Livio Gaeta
Università di Torino
Lingua e cultura
Per Sapir il linguaggio, inteso à la Saussure come faculté du langage, è da intendere come attività primariamente simbolica, cioè diremmo oggi semiotica e cognitiva, connessa con una dimensione ‘meccanica’, cioè fonologica, percettiva e articolatoria: “la lingua è primariamente un sistema uditivo di simboli”, in cui “la comunicazione … è lo scopo essenziale” (p. 17). Non si confondano però gli estremi della questione. Il linguaggio non è banalmente un supporto formale per trasmettere informazioni:
“la parte essenziale della lingua … deve essere ricercata piuttosto nella classificazione, nella struttura formale, e nel modo di collegare i concetti. Ancora una volta la lingua, come struttura, costituisce nel suo aspetto interno, lo stampo del pensiero” (p. 21).
Si badi bene: questo rapporto non è meramente di forma / contenuto. A Sapir, infatti,
“sembra assai probabile che la lingua sia uno strumento impiegato per usi più bassi del livello concettuale e che il pensiero sorga come raffinata interpretazione del suo contenuto. In altri termini: il prodotto cresce con lo strumento, e può darsi che, nella sua genesi e nel suo uso quotidiano, il pensiero senza il linguaggio sia altrettanto inconcepibile che il ragionamento matematico senza il supporto di un simbolismo matematico adeguato” (pp. 14-15).
La dimensione simbolica è squisitamente umana nel senso più compiuto dell’espressione di lingua e cultura:
“Ogni lingua è di per se stessa un’arte di espressione collettiva. In essa è nascosto un complesso particolare di fattori estetici – fonetici, ritmici, simbolici, morfologici – che essa non condivide completamente con alcuna altra lingua” (p. 221).
Allo stesso tempo, però, l’unicità di ogni lingua e cultura va anche intesa come sostanziale indipendenza della prima dalla seconda, per cui non è possibile parlare di primitivismo linguistico o, in antitesi, di progresso culturale:
“Ad ogni livello di progresso culturale si possono trovare entrambi comunemente parlati, sia tipi semplici sia tipi complessi di lingua in un numero infinito di varianti. Per quel che riguarda la forma linguistica, Platone cammina a braccetto col porcaro macedone, e Confucio con il selvaggio cacciatore di teste dell’Assam” (p. 217).
Da questa prospettiva il relativismo linguistico, che viene normalmente citato come ‘ipotesi Sapir/Whorf’, appare come del tutto coerente con quello che Raffaele Simone (1992, p. 46) ha battezzato il paradigma sostanzialista del linguaggio, da Platone in poi. Nel paradigma sostanzialista, a differenza di quello arbitrarista, riveste un ruolo essenziale il rapporto tra lingua e suo apparato fisico-semiotico, inerente cioè alla dimensione del supporto fisico – e in primo luogo come abbiamo visto: uditivo – del linguaggio e alla sua prospettiva semiotica e culturalista come strumento di espressione squisitamente antropologica. Il relativismo sapiriano sta pertanto in netto contrasto con il paradigma arbitrarista che invece si incentra su una visione sostanzialmente convenzionalista, in cui il linguaggio è del tutto indifferente alla realtà. Per Sapir, invece, la lingua “non esiste al di fuori della cultura, cioè al di fuori di un insieme ereditato socialmente di usanze e credenze che determinano la struttura della nostra vita” (p. 106).
