Nicola Grandi
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Avete visto il film Groundhog Day?
Il protagonista, un meteorologo piuttosto scontroso interpretato da Bill Murray, viene inviato nella piccola città di Punxsutawney per un servizio televisivo sul tradizionale giorno della marmotta, ma rimane intrappolato in un circolo temporale che lo obbliga a rivivere sempre la stessa giornata: ogni giorno, al risveglio, tutto si ripete uguale a se stesso, nonostante i tentativi del protagonista di rompere questa circolarità.
Ecco, chi sceglie il mestiere del linguista si rassegni a vivere un eterno giorno della marmotta. Ogni linguista in effetti sviluppa piuttosto precocemente una certa ritrosia nel dichiarare la propria professione e l’oggetto dei propri studi perché impara, molto presto e sulla sua pelle, che la frase “io faccio il linguista” innesca immediatamente una serie di reazioni che si ripetono sempre uguali come la giornata di Bill Murray: “ah, il linguista? E quante lingue parli?”; “ah, il linguista? Allora devo stare attento o correggerai tutti i miei errori!”; “ah, il linguista? E allora toglimi una curiosità: quale è il congiuntivo trapassato di imbibire?”; “ah, il linguista? Allora levami questo dubbio: ma posso mettere la virgola davanti a e?”; “ah, il linguista? Santo cielo! Hai sentito come parlano male, oggi, i giovani? Ma come mai? Cosa si può fare?”. Ogni tentativo di rompere questo circolo è vano e il linguista passa repentinamente da un entusiasmo giovanile e studentesco ad una spenta e senile rassegnazione!
Non solo, il linguista suscita reazioni quasi sdegnate nel suo interlocutore quando dichiara che domande come quelle precedenti non hanno, per lui, alcun senso né attivano, in lui, alcun moto di interesse. Lo sdegno diventa palese quando il linguista rivela di trovare gli errori molto più affascinanti delle regole. E che, se dovesse davvero definirsi sulla base dell’aspettativa del suo interlocutore, si definirebbe più uno studioso di errori, che di regole.
Tutto ciò accade, con poche o nulle variazioni sul tema, ogni volta che un linguista deve parlare di sé.
Ma per quale motivo la figura del linguista è così travisata?
Le ragioni sono probabilmente diverse. Una di esse può risiedere nel fatto che ciascuno di noi impara (almeno) una lingua da bambino, apparentemente senza sforzo, in un modo molto naturale, quasi automatico. Un gioco da ragazzi, insomma! Ci ritroviamo a parlare (e, prima ancora, a capire) quasi senza accorgercene, esattamente come non ci accorgiamo di aver cominciato a respirare, a digerire, a dormire, a battere le palpebre, ecc.
Della lingua, quindi, non abbiamo consapevolezza e questo la rende, agli occhi dei più, un oggetto scontato e poco interessante, che suscita poche curiosità.
Questo atteggiamento, però, ha delle ricadute pratiche pericolose: se la lingua è così naturale e inconsapevole, tutti coloro che ne parlano una pensano di esserne esperti e, quindi, si sentono legittimati a discuterne. Tutto ciò alimenta gli stereotipi citati sopra e contribuisce al mancato riconoscimento delle professionalità che caratterizzano, invece, la lingua.
Due aneddoti ci aiuteranno a capire la portata del problema.
Nel momento in cui sto scrivendo questo articolo, il mondo vive una delle pagine più drammatiche della storia degli ultimi decenni: una pandemia.
Immaginate di essere direttori di un grande quotidiano e di ricevere una lettera che cerchi di interpretare la grave situazione sanitaria e che fornisca alcuni possibili rimedi per superarla. Questa lettera è firmata da 600 persone: architetti, ingegneri, geografi, geologi, insegnanti, giornalisti, attori, cantanti, calciatori, filosofi, chimici e, perché no, linguisti. Ma da nessun medico!
