territorio. Boiardo e altri autori del Quattrocento scelsero questa varietà per le loro opere letterarie; ma già all’epoca si avvertiva una tendenza alla toscanizzazione della lingua scritta. Cercando un codice di espressione letteraria, infatti, gli autori necessitavano di un modello per i loro testi; e inevitabilmente questo modello veniva identificato nei grandi autori del Trecento fiorentino, che avevano raggiunto fama indiscussa e imperitura.
Il XV secolo è infatti il momento della definitiva affermazione, ben al di fuori dei confini toscani, di Dante, Petrarca, Boccaccio; delle loro opere, certo, ma soprattutto della loro lingua, o piuttosto del loro modello linguistico, che portava con sé l’apprezzamento di un genere letterario (la poesia narrativa, la lirica d’amore, la novella o comunque il racconto breve), di una tradizione discorsiva (cioè di una serie di formule o di modalità di espressione che influenzavano la sintassi o la costruzione del testo). Chi scriveva novelle e racconti brevi imitava di conseguenza Boccaccio, nello stile e nelle situazioni; chi si dedicava alla poesia lirica riproduceva il modello petrarchesco. L’invenzione della stampa consentì di disporre più facilmente dei testi dei toscani, e così sullo scorcio del Quattrocento l’imitazione di quegli autori divenne sistematica per gli autori settentrionali e anche per quelli meridionali, come per esempio Jacopo Sannazaro, autore dell’Arcadia, testo di grande successo europeo.
Il momento decisivo per la questione della lingua nazionale fu il primo Cinquecento. Nel corso di una riflessione culturale durata anni si contrapposero i sostenitori delle lingue di corte, prodotte dalle cancellerie delle maggiori città italiane; i fautori di un recupero del lessico e delle movenze sintattiche (oltre che delle caratteristiche fonomorfologiche) degli autori classici dell’aureo Trecento fiorentino; e inoltre gli autori fiorentini contemporanei, contrari a un ritorno al passato e invece convinti della possibilità di estendere a tutta l’Italia l’uso della lingua cinquecentesca, chiamata ‘argentea’ dal linguista Arrigo Castellani (sulla scorta della differenza tra latino ‘aureo’, di epoca classica, e ‘argenteo’, vale a dire postclassico). Tutte queste posizioni avevano una loro legittimità.
Chi sosteneva il ruolo fondamentale delle corti per la creazione di una lingua italiana ne sottolineava anche l’importanza come contesto in cui si svolgeva la comunicazione ufficiale; e in particolare si sottolineava il ruolo della corte papale di Roma (che nei primi anni del ’500 si giovò di una cancelleria di provenienza fiorentina, portata dai papi toscani) come punto di unificazione. Tuttavia, queste posizioni non formularono mai una teoria organica e coerente della lingua (anzi, fino a pochi decenni fa si etichettava la lingua cortigiana come un ‘fantasma’; ma poi sono affiorati documenti che consentono di avanzare ipotesi più dettagliate, sia pure non uniformi, sulle caratteristiche che la lingua avrebbe dovuto assumere). L’idea di una lingua aperta alle varietà locali viene poi definita come ‘italiana’ da Gian Giorgio Trìssino, nobile vicentino che avanzò anche alcune proposte di riforma dell’alfabeto, con lo scopo di adeguare le lettere latine alle mutate esigenze di pronuncia.
A Firenze, invece, non solo queste posizioni erano ignorate, ma erano decisamente respinte le velleità di chi, da non toscano, pretendeva di suggerire ai fiorentini come si dovesse scrivere. Un militante agguerrito in favore del fiorentino dell’uso contemporaneo fu Niccolò Machiavelli. Il grande autore che conosciamo soprattutto per il trattato Il principe, o per la commedia La mandragola, fu anche un salace polemista: nel Dialogo intorno alla nostra lingua, che fu pubblicato solo postumo nel corso del ’700, Machiavelli immagina di parlare con Dante, ritratto mentre fa ammenda di quanto aveva affermato nel De vulgari eloquentia riguardo all’impossibilità della lingua fiorentina di potersi definire al tempo stesso illustre, aulica, curiale e cardinale (soprattutto per l’evidente mancanza di una unità politica di cui la lingua potesse essere il rispecchiamento). Ma insomma, ai fiorentini non mancava certo la capacità di farsi capire: in quella lingua Francesco Guicciardini scrisse la sua Storia d’Italia. Piuttosto, mancò un afflato pedagogico, o comunque la prospettiva di divulgare ai non fiorentini le caratteristiche grammaticali del volgare cinquecentesco. L’unico a tentare fu Pierfrancesco Giambullari, autore della prima grammatica toscana (De la lingua che si parla e scrive in Firenze), nel 1552. Ma il testo ebbe scarsissimo successo; e in definitiva, prima che gli autori letterari italiani abbiano la possibilità di recarsi a Firenze e imparare la lingua dalla viva voce dei parlanti nativi bisognerà aspettare Manzoni e la sua risciacquatura dei panni in Arno.
