Simone Fornara
Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana
Gianni Rodari, come si sa bene, è stato un intellettuale poliedrico: non solo scrittore per ragazzi (l’unico italiano ad aggiudicarsi il premio Andersen, nel 1970), ma anche (e prima ancora) maestro, giornalista, pedagogista, grande divulgatore, nonché attivista politico. Ma possiamo considerarlo anche un linguista? È stato collega di Tullio De Mauro, nella redazione di Paese Sera, e sappiamo che tra i due c’era un rapporto di stima reciproca, se pensiamo ad esempio che De Mauro lo definì “un classico” e che Rodari scrisse un racconto intitolato Crunch! Scrash! ovvero Arrivano i Marziani, in cui figura un certo professor De Mauris, esperto di linguistica. Ma questi indizi non sono chiaramente delle prove. Per rispondere alla domanda, abbiamo bisogno di altri fatti: in questo caso, di alcuni scritti rodariani, più o meno noti, che ci permetteranno di capire se siamo anche di fronte a un linguista, ed eventualmente a che tipo di linguista.
Tra i fatti più noti, c’è senza dubbio il grandissimo interesse di Gianni Rodari per la parola, in tutte le sue sfaccettature. Il suo libro teorico più conosciuto, la Grammatica della fantasia (1973), si apre con almeno due celebri passaggi dedicati proprio alla parola. Dapprima (Rodari 1999: 14) troviamo il citatissimo motto
Tutti gli usi della parola a tutti (…). Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo,
che lega indissolubilmente il pieno possesso della lingua con l’essenza della democrazia; poi (ivi: 15), troviamo l’altrettanto citata immagine della parola che, come un sasso gettato nello stagno,
gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provocando una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio e che è complicato dal fatto che la stessa mente non assiste passiva alla rappresentazione, ma vi interviene continuamente, per accettare e respingere, collegare e censurare, costruire e distruggere.
Che la parola sia così importante per uno scrittore non può certo stupire, ma che diventi a livello esplicito uno dei fulcri della sua poetica non è altrettanto scontato. Le parole sono materia stessa di narrazione, sono un’attenzione costante, sono il pane di cui i giovani lettori devono cibarsi. E se ciò è comune ad altri scrittori per l’infanzia, sono invece pochi, tra loro, quelli che hanno approfondito tutto ciò a livello di teorizzazione, e Rodari ne è l’esempio più chiaro. Sono proprio dei primi anni Settanta gli scritti in cui Rodari affronta in maniera più decisa temi di natura linguistica. A partire dal legame tra fantasia, linguaggio e parole (1974, in Rodari 2014: 39-40):
La fantasia serve per esplorare la realtà, per esempio per esplorare il linguaggio, per esplorare tutte le sue possibilità, per vedere cosa viene fuori quando si fanno scontrare le parole.
Il linguaggio è dunque un oceano da esplorare; un mare che bisogna conoscere con curiosità e fantasia, anche e soprattutto perché noi vi siamo immersi sin dalla nascita, e non possiamo uscirne, come argomenta Rodari in queste righe (1974, in Rodari 2014: 40-41):
La lingua non è una materia (lo è ancora sulla pagella), non è una materia separata dalle altre, che abbia confini ben precisi: qui è la lingua e qui è la geografia, nella geografia la lingua non entra. Senza la lingua non c’è la geografia, senza la lingua non c’è la scienza, senza la lingua non esiste nessuna di queste che noi distinguiamo, classifichiamo e chiamiamo materie. La lingua è l’aria in cui vivono tutte queste cosiddette materie. Non posso fare storia senza la lingua, non posso fare filosofia senza la lingua, non posso fare politica senza la lingua, non posso vivere senza la lingua. Noi siamo nella lingua come il pesce è nell’acqua, non come il nuotatore. Il nuotatore può tuffarsi e uscire, ma il pesce no, il pesce ci deve stare dentro.
Così siamo noi dentro la lingua: la parliamo e qualche volta ne siamo parlati.
Qui, Rodari sfrutta un’efficace analogia ‘acquatica’ per definire i tratti dell’italiano come lingua di comunicazione transdisciplinare, che va oltre le materie perché le attraversa tutte e permette loro di concretizzarsi, di esistere. Ciò spiega bene perché è assolutamente indispensabile poter accedere a tutti gli usi della lingua; e in questo il ruolo della scuola è fondamentale, tanto che Rodari proprio a esso rivolge, poco oltre, la sua attenzione (ivi: 47):
La scuola tradizionale a me insegnava la lingua del consenso, dell’adattamento al mondo com’è, alle cose come sono, all’autorità, al passato, ma io sono cresciuto sotto il fascismo. Il bambino doveva dimenticare, ai tempi miei, la lingua in cui era cresciuto libero, pure tra tanti condizionamenti familiari e sociali, per imparare la lingua del dettato, la lingua del tema (perché c’è una lingua speciale per prendere 9 nel tema e se si usa invece un’altra lingua più in là del 6 non si va), la lingua del libro di lettura […] Questa è la lingua per dire di sì. Ora noi vogliamo partire dalla lingua, cioè dalla cultura del bambino, e aiutarlo a costruirsi su quella la lingua della sua espressione libera e completa, la lingua della sua ricerca autonoma, la lingua della comunicazione sociale, non la lingua per dire sempre di sì, ma la lingua per dire solo i sì che sente suoi e per dire no quando sente no. Perché il bambino si formi quella lingua è importante che possa parlare più che ascoltare, e questo è vero nella scuola dell’infanzia, è vero nella scuola elementare, è vero nella scuola media, è vero nel liceo, all’università, dappertutto è più importante poter parlare che dover ascoltare. Dobbiamo volere un bambino che senta la legittimità di tutti i suoi usi del parlare (ci sono usi del parlare che la scuola considera legittimi e ce non sono altri che esclude). Ecco, per il bambino devono essere legittimi il parlare per gioco come il parlare sul serio, senza alcuna differenza di valori. Si dice abitualmente: il parlare sul serio è più importante, il parlare per gioco è meno importante. Per il bambino, nel bambino questa differenza non si è creata e non vi è nessun motivo di crearla artificialmente.