Voi, come direttori di un grande quotidiano, pubblichereste, magari in prima pagina, una lettera che affronti una gravissima situazione sanitaria firmata da tutti, tranne che da coloro che hanno reali competenze sul tema, cioè i medici? Immagino di no.
Eppure proprio questo è successo il 4 febbraio del 2017, quando quasi tutti i quotidiani e gli organi di stampa italiani hanno ospitato, con grande risalto, una lettera di 600 docenti universitari che lamentavano un presunto degrado della lingua italiana, proponendo alcuni possibili interventi per invertire la tendenza. Tra i 600 firmatari, solo pochissimi avevano a che fare, in modo talvolta indiretto, con la linguistica.
Come è stato possibile che una lettera scritta da persone in alcuni casi molto autorevoli, ma senza specifiche competenze in tema di lingua e linguistica, venisse accettata, pubblicata, rilanciata, condivisa?
Il secondo aneddoto ci riporta al 10 luglio 2019, quando è stato diffuso il report sulle prove INVALSI. Il giorno successivo, uno dei principali quotidiani italiani, la Repubblica, ha affidato il commento dei dati relativi alle competenze linguistiche degli studenti italiani alla prof.ssa Silvia Ronchey, docente di civiltà bizantina. Avete letto bene: civiltà bizantina! L’articolo, come prevedibile, conteneva molte inesattezze nell’interpretazione e nella contestualizzazione storica e sociale dei dati e affrontava l’argomento senza alcun approccio scientifico. Nei giorni successivi, nella stessa sede, sono intervenuti sul tema scrittori, saggisti, pedagogisti… ma nessun linguista!
Di nuovo: come è stato possibile che un importante quotidiano abbia trattato diffusamente un tema dall’impatto sociale così rilevante senza dar spazio a chi ha reali competenze a riguardo?
Tutto questo è la conseguenza più tangibile degli stereotipi che, un po’ scherzosamente, ho elencato sopra: l’idea che la lingua sia un fenomeno così naturale ci rende ‘inconsapevoli’ rispetto al suo uso e non ci porta a riconoscere che esistono, anche per essa, delle specifiche professionalità. Che non lo riconoscano neppure i principali organi di stampa è, ovviamente, ancora più grave.
Ci sono forse altre due ragioni che contribuiscono a rendere un po’ marginale, nell’immaginario collettivo, il mestiere del linguista. La prima è che la linguistica è una scienza relativamente giovane. Se la linguistica storica ha radici molto antiche, la nascita della linguistica generale (che studia le lingue nel loro funzionamento sincronico, a prescindere dalla loro evoluzione storica) viene convenzionalmente fissata al 1916, anno in cui uscì, postumo, il Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure. Poco più di cento anni or sono, dunque. In Italia, la prima cattedra di Linguistica generale fu affidata a Tullio De Mauro nel 1967, poco più di mezzo secondo fa.
La seconda ragione è che, anche in conseguenza della sua giovane età, la linguistica ha avuto un impatto certamente notevole sulla ricerca di base, ma i suoi risultati sono stati ‘sfruttati’, nella ricerca applicata, quella più visibile al ‘grande pubblico’, principalmente da altri settori: l’informatica, l’ingegneria, la genetica, l’antropologia, la pedagogia, le neuroscienze, la medicina, ecc.
