Diego Pescarini
CNRS, Université Côte d’Azur
Mi piacerebbe proporre un breve ragionamento – e qualche divagazione – a partire dal titolo di un fortunato volumetto: La lingua geniale di Andrea Marcolongo. Cosa vuol dire esattamente ‘geniale’? In che misura alcune lingue sono più geniali di altre? O sono tutte ugualmente geniali? La questione non è poi così bizzarra. Ci siamo tutti imbattuti in affermazioni secondo cui il latino o il greco o, in misura minore, il tedesco sono lingue ‘logiche’, ‘analitiche’, ‘eleganti’, delle ‘palestre per la mente’ che allenano il discente a ragionare sulle strutture della lingua, sull’etimologia delle parole e, più indirettamente, sul confronto fra culture e idee. Affermazioni di questo tipo sono difficilmente dimostrabili, eppure molti, inclusi intellettuali e studiosi, le ripropongono come fossero verità assodate, soprattutto quando si tratta di difendere il valore dell’insegnamento delle lingue classiche nella scuola (tornerò su questo punto nella conclusione).
In primo luogo, tendiamo ad attribuire un valore speciale alle lingue in cui le desinenze di nomi, verbi, aggettivi, ecc. veicolano in modo chiaro delle informazioni grammaticali che, nelle altre lingue, rimangono invece vaghe o inespresse (ma non inesprimibili, su questo torneremo). Sono geniali quindi le lingue in cui “i numeri delle parole erano tre, singolare, plurale e duale” o in cui “esisteva un modo verbale per esprimere il desiderio, l’ottativo” (cito dalla quarta di copertina del libro di Marcolongo) e, soprattutto, sono geniali le lingue dotate di un sistema di casi (nominativo, accusativo, genitivo, ecc.) che ci consentono di riconoscere le funzioni sintattiche delle parti del discorso anche quando la loro disposizione segue un ordine che, secondo le nostre intuizioni, è impossibile.
Del resto, l’idea che le lingue dotate di una morfologia ricca siano più geniali di altre non è affatto recente. Alcuni linguisti del primo Ottocento, ad esempio, attribuivano un carattere speciale alle lingue classiche quali latino, greco e sanscrito, ma oggi i linguisti nemmeno si porrebbero la questione e non solamente rispetto alle lingue ufficiali/scritte, ma anche rispetto alle migliaia di lingue orali, dialetti, varietà, incluse quelle più marginali. Più si studia nel dettaglio la struttura di qualsiasi sistema linguistico, più ci si accorge che non sono possibili giudizi di merito.
Questa conclusione vale per le lingue geniali, ma vale anche per il polo opposto della questione: le lingue “primitive”. Anche su questo fronte, i linguisti sono oggi abbastanza concordi nel sostenere che non esistano sistemi linguisticamente primitivi. Il dibattito è recentemente rifiorito attorno ai lavori di Dan Everett sul Pirahã, una lingua amazzonica che sembra possedere un sistema grammaticale assai semplice in cui, ad esempio, mancano i numerali (Language, la rivista della Linguistic Society of America, ha dedicato ampio spazio ad Everett ed i suoi critici). Su questi temi è in corso un dibattito piuttosto serrato fra i sostenitori della Grammatica Universale (la teoria proposta da Noam Chomsky secondo cui le grammatiche di tutte le lingue del mondo si basano su un insieme limitato e invariabile di proprietà comuni) ed i suoi critici, secondo i quali la diversità linguistica non è vincolata da alcun principio invariabile, ma è il frutto di un complesso intreccio fra fattori biologici/cognitivi e sociali.
Il dibattito su questi temi è tanto affascinante quanto complesso, ma credo si possa affermare con una certa sicurezza che le lingue siano sistemi largamente ‘equipollenti’ o perché si basano su un nucleo comune di proprietà invariabili o perché i sistemi grammaticali, malgrado le loro diversità, sono sufficientemente ‘plastici’. Per illustrare meglio il mio punto di vista, mi avvarrò di breve aneddoto, che devo ad un bel libro di Mark Baker (qui la pagina wikipedia sull’argomento). Baker riporta la vicenda dei code talkers: dei soldati americani che trasmettevano informazioni militari usando le loro lingue native, principalmente Comanche, Hopi, e Navajo. Queste lingue erano molto più efficaci e sicure dei sistemi di crittografia perché la loro sintassi è talmente peculiare da rendere i messaggi dei code talkers inviolabili.
