Maria Garraffa
University of East Anglia / Univerity of Oslo
Il bilinguismo è spesso considerato un fenomeno circoscritto a un gruppo molto specifico di parlanti. Ad esempio, i bambini che imparano più di una lingua a partire dalla nascita sono considerati il prototipo di parlante bilingue, così come chi parla in modo fluente due lingue come l’italiano e lo spagnolo ma non sempre chi parla una lingua più locale come il sardo, il napoletano o il gaelico in Scozia.
Il bilinguismo è un fenomeno pervasivo della nostra società, è presente in più della metà della popolazione mondiale e non discrimina le lingue tra globali e locali.
Come sappiamo che un parlante di ‘lingue locali’ come il basco o il veneto è bilingue allo stesso modo di un parlante di due ‘lingue globali’, come lo spagnolo oppure il cinese? Su cosa si basa la definizione di bilinguismo o multilinguismo? E quali sono le prove per cui riconosciamo come bilingui anche i parlanti di lingue regionali?
Ricerche recenti sul bilinguismo hanno mostrato che l’uso regolare di più di una lingua sia il fattore principale che genera dei cambiamenti in parlanti bilingui di abilità non strettamente linguistiche come, ad esempio, la capacità di essere più flessibili in alcuni aspetti del ragionamento o di inibire l’interferenza di uno stimolo distrattore (Garraffa, Sorace & Vender, 2020). Questo approccio implica che la definizione di bilinguismo non si basi sul livello di competenza nelle due lingue, né sul fatto che il parlante abbia incontrato entrambe le lingue da bambino (la cosiddetta età di acquisizione).
È però un luogo comune diffuso l’idea che gli effetti del bilinguismo o del multilinguismo siano un fenomeno che in qualche modo riguarda i parlanti di ‘lingue globali’ o di parlanti che hanno imparato le lingue sin dalla nascita. Ecco che la ricerca sta mettendo in luce che il cervello non discrimina tra lingue globali, come ad esempio il cinese o lo spagnolo, e lingue locali, come il sardo o il gaelico, ma il fattore principale che conta per il cervello è invece legato all’uso regolare di più di una lingua e non il prestigio o la diffusione della lingua nella società.
Ci sono diverse ragioni per cui un parlante, ad esempio, di italiano standard e friulano debba essere considerato bilingue in modo simile rispetto ad un parlante bilingue italiano-spagnolo. Prima di tutto perché non esiste al momento un giudizio definitivo rispetto alla domanda se le lingue parlate da una comunità di parlanti siano delle varianti di una stessa lingua o delle lingue con dei tratti indipendenti. Molte delle lingue parlate in Cina, ad esempio, ed erroneamente chiamate dialetti, non sono intellegibili tra loro e sono più distanti di tante lingue parlate ad esempio nel continente europeo. Inoltre, la distanza tra le lingue non è stata ancora studiata a livello cognitivo e non siamo sicuri se lingue con origini simili siano ad esempio rappresentate nelle stesse aree, mentre lingue appartenenti a famiglie molto distanti siano più segregate. La domanda sulla distanza tra lingue non è ovvia, dato che non è chiaro quale sia l’insieme di operazioni linguistiche che distingue cognitivamente una lingua da un’altra. Molti aspetti sono ancora da scoprire e la stessa ricerca linguistica si aggiorna per indagare con maggiore dettaglio il cambiamento linguistico di una stessa varietà linguistica tra generazioni.
Vediamo cosa è stato studiato rispetto a lingue considerate appunto regionali o minoritarie in quanto prevalentemente segregate in una comunità di parlanti.
Per esempio, in uno studio condotto con parlanti sardo/italiano adulti e che vivono in un’area della Sardegna ad alto uso della lingua locale, la provincia di Nuoro (Garraffa, Obregon, Sorace, 2017), abbiamo riscontrato un pronunciato vantaggio nella memoria verbale, cioè la capacità per esempio di ricordare una lista di parole o di cifre, da parte degli adulti che facevano ampio uso del sardo. Ironicamente questi soggetti erano anche i parlanti con una scolarità più bassa rispetto agli altri adulti che hanno partecipato allo studio, ma il loro span di memoria (il numero di elementi che potevano tenere a mente) era decisamente migliore. Abbiamo quindi ipotizzato che il fatto che il sardo sia per loro la lingua dominante e soprattutto sia una lingua che fa uso unicamente della modalità orale e non scritta sia la base di queste robuste capacità mnemoniche. Questo dato è importante perché, appunto, dimostra che per studiare gli effetti delle lingue sul cervello bisogna considerarne anche l’uso che una comunità fa di una lingua e il modo in cui si è integrata nelle pratiche. Inoltre, in qualche modo si può speculare che una lingua orale sia un perfetto strumento per mantenere una buona memoria e quindi un invecchiamento cognitivo sano; una sorta di perfetto strumento di esercizio per il cervello.