Linguaggio e tipologia linguistica
Ancorché la tipologia linguistica nel senso in cui la intendiamo oggi dopo l’avvento di Joseph Greenberg sia di là da venire, a Sapir sono già estremamente chiari i termini della questione. Le lingue possono essere classificate nei loro rapporti genetici, come insegna la linguistica ottocentesca di matrice europea, oppure nei loro rapporti di somiglianza strutturale: per ‘tipi di struttura’. Come osserva Paolo Valesio nell’introduzione alla prima edizione italiana di Language del 1969, “la sua originalità si può misurare attraverso il confronto con i manuali classici della linguistica moderna, dal Paul agli appunti saussuriani al Bloomfield ai contemporanei” nei quali “è assente il problema della tipologia delle lingue, inteso come problema più vasto di quello della tradizionale linguistica storica” (p. xxviii). La classificazione proposta da Sapir è parimenti audace, nella misura in cui prescinde dalla compartimentazione ottocentesca in tre tipi morfologici (isolante, agglutinante e inflettente o fusivo, cui si aggiunge il tipo polisintetico) e propone un’organizzazione strutturale fondata su categorie concettuali (potremmo dire oggi onomasiologiche o cognitive). In particolare, Sapir distingue due macro-tipi concettuali: quello concreto o radicale che si riferisce a oggetti, azioni o qualità, e quello astratto o relazionale che invece include elementi “che servono a collegare l’uno con l’altro gli elementi concreti della proposizione, dandole così una forma sintattica definita” (p. 103). Tra questi due macro-tipi troviamo poi altri due tipi concettuali intermedi, quello derivativo che contiene elementi che “danno all’elemento radicale un particolare aumento di significato” (ibidem), e quello relazionale misto, i cui elementi “indicano o implicano relazioni le quali trascendono la parola particolare alla quale esse sono immediatamente connesse” (ibidem). Questi tipi si combinano secondo varie possibilità, dando adito a quattro tipi linguistici: le lingue puro-relazionali e quelle misto-relazionali, rispettivamente semplici e complesse. Nell’ampia esemplificazione fornita in tabella (pp. 142-143), i quattro tipi rispecchiano un continuum a partire dal tipo isolante e analitico per arrivare al tipo fusivo e sintetico tradizionale. Da enfatizzare è tuttavia la piena consapevolezza del carattere non fissista di questa tipologia che spacchetta i tipi morfologici tradizionali e ha “questo grande vantaggio, che può essere raffinato o semplificato secondo le esigenze di una particolare analisi” (p. 141). Il metodo empirico – o se si vuole empiricista – di Sapir prende atto del fatto che “le lingue sono strutture storiche enormemente complesse” ed è perciò “più importante elaborare un metodo elastico che ci dia la possibilità di situare una lingua, da due o tre punti di partenza indipendenti, in una data posizione relativamente a un’altra lingua, piuttosto che collocare ciascuna lingua in una casella ben definita” (p. 142). Si tenga presente che ancora nel 1960 Joseph Greenberg, padre della tipologia linguistica moderna, scrive: “la trattazione di Sapir sull’argomento nel suo libro Language (1921) fa epoca” (p. 171).
Il drift
Nell’idea di lingua come forma tanto cara a Sapir il concetto di drift o deriva svolge un ruolo centrale, ed è peraltro molto discusso ancora oggi. È plausibile che l’impiego di questo termine risulti dall’influenza, più o meno consapevole in Sapir, della teoria della deriva dei continenti sviluppata dal geologo tedesco Alfred Wegener, la cui opera Die Entstehung der Kontinente und Ozeane era apparsa in seconda edizione rivista nel 1920, proprio l’anno precedente a Language (si veda su questo Christy 1992, p. 85). Si tratta di un concetto molto ambizioso che cerca di dare risposta all’essenza stessa del cambiamento linguistico. Non tanto riguardo al perché le lingue cambino: la variazione è considerata da Sapir un fatto scontato. La domanda rilevante per lui è invece: perché tra i tanti fenomeni di variazione registrati quotidianamente tra le comunità di parlanti solo alcuni si affermano come cambiamenti linguistici? Secondo Sapir, la risposta va cercata nella deriva:
“La deriva di una lingua è costituita dalla selezione inconscia, compiuta dai suoi parlanti, di quelle variazioni individuali che si concentrano in una specifica direzione. In generale, questa direzione può essere dedotta dalla storia passata della lingua” (p. 155).
Sapir individua così delle macro-tendenze nel cambiamento linguistico cui singoli episodi possono essere ricondotti, e in base alle quali i parlanti – come fossero ‘agiti’ della lingua stessa – paiono orientarsi: “La lingua si muove, scende il corso del tempo seguendo una corrente che essa stessa crea (p. 151)”. Certamente, in questa visione si insinua un latente teleologismo, come hanno osservato molti, da ultimo Paolo Ramat: “non si può negare che questa visione evita la questione di come i parlanti possano conoscere le scelte che sono coerenti e si accumulano in una specifica direzione” (p. xv). Né può bastare – per sgomberare il tavolo dal fastidioso finalismo – il richiamo ai limiti delle nostre conoscenze empiriche, perché “la sostanza resta che la lingua non mira a niente, non ha uno scopo nei suoi mutamenti” (p. xvi). D’altronde, resta il sospetto che ci sia qualcosa di più dietro questa conclusione così pessimista. In particolare, osserva Sapir:
“L’impeto della deriva fondamentale, cioè quella predialettale, spesso è di tale natura che lingue che sono state per lungo tempo divise passano attraverso alla stessa fase o a una notevolmente simile. In molti casi è perfettamente chiaro che non ci possono essere state delle reciproche influenze dialettali. … Il tipo inglese di plurale rappresentato da foot : feet [‘piede, piedi’] mouse : mice [topo, topi] è strettamente parallelo al tedesco Fuss : Füsse, Maus : Mäuse. Si sarebbe tentati di supporre che queste forme dialettali si rifacciano ad alternanze dello stesso tipo provenienti dall’antico germanico e dal germanico occidentale. Ma le prove documentarie ci mostrano in modo inoppugnabile che non ci possono essere stati plurali di questo tipo nel germanico primitivo. … Ancora più significativo è il fatto che non compaia nei nostri più antichi testi dell’antico alto tedesco e comincia a svilupparsi solo alla fine del periodo” (p. 173).