Insomma, la linguistica ha una vocazione interdisciplinare e transdisciplinare che poche altre scienze, soprattutto in ambito umanistico, hanno. Questo, agli occhi dei linguisti, è un privilegio raro e prezioso, che però non tutti riconoscono…
Finora ho spiegato cosa non fa il linguista, ma non ho delineato in modo altrettanto chiaro il mestiere del linguista. Non l’ho fatto perché, in effetti, è molto difficile definire il mestiere del linguista, soprattutto volendo valicare i confini dell’accademia. Possiamo cercare di uscire dall’impasse limitandoci a dire che il linguista è colui che studia, scientificamente, il linguaggio umano (cioè quella capacità innata di Homo sapiens, l’animale parlante, di sviluppare sistemi di comunicazione potentissimi, semanticamente onnipotenti, cioè in grado di esprimere ogni concetto possibile) e le lingue (cioè la principale, ma non esclusiva, manifestazione di questa capacità), in tutte le prospettive possibili (teorica, applicata, sincronica, storica, ecc.). Questa definizione si addice perfettamente a chi insegna linguistica all’università. Ma poiché linguaggio e lingue pervadono quasi ogni ambito della nostra vita e della società, possiamo affermare che il mestiere del linguista serve a sviluppare competenze e abilità con potenzialità applicative sconfinate, che vanno dalla didattica delle lingue alla diagnosi dei disturbi del linguaggio e delle forme di demenza, dall’elaborazione di software di riconoscimento vocale alla progettazione di sistemi di traduzione automatica, dall’individuazione di linee guida per un linguaggio amministrativo accessibile alla pianificazione di campagne comunicative e pubblicitarie, dalla redazione di dizionari all’analisi dei trend prevalenti sui social network e alla profilazione dei loro utenti, ecc.
In molti di questi campi, il linguista non agisce in prima persona, da frontman; piuttosto concorre, assieme ad altre discipline, a definire professionalità complesse e composite. E proprio per questo particolarmente qualificate.
Insomma, sono convinto che la nostra società debba tanto ai linguisti e abbia bisogno di molti linguisti con specializzazioni diverse, anche se spesso fatica a rendersene conto. Ma noi linguisti non ci stancheremo di cercare di uscire dal nostro ‘giorno della marmotta’ per cercare di guadagnare lo spazio che pensiamo di meritare!
3 Commenti
Fabiana 27 Giugno, 2020
Complimenti per la perfetta descrizione della figura del linguista.
Mi ricordo che nel 2004, quando mi iscrissi a Lettere e scelsi Il curriculum Scienze linguistiche, eravamo in pochi perché c’era l’opinione che si studiava la grammatica, una cosa noiosa insomma. Invece a me aveva suscitato curiosità proprio per la parola “Scienze”. Al primo corso di Linguistica italiana del prof. Prada mi si aprì un mondo. Era l’unico a insegnare la Sintassi generativa e capii che la Grammatica aveva poco a che fare con la Linguistica. Se oggi qualcuno mi chiede “Le chiavi le hai tu?” nella mia mente la prima risposta è “Dislocazione a sinistra”. Quindi sì, il linguista non smette mai di lavorare, è sempre immerso nella sua materia. Inoltre, per me la linguistica insegna la tolleranza: come ha scritto nel suo articolo, gli errori sono più interessanti per il linguista e io, da insegnante, mi diverto molto a studiare in che modo sbagliano i miei alunni, a capire come la loro mente ha generato l’errore. Se sono interessanti li spiego così ai diretti interessati, i quali, a loro volta, si divertono a spiegare il loro errore ai compagni. E spesso ci facciamo grandi risate! Una cosa non tollero: i colleghi che insegnano la Grammatica in modo prescrittivo e perdono di vista il nome dell’insegnamento “Riflessione linguistica”…
Grazie per la creazione di questo sito!
Un cordiale saluto,
Fabiana M.
Ennio Desderi 28 Giugno, 2020
Riprendo un passo del suo interessante articolo, a proposito del secondo articolo (S. Ronchey): “Nei giorni successivi, nella stessa sede, sono intervenuti sul tema scrittori, saggisti, pedagogisti… ma nessun linguista!”. E chiedo: perché? Si tratta di censura? O di snobismo (Non ragioniam di lor…)? O, peggio di “compassione” (Tanto non capirebbero…)?
Emanuela Valenzano 20 Luglio, 2020
Sono una linguista, ho uno studio professionale, dove lavoro come libero professionista nel campo dell’educazione alla lingua in età evolutiva, in ambito privato e formativo.
Dopo “anni (altro che giorni) della marmotta” ho imparato a definirmi secondo le attività concrete che svolgo, ma il problema rimane… Personalmente mi scambiano per una… logopedista! 🙂
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