La vicenda dei code talkers ci offre due spunti di riflessione: da un lato, ci fa capire che la diversità fra le lingue parlate dagli esseri umani (tralasciamo quindi le lingue artificiali) abbia un livello di complessità di gran lunga superiore a quella di qualsiasi sistema di decrittazione; dall’altro, ci mostra che lingue di culture considerate – a torto o a ragione – ‘primitive’ possono comunicare informazioni da cui dipendono le sorti di complesse operazioni belliche. Il Comanche, lo Hopi ed il Navajo sono quindi equipollenti all’inglese o a qualsiasi altra lingua europea e, agli occhi degli alleati (e dei decrittatori dell’asse), dovevano apparire delle lingue particolarmente geniali. Allo stesso modo, possiamo dubitare che il greco antico possa permetterci di “esprimere parole o concetti ai quali pensate ogni giorno, ma che proprio non si possono dire in italiano” (di nuovo, una citazione dalla quarta di La lingua geniale).
Più che agli aspetti linguistici, infatti, la nostra percezione delle lingue è in buona parte legata al loro ruolo all’interno di un contesto sociale e culturale. Per quanto riguarda il greco ed il latino, discutere se e quanto tali lingue siano ‘geniali’, ‘logiche’, ‘eleganti’, ecc. significa oggi discutere soprattutto di questo: se valga la pena o meno difendere le lingue classiche (e, più in generale, la cultura umanistica) nel quadro di un modello di formazione sempre più orientato verso altre competenze.
Non entro qui nel merito di questo dibattito, ma, se vogliamo perorare la causa delle lingue classiche, dobbiamo abbandonare i falsi argomenti e le difese d’ufficio. Come abbiamo detto, non c’è nulla di particolarmente perfetto e geniale in queste lingue che non si possa ritrovare anche nelle lingue moderne qualora (ed è questo lo snodo centrale del discorso) fosse riconosciuta anche alle grandi lingue di comunicazione come l’inglese, lo spagnolo o il cinese la dignità di lingue geniali.
In fondo, molte delle caratteristiche positive che siamo soliti attribuire alle lingue classiche sono riconducibili al loro stato di lingue morte. Tendiamo quindi ad osservare queste lingue attraverso un insieme di testi statico, chiuso, formato da pochi autori ‘aurei’ e attraverso regole grammaticali perfette come statue di marmo, ma altrettanto lontane dalla quotidianità delle persone e delle loro voci. Questa idealizzazione distingue le lingue classiche e addirittura le mette in contrapposizione con le lingue moderne, che vengono studiate soprattutto in relazione a bisogni pratici come viaggiare, comunicare, ordinare da mangiare, chiamare un taxi, prenotare un tavolo al ristorante. La grammatica di queste lingue – che, a ben guardare, è tanto geniale quanto quella delle lingue classiche – è spesso presentata all’interno di una dimensione puramente strumentale dove non c’è spazio per la riflessione sulla bellezza, l’eleganza, la logica del sistema formale.
Io credo che sia possibile e doveroso trovare nella scuola una zona di convivenza e, soprattutto, di confronto fra lingue morte e vive in cui le lingue classiche, nella loro elegante ‘inutilità’ (giusto per citare il titolo di un altro fortunato saggio, quello di Nicola Gardini) possano illuminare quanto di geniale ci sia nelle altre lingue, compreso l’italiano. Come suggerisce Renato Oniga, “uno degli obiettivi più qualificanti nello studio scolastico delle lingue antiche dovrebbe essere non tanto l’accumulo di nozioni minute per diventare filologi classici, ma lo sviluppo di una cultura linguistica superiore, con ricadute positive sulla conoscenza consapevole dell’italiano e delle lingue straniere.” (Oniga 2012: 102).
Per approfondire
Baker, Mark. 2001. The atoms of language: The mind’s hidden rules of grammar. New York: Basic Books.
Gardini, Nicola. 2016. Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile. Milano: Garzanti.
Marcolongo, Andrea. 2016. La lingua geniale: 9 ragioni per amare il greco. Bari: Laterza.
Oniga, Renato. 2012. Insegnare il latino con il metodo neo-comparativo. In Renato Oniga & Ugo Cardinale (a cura di), Lingue antiche e moderne dai licei all’università. Bologna: il Mulino.
2 Commenti
Giorgio 26 Giugno, 2020
Grazie! L’ho pensato da quando ho visto quel libro. Conosciamo una minima parte del greco antico, pochi esempi di lingua solo scritta, per lo più letteraria o ufficiale, spalmati su una storia di tanti secoli… È un azzardo dire che lo conosciamo veramente.
Silvia 14 Settembre, 2020
Complimenti a Diego Pescarini! È il suo articolo geniale, altro che il greco!
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