In queste righe, Rodari esprime gli stessi concetti che di lì a poco troveremo al centro delle Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica del GISCEL (1975), che ruotano attorno al principio secondo cui il pieno possesso della lingua è condizione necessaria e indispensabile per una società realmente democratica, in cui tutti gli usi reali della lingua siano conosciuti e padroneggiati da tutti, anche e soprattutto grazie alla funzione educatrice della scuola, che si deve liberare della “lingua del consenso”, ossia di un modello linguistico vetusto, fisso e libresco, che esisteva solo tra i muri delle aule (la lingua del dettato, la lingua del tema) e non nel mondo al di fuori di esse. Le parole di Rodari sono perfettamente in linea con questi principi, segno che lo scrittore omegnese avvertiva come urgente un cambiamento di rotta nelle strategie di educazione linguistica attuate nella scuola italiana, condividendo quindi una delle principali preoccupazioni dei linguisti del tempo.
Un ultimo indizio, che ci riporta al punto di partenza: la prima edizione della raccolta Novelle fatte a macchina è del 1973; si tratta quindi dello stesso periodo in cui Rodari scrisse la maggior parte delle sue riflessioni di natura linguistico-teorica; ed è proprio in questa raccolta che si trova il racconto in cui compare il professor De Mauris. Ma non è la sua comparsa l’indizio decisivo, bensì le parole che Rodari gli fa pronunciare. Nel racconto, si narra dell’arrivo a Roma di alcuni dischi volanti, dai quali scendono i Marziani; una delle loro peculiarità è che parlano il linguaggio dei fumetti, producendo delle nuvolette con all’interno parole come Erk!, Clapp! Clapp!, Mumble… Mumble… Per cercare di capire il fenomeno, e di decifrare queste parole incomprensibili, arrivano da ogni parte esperti di tutti i tipi, tra i quali alcuni professori universitari. È a questo punto che il professor De Mauris prende la parola (Rodari 1973: 79):
– Peccato, – dice il professor De Mauris, docente di linguistica e suonatore di strumenti a percussione. – La lingua dei fumetti io la leggo e la scrivo, ma non la parlo. Cosa volete, nelle nostre scuole, nelle ore di lingue straniere, si fanno molti esercizi di grammatica, ma quasi mai conversazione.
– È vero, è vero, – approvano i presenti. – Anch’io leggo l’inglese, ma non lo parlo… Io scrivo il cabardino-balcarico, ma non lo leggo… Io ho una buona conoscenza letteraria dello swahili, ma non lo capisco…
Le parole del professor De Mauris ricalcano una delle critiche alla pedagogia linguistica tradizionale che di lì a poco saranno formulate da Tullio De Mauro sempre nelle Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica, cioè la scarsa rilevanza della dimensione parlata della lingua, a favore di un arido e improduttivo studio mnemonico delle regole della grammatica (in questo caso relativamente all’apprendimento delle lingue straniere). Ecco dunque che Rodari, nella dimensione narrativa del fantastico, inserisce un preciso riferimento a un tema molto dibattuto tra i linguisti del tempo, o per lo meno tra i linguisti che si occupavano anche di educazione linguistica, e non solo di linguistica teorica, e lo fa anche con un certo anticipo. A dimostrare che “il favoloso Gianni” era molto ben inserito in quel dibattito: non solo lo conosceva, ma vi prendeva parte attiva con la sua voce di pedagogista e di scrittore.
Ebbene, possiamo ora rispondere all’interrogativo iniziale, senza tanti dubbi: sì, Gianni Rodari è stato anche un linguista; magari non un linguista diplomato (nel senso che non fece studi accademici da linguista), ma un linguista appassionato, che riuscì ad applicare le sue riflessioni teoriche sul linguaggio nel campo della narrativa, e in particolare della narrativa per l’infanzia. E, considerando il ruolo della fantasia nella sua poetica, sia in teoria, sia in pratica, dimostrato da quell’efficacissimo titolo della sua opera più nota (la Grammatica della fantasia), e la grande coerenza tra il pensiero linguistico e la sua traduzione narrativa, possiamo definirlo a pieno titolo il primo e forse il più grande dei (fanta)linguisti.
Per approfondire
Boero, Pino. 20203. Una storia, tante storie. Guida all’opera di Gianni Rodari. Torino: Einaudi.
GISCEL. 1975. Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica.
Rodari, Gianni. 1973. Novelle fatte a macchina. Torino: Einaudi.
Rodari, Gianni. 1999. Grammatica della fantasia. 1a ed. 1973. Torino: Einaudi.
Rodari, Gianni. 2014. Scuola di fantasia, a cura di Carmine De Luca. Torino: Einaudi.
Roghi, Vanessa. 2020. Lezioni di fantastica. Storia di Gianni Rodari. Roma/Bari: Laterza.
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