Giulio Soravia
Già Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Ma dove sono andate a finire? E che cosa vuol dire primitivo?
In un lungo articolo il Vocabolario della Lingua Italiana dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana “G. Treccani” ci spiega che primitivo vuol dire:
[…] relativo a, o proprio di, un periodo di tempo anteriore a quello attuale […] proprio del periodo iniziale, delle origini […] Della preistoria, che appartiene alle età o alle popolazioni preistoriche
Dunque è chiaro il senso: ciò che è primitivo non c’è più. Non possiamo riferirlo a popolazioni o lingue attuali. Senonché il Vocabolario dà ragione di un modo comune di intendere la parola:
Per estens. del sign. prec., il termine, per influsso delle schematizzazioni evoluzionistiche del 19° secolo, viene spesso riferito (con una connotazione più o meno coscientemente limitativa che da un punto di vista etnologico risulta oggi priva di effettivo valore) a manifestazioni, costumi e modi di vita di popoli o gruppi etnici extraeuropei tuttora esistenti che non si sono adeguati alle forme di civiltà e di vita delle nazioni moderne occidentali o orientali.
Quindi le lingue primitive non ci sono più, sono scomparse con i popoli delle origini? O sono rimaste in uso presso quei gruppi meno capaci di progredire? Questo uso improprio del termine tende a conferire a certe culture uno stigma di inferiorità, di condizione selvaggia, di limite intellettivo. Non illudiamoci. Se alla scienza è chiaro che uomini primitivi non ne esistono più, il senso comune fa sì che molti siano convinti che esistano razze inferiori, esseri quasi umani, ‘rimasti all’età della pietra’.
Ma lasciamo da parte le polemiche e mostriamo di sapere usare la lingua per capirci, non per litigare. Il presupposto della domanda è che esistano ancora lingue che noi consideriamo primitive perché parlate dai primitivi (vale a dire selvaggi). L’immagine che traiamo da questa considerazione è di un neandertaliano (tipo l’amico di Martin Mystère) che con qualche grugnito, gesti inconsulti e schiocchi di lingua vari ci parla, o meglio tenta di parlare, con la lingua primitiva che gli è piovuta addosso chissà da dove. Del resto l’immagine dei primi ominidi appare simile o almeno coerente con ciò che ci rappresentiamo come selvaggio.
Non si scappa. Qualche antropologo illuminato ha tirato le somme e ha sostenuto che Edward Burnett Tylor (1832-1917) non aveva capito niente di Darwin e che appunto le lingue di quelli che comunemente erano tacciati di primitività non avevano niente di primitivo. Ma ci si aspetta che siamo in grado di dimostrarlo.
La malizia trova un terreno fertile nel razzismo imperante tra gli ‘evoluti’. I primitivi non sono primitivi, ma sono una porzione di umanità ‘rimasta indietro’. Insomma non vorrete farmi credere che un selvaggio dell’isola di Bumbum è più intelligente di un presidente degli USA!
E il salto è fatto, confondiamo intelligenza con tecnologia, mischiamoci un po’ di folklore a buon mercato, creiamo il mito del buon selvaggio e così abbiamo riaffermato che ‘noi’ siamo una razza superiore e che i primitivi esistono.
Immaginiamo ora un gruppo di uomini primitivi cinquantamila anni fa che cerca nuovi territori per la caccia, per trovare cibo e per allargare i suoi orizzonti. La spinta verso oriente li fa giungere a terre inframmezzate da bracci di mare, paludi e banchise ghiacciate che essi traversano un secolo dopo l’altro fino a ritrovarsi in un grande continente che qualcuno un giorno chiamerà Australia.
Dodicimila anni fa l’ultima grande glaciazione abbassò il livello degli oceani di persino 150 metri rispetto a oggi, ma poi le acque si innalzarono di nuovo e quelli che erano passati si ritrovarono soli e isolati.
E sono ancora lì, sebbene gli uomini bianchi, una specie animale predatrice, fossero giunti successivamente a bordo di navi capaci di superare le distanze tra le terre emerse facendo di tutto per sterminarli.
Ora, prendiamo il discendente di una di quelle tribù e lasciamolo solo nel deserto australiano. Se torniamo dopo sei mesi abbiamo buone probabilità di ritrovarlo vivo e vegeto, come l’avevamo lasciato. Se avessimo messo un professore del MIT o un magnate della borsa nelle stesse condizioni non avremmo trovato più neanche le sue ossa dopo pochi giorni.
Siamo d’accordo: l’aborigeno ha saputo adattarsi e sa come sopravvivere in quell’ambiente. Ma con ciò vuol dire che è più o meno intelligente?
No, ognuno ha una conoscenza del proprio ambiente adatta alle circostanze. Ma la lingua? Può nascere un Dante fra i membri di una tribù Aranda?
Perché dovrebbe, rispondiamo noi. In realtà le potenzialità le ha. Lo farà se ne avrà bisogno. La sua lingua è ‘perfetta’, complessa e strutturata come quella di un moderno avvocato che arringa in tribunale. Solo è diversa e serve ad altro.