In realtà non abbiamo scoperto nulla di rivoluzionario, perché già Platone nel mito di Theuth nel Fedro aveva presentato la scrittura come «l’arte che produrrà dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni esterni e non dal di dentro e da se medesimi». Abbiamo rinnovato le motivazioni per l’importanza della cultura orale e del fatto di non stigmatizzare alcune lingue considerate meno prestigiose come le nostre lingue regionali. Infatti, ci tengo a porre l’accento sul fatto che è bilingue anche chi parla una lingua regionale orale oltre a quella più diffusa globalmente. Considerate quindi quanti bilingui ci sono nel nostro paese!
Sempre a proposito del sardo parlato nella provincia di Nuoro, in un altro studio abbiamo indagato la competenza dei bambini che iniziavano la scuola elementare: si trovavano, quindi, ad abbandonare un ambiente ad alta densità di sardo, quello familiare, e a dividersi tra casa e scuola, in una situazione ad alta intensità di code switching (Garraffa, Beveridge, Sorace, 2015). In questo studio sono state misurate le competenze in italiano dei bambini e paragonate a quelle di coetanei che vivevano in un ambiente con prevalenza di italiano. Non sono state trovate differenze nelle competenze di comprensione dei bambini bilingui italiano-sardo rispetto ai bambini monolingui italiano, ma unicamente nei bambini bilingui sono state riportati soprattutto alcuni miglioramenti nella fluenza cognitiva e nelle capacità di inibire stimoli distrattori. L’obiettivo principale di questo studio era confutare il luogo comune che la lingua regionale (il sardo) influisse negativamente sulla lingua italiana, rendendo quindi più complessa la scolarizzazione per i bambini bilingui.
In entrambi gli studi sul sardo ci siamo soffermati su abilità orali, dato che in Italia purtroppo non vengono insegnati a scuola elementi di letto-scrittura nelle lingue regionali. Questo è invece il caso delle scuole gaeliche in Scozia. Per rivitalizzare una lingua che non ha molti parlanti, il governo scozzese ha istituito scuole che adottano un metodo di immersione scolastica nella lingua regionale. I ragazzi che frequentano queste scuole imparano e studiano tutte le materie in gaelico, sul quale si concentrano anche le competenze di lingua. L’inglese diventa una sorta di lingua moderna, che si studia in classe come si farebbe da noi una seconda lingua. In uno studio recente abbiamo sviluppato una prova di lettura in gaelico e abbiamo testato i bambini dalla terza alla quinta elementare per verificare se la loro competenza in gaelico fosse equiparabile alla loro competenza di lettura in inglese (Garraffa, Obregon, O’Rourke, Sorace, 2020). Il dato interessante è che i bambini leggevano perfettamente in entrambe le lingue, con un netto miglioramento per i bambini bilingui più grandi sull’inglese rispetto ai monolingui parlanti inglese. Il lavoro ha però messo in luce che certe competenze di alto livello, come la comprensione dell’informazione implicita o metaforica fosse un po’ carente nella lingua regionale, evidenziando che una lingua deve sempre essere ben presente e radicata in una comunità.
I benefici linguistici e cognitivi del bilinguismo con lingue regionali sono un ottimo incentivo per mantenere le lingue diffuse nelle comunità ed è veramente un’occasione sprecata non sfruttare e valorizzare questo patrimonio culturale e può avere effetti anche sulla nostra salute, preservando ad esempio le nostre capacità mnemoniche. Sarebbe un sogno pensare che un giorno un medico di base ai primi sintomi di afasia progressiva, di demenza o di disturbo di memoria chiedesse al paziente di imparare una lista di parole nella sua lingua regionale e di farne uso esplicito quotidianamente, cambiando regolarmente da una lingua ad un’altra.
C’è ancora molto lavoro da fare per capire gli effetti delle lingue del cervello, ma con fiducia mi sento di poter dire che il cervello non discrimina tra lingue.
Per approfondire
Garraffa, M. Sorace, A. & Vender, M. 2020. Il cervello bilingue. Carocci Editore.
Garraffa, M. Obregon, M. & Sorace, A. 2017. Linguistic and Cognitive Effects of Bilingualism with Regional Minority Languages: A Study of Sardinian–Italian Adult Speakers. Front. Psychol. 8:1907.
Garraffa, M. Beveridge, M. and Sorace, A. 2015. Linguistic and cognitive skills in Sardinian–Italian bilingual children. Front. Psychol. 6:1898.
Garraffa M. Obregon M. O’Rourke B. & Sorace, A. 2020. Language and Cognition in Gaelic-English Young Adult Bilingual Speakers: A Positive Effect of School Immersion Program on Attentional and Grammatical Skills. Front. Psychol. 11:570587.
https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/cervello5.html
https://www.letture.org/il-cervello-bilingue-maria-garraffa-antonella-sorace-maria-vender
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