Ecco: indipendentemente dalla questione dell’attualizzazione del cambiamento nei parlanti, resta il problema posto dai cambiamenti paralleli e indipendenti come quelli emergenti nell’ampio scenario tracciato da Sapir. La deriva intende rispondere proprio a quest’impasse concettuale che ancora oggi non ha trovato soluzioni credibili (a tal proposito si vedano alcune proposte di Henning Andersen in un volume del 2001). In questo senso, Sapir suggerisce di approfondire “le basi intuitive del linguaggio” (p. 184) che soggiacciono per esempio alla variazione fonetica individuale, di cui “[l]a deriva generale si impossessa” in quanto “l’aiutano a mantenere l’equilibrio morfologico o ad arrivare al nuovo equilibrio per il quale la lingua sta lottando” (p. 187). Come si vede, Sapir sta parlando qui di sistema, equilibrio e complessità, temi quanto mai attuali nella ricerca – linguistica e non – di oggi.
Per approfondire
Henning, Andersen. 2001. Actualization and the (uni)directionality of change. In: Henning Andersen (a cura di), Actualization: linguistic change in progress, 225-248. Amsterdam e Philadelphia: John Benjamins.
Bloomfield, Leonard. 1921. Review of Language. In: The Classical Weekly 15.142-43 (13 March 1922) [rist. in Koerner, Kondrad E. F. (a cura di). 1984. Edward Sapir, appraisals of his life and work, 47-50. Amsterdam e Philadelphia: John Benjamins].
Christy, T. Craig. 1992. Geology and the Science of Language: Metaphors and Models. In: Naumann, Bernd, Frans Plank e Gottfried Hofbauer (a cura di), Language and earth: elective affinities between the emerging sciences of linguistics and geology, 79-89. Amsterdam e Philadelphia: John Benjamins.
Greenberg, Joseph H. 1960. A Quantitative Approach to the Morphological Typology of Language. International Journal of American Linguistics 26(3). 178-194 [Trad. it. da cui si cita in Paolo Ramat (a cura di), 1976. La tipologia linguistica. 171-192. Bologna: Il Mulino.].
Nencioni, Giovanni. 1985. Croce e la linguistica. In: Tessitore, Fulvio (a cura di). L’eredità di Croce. 199-216. Napoli: Guida.
Sapir, Edward. 1921. Language. An Introduction to the Study of Speech. New York: Harcourt & Brace. [Trad. it. da cui si cita: Il Linguaggio. Introduzione alla linguistica. 2007. Nuova edizione. Presentazione di Paolo Ramat. Torino: Einaudi].
Sapir, Edward. 1949. Selected Writings in Language, Culture, and Personality edited by David G. Mandelbaum. The Regents of the University of California. [Trad. it. da cui si cita: Sapir, Edward. 1972. Cultura, linguaggio e personalità. Linguistica e antropologia. Nota introduttiva di Giulio C. Lepschy. Torino: Einaudi].
Simone, Raffaele. 1992. Il sogno di Saussure. Bologna: Il Mulino.
Valesio, Paolo. 1969. Introduzione. In: Sapir, Edward. Il Linguaggio. Introduzione alla linguistica. ix-xxxii. Torino: Einaudi.
3 Commenti
Giuseppe 19 Gennaio, 2024
Buonasera, un chiarimento: nella parte relativa alla classificazione delle lingue secondo Sapir, cosa si intende precisamente per lingue puro-relazionali e misto-relazionali? Ci sono degli esempi che possono essere usati a spiegazione?
Livio Gaeta 23 Gennaio, 2024
Grazie per l’interesse. Chiaramente, per la spiegazione migliore rinvio direttamente al testo di Sapir, che è molto chiaro. Nello specifico al sesto capitolo di Language. In ogni caso, la classificazione di Sapir si fonda sulla differenza tra concetti radicali e relazionali illustrati nel quinto capitolo.
Il tipo puro-relazionale fa riferimento al caso di lingue – per lo più isolanti – in cui i concetti fondamentali (nomi, verbi, ecc.) restano separati dalla codifica delle relazioni sintattiche, mentre il tipo misto-relazionale fa riferimento alle lingue – di tipo per lo più fusivo – in cui invece i concetti fondamentali vengono codificati in connessione con altri significati di tipo relazionale. Si può trovare ampia esemplificazione nel tabellone alle pp. 142-3 di Language (nella versione italiana).
Giuseppe 20 Gennaio, 2024
Buongiorno,
Cosa si intende precisamente con lingue puro-relazionali e lingue multi-relazionali?
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