Quali sono dunque i primitivi, che primitivi non sono? Sarà meglio andarli a osservare e verificare come sono le lingue che parlano. Possiamo pensare che i selvaggi di oggi siano ridotti a gruppi isolati che si perdono nei vari continenti. Per esempio:
- gli inuit nell’Artide;
- gli indios dell’Amazzonia;
- i khoisan dell’Africa meridionale;
- gli aborigeni australiani;
- i popoli della Siberia nordorientale;
- altri piccoli gruppi, quali gli abitanti delle Andamane, le popolazioni maya del Centro America, gli abitanti della Nuova Guinea ecc.
Gli inuit, chiamati spesso eskimesi, vivono tra la Groenlandia e il Canada settentrionale fino all’Alaska. Parlano una lingua estremamente complessa dal lessico ricco e particolareggiato. Hanno tanti nomi per descrivere le foche, per esempio, ma poi non hanno una parola per dire agnello, tanto che un missionario che predicava tra gli inuit per dire Agnello di Dio che togli i peccati del mondo per farsi capire tradusse fochino di Dio. Il sistema grammaticale è molto complesso: sostanzialmente a una parola base vengono suffissi decine di elementi che esprimono tempi, modi, aspetti, direzione ecc. In generale una parola può corrispondere in italiano a una intera frase o una complessa perifrasi con parole aggiuntive, diventando una frase completa. Per esempio nella parola inuit tusaatsiarunnanngittualuujunga ‘non sento molto bene’ troviamo:
- tusaa ‘udire’
- junga = prima persona del presente
- junnaq ‘essere in grado’
- nngit = negazione
- tualuu ‘bene’
I numerosi idiomi ancora in uso nell’area amazzonica sono oltre duecento e secondo le stime ufficiali del governo brasiliano oltre settanta lingue sono di tribù che rifiutano ogni contatto col mondo ‘esterno’.
Le lingue khoisan, confinate ormai a pochi parlanti in Namibia, Botsuana e Sudafrica, presentano un tratto molto caratteristico nella fonetica, i ‘click’, suoni emessi non con l’espulsione di aria polmonare, ma al contrario con l’inalazione di aria. Tali suoni possono combinarsi in decine di fonemi diversi. Ai quattro più comuni infatti può associarsi una articolazione secondaria (la faringalizzazione, la nasalizzazione, il tono musicale ecc.) che creano fino a 48 click e in totale, in certe lingue, addirittura 90 fonemi. I click si usa scriverli come segue:
- | palatale
- ! dentale
- # retroflesso
- // laterale
La lingua xhosa, un importante idioma bantu, ne usa tre che scrive con le lettere c, x, e q, rispettivamente dentale, laterale e retroflesso. Per avere un’idea di come suonano dei clicks si può ascoltare la cantante Miriam Makeba in un celebre ‘pezzo’ facilmente reperibile in rete: “Qongqothwane” (The Click Song).
La più importante lingua aborigena dell’Australia, chiamata variamente anche perché suddivisa in vari dialetti, è il cosiddetto Western Desert Language nella forma più diffusa e importante, il Pitjantjatjara, parlata da circa cinquemila persone tra Alice Springs, Ooldea, Ernabella e Kalgoorlie. La sua grammatica è ricca e complessa, ma evidenzia un modo di pensare diverso da quello cui siamo abituati. Il tempo per esempio non ha la stessa importanza dello spazio, il che si vede dai quattro dimostrativi che indicano la posizione degli interlocutori:
- nga questo (vicino)
- pala codesto
- nyara quello
- palunya non presente, anaforico (già visto, riferentesi a quanto detto o citato)
Il tempo dei verbi è espresso su tre dimensioni (passato, presente e futuro) che sottendono però più la performatività che il tempo, reale o testuale (continuo vs. puntuale, imperativo vs. narrativo) in una visione dove ieri e domani si fondono nel tjukurpa, il tempo sognato (presente ma su un’altra dimensione o collocazione psicologica e, comunque, contemporanea).
Solo da una posizione etnocentrica viziata da pregiudizi antichi potremmo affermare che queste lingue siano vani balbettii di uomini di razze inferiori!
Per approfondire
Cardona, Giorgio Raimondo. 2019. I sei lati del mondo. Linguaggio ed esperienza. Roma/Bari: Laterza.
Deutscher, Guy. 2016. La lingua colora il mondo. Torino: Bollati Boringheri [ed. or. Through the language glass. Why the world looks different in other languages, New York, Henry Holt & Co. 2011]
Sapir, Edward. 1972. Cultura, linguaggio, personalità. Torino: Einaudi [ed. or. Culture, language and personality, Berkeley/Los Angeles, University of California Press, 1949]
Soravia, Giulio. 2014. Le lingue del mondo. Bologna, il Mulino.
Whorf, Benjamin Lee. 2018. Linguaggio, pensiero e realtà. Torino: Bollati Boringhieri [ed. or. Language, thought, and reality, Cambridge, The MIT Press, 1956]
Per ‘ascoltare’ i suoni dei click citati sopra si può fare riferimento a questo sito, cliccando sui simboli dei suoni.
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