Resta quindi la linea destinata a prevalere: la lingua dei dotti e degli scrittori, basata sulle opere dei grandi autori del Trecento fiorentino. Il toscano era lingua ideale per fare da tramite tra tutte le varietà della penisola, e delle isole, in particolare per la sua conservatività rispetto al latino. E l’emersione del fiorentino, con la fioritura di letterati di spicco, era dovuta al grande sviluppo economico successivo alla battaglia della Meloria, che segnò il declino della repubblica marinara di Pisa. Firenze, terra di mercanti e priva di un Ateneo stabile fino al tempo della peste del 1348, poté dare al proprio volgare un ruolo che altre città continuavano a deputare al latino, accumulando un vantaggio negli usi comunicativi che poi sarebbe risultato incolmabile proprio grazie al prestigio dei testi letterari.
Nei primissimi anni del Cinquecento Pietro Bembo, collaboratore della celebre tipografia veneziana di Aldo Manuzio, agevolò l’ingresso tra i classici stampati nell’innovativo carattere corsivo, accanto ai grandi autori latini, del Canzoniere di Petrarca e della Commedia di Dante (mancò Boccaccio; ma una recentissima scoperta ha messo in luce il lungo lavoro preparatorio che aveva impegnato Bembo, giunto non lontano dalla sua pubblicazione). Questa esperienza offrì a Bembo i dati necessari alla stesura di una grammatica raffinatissima, presentata sotto forma di dialogo tra uomini dotti e chiamata Prose della volgar lingua. La gestazione fu lunga, e forse solo i timori di plagio indussero infine l’autore a stamparla, nel 1525. Da allora, anche grazie a molti prontuari che ben presto si diffusero e che furono pubblicati in tutta Italia per molti decenni, i letterati non toscani poterono disporre non solo delle opere a cui ispirarsi, ma di concrete regole a cui rifarsi. Primo tra tutti nientemeno che Ludovico Ariosto, il quale si impegnò a riscrivere il suo Orlando furioso, dopo le edizioni del 1516 e 1521, in una versione fedele alle norme bembiane, pubblicata nel 1532 (quella che tutti noi conosciamo).
Questo episodio segna virtualmente la fine di quella che sarebbe stata chiamata ‘questione della lingua’, che pure ebbe una lunga coda, interessante solo per gli storici della lingua, della letteratura e della cultura in generale: il più grande dei letterati dell’epoca aveva inteso, nelle Prose bembiane, quale dovesse essere l’assetto linguistico che avrebbe reso immortale la propria opera migliore. E rese omaggio a Bembo nel canto XLVI del suo poema (ott. 15, vv. 1-4):
Pietro / Bembo, che ’l puro e dolce idioma nostro, / levato fuor del volgare uso tetro, / quale esser dee, ci ha col suo esempio mostro
Le parole sono chiare: tetro è l’uso del volgare non conforme ai precetti, e il verbo dovere indica la forza della prescrizione. Poco importa se in seguito alcuni autori sfidarono questa linea: così facendo, come Tasso, ammisero la forza della tradizione, da cui cercarono di staccarsi soprattutto per la necessità di cercare una espressività diversa, toni e registri ancora inusitati.
La nostra lingua italiana discende dunque da questo fondamentale evento: una improvvisa frattura nell’evoluzione storica, un balzo all’indietro che ‘congelò’ il fiorentino sui suoi modelli classici. Possiamo dire senz’altro che, al netto dei prestiti dall’inglese o dall’evoluzione tecnologica, oggi parliamo la versione contemporanea di una lingua che fu codificata nel primo quarto del XVI secolo.
Manzoni avrebbe poi riportato in auge una varietà più vicina all’uso concreto, sgombrando il campo dai purismi e dai vezzi inutili di chi continuava a guardare il passato vagheggiando il ritorno a una mai esistita età d’oro. Il suo impegno per impiegare nei Promessi sposi il fiorentino parlato dalla borghesia colta contemporanea costituì un nuovo e aggiornato modello. Anche in questo caso, però, non mancarono le opinioni divergenti, e la ‘questione della lingua’ finì per riaprirsi.
Nella sua prosa intitolata Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla (1868) richiestagli dal Ministro dell’Istruzione Emilio Broglio quale relazione conseguente all’incarico di componente della Commissione per l’unificazione della lingua, Manzoni chiarisce con forza illuministica alcuni punti fondamentali di teoria. A parte Firenze per la letteratura, la mancanza di unità politica non aveva consentito fino a quel momento all’Italia di disporre di un centro di irradiazione linguistica (cioè di una capitale che costituisse un modello prestigioso di lingua). Il prestigio letterario era dunque l’unico dato certo riguardo alla capacità di una varietà di imporsi sulle altre; e poiché una lingua va considerata in sé come un tutto, in ogni situazione comunicativa in cui la si impieghi, Manzoni afferma che l’adozione del fiorentino vivo è l’unica soluzione per dare all’Italia una lingua unitaria. E contro i detrattori di questa posizione egli afferma che infine “il signor Ministro ha sostituita la questione sociale e nazionale a un fascio di questioni letterarie”: che in altre parole un problema che sembrava destinato alla speculazione intellettuale è stato infine portato sul piano dell’attualità politica. Da lì nacque l’insegnamento scolastico dell’italiano, nella sua varietà prescrittiva e ‘grammaticale’ spesso criticata, ma unificante sopra i dialetti. Di questi problemi però si potrà leggere in altri articoli di questo spazio virtuale.
1 Commento
Salvatore Ruccia 24 Dicembre, 2021
Illuminante e molto ben documentato , complimenti professore.
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