Silvio Cruschina
Università di Helsinki
Il linguaggio d’odio (hate speech in inglese) è un fenomeno sempre più al centro del dibattito pubblico. Inizialmente emerso in alcuni settori della società, quali la politica, la scuola e lo sport, è soprattutto con i nuovi mezzi sociali di comunicazione (social media o network) che si diffonde in maniera rapida e pericolosa. Questi nuovi strumenti permettono una comunicazione senza confini, la condivisione di conoscenze, lo scambio di messaggi e l’interazione indipendentemente dalle distanze e dalle differenze sociali. Possiamo tutti esprimere la nostra opinione e ci sentiamo tutti liberi di intervenire e commentare. Allo stesso tempo, però, questi mezzi di comunicazione hanno consentito la diffusione di un comportamento scorretto e anti-sociale, del cyberbullismo, dell’aggressione verbale e del linguaggio d’odio. In determinati contesti, primo fra tutti quello politico, questo tipo di comunicazione e di linguaggio è spesso sfruttato per far leva sulle emozioni e sulle credenze personali come potenti strumenti di persuasione. Le aggressioni verbali, una propaganda offensiva e la costruzione di autorità e di subordinazione, sia nel parlato che nello scritto, sono quindi diventati tratti frequenti dei discorsi pubblici, vere e proprie strategie di comunicazione.
Negli ultimi anni il linguaggio d’odio è stato oggetto di ricerca in diverse discipline, dall’analisi del discorso alla psicologia, dalla sociologia alla filosofia, dalla linguistica alla giurisprudenza, dagli studi di genere alla politica. L’attenzione principale è stata rivolta agli individui o ai gruppi che sono vittime di aggressione o discriminazione attraverso il linguaggio d’odio, ma anche alle controversie etiche e legali sui confini tra il diritto alla libertà di espressione e l’uso del linguaggio d’odio. Tra queste discipline, la linguistica offre una prospettiva preminente e svolge un ruolo primario. La lingua e le parole sono infatti elementi fondamentali per la costruzione e il rafforzamento delle identità sociali e, di conseguenza, per la costruzione e diffusione di stereotipi, discriminazioni, intolleranze e ingiustizie sociali. L’uso della lingua per attaccare un individuo o un gruppo sulla base di tratti quali la razza, l’etnia, la religione, il genere, la nazionalità, l’ideologia politica, le disabilità o l’orientamento sessuale costituisce la base del linguaggio d’odio. Con le parole possiamo offendere, insultare, esprimere la nostra superiorità o autorità e commettere pratiche discriminatorie. La linguistica ci consente inoltre di andare al di là dei casi di aggressione verbale espliciti e diretti, tramite insulti e metafore offensive. Gli stereotipi, i pregiudizi, la discriminazione e l’intolleranza possono infatti trovare manifestazioni implicite, più sottili e nascoste, difficili da identificare e riconoscere.
Se dico brutto frocio, sto utilizzando un espediente lessicale per insultare, esplicitamente e direttamente, un determinato bersaglio. Non sto semplicemente asserendo qualcosa o valutando qualcuno in base alle mie credenze, ma sto compiendo un atto illocutorio di offesa, minaccia, denigrazione e aggressione, innanzitutto verso un individuo specifico, ma poi anche nei confronti di un gruppo di persone identificabile per l’identità o l’orientamento sessuale. Ma cosa accade se invece non uso parolacce o aggettivi con connotazione negativa? Cosa succede, per esempio, se proferisco lo slogan prima gli italiani! oppure, in inglese, Britain first!. Di fatto, non so insultando o attaccando nessuno; in realtà, però, si tratta comunque di un incitamento all’intolleranza e al pregiudizio, di linguaggio d’odio che può scaturire nella diffusione, promozione o giustificazione di una discriminazione nei confronti di un gruppo sociale. Sebbene queste espressioni non contengano riferimenti espliciti ad altre nazionalità, nel contesto di un discorso pubblico la determinazione di una relazione gerarchica presuppone chiaramente la collocazione di un altro gruppo o di altri gruppi in una posizione di subordinazione o inferiorità.
Si tratta di significati impliciti e presupposizioni innescati da determinati elementi lessicali. Non compaiono nel messaggio esplicito che viene trasmesso, non sono cioè direttamente affermati dal locutore, ma si insinuano – implicitamente, appunto − nel messaggio stesso. Il lavoro di smontaggio e rimontaggio degli impliciti e delle presupposizioni è un processo (pragmatico) che un ascoltatore compie automaticamente, spesso – anche se non sempre − senza rendersene conto. L’uso dei termini o delle espressioni che attivano i significati impliciti è però spesso una scelta del locutore, che li sfrutta a fini propagandistici e comunicativi. Sono proprio i contenuti che sviluppiamo in questo modo quelli che si radicano in noi in modo più profondo.
Un esempio classico di significato implicito è quello associato alla congiunzione avversativa ma. Nella frase Irene è povera ma felice, ma coordina due aggettivi e allo stesso tempo veicola un senso di contrasto tra l’essere povero e l’essere felice. Il contrasto implicito può riguardare anche due frasi coordinate, non solo sul piano fattivo ma anche su quello valutativo. Consideriamo per esempio il seguente titolo di apertura in prima pagina del quotidiano Libero (del 23 gennaio 2019): “Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay”.
Questo titolo mette in correlazione un dato economico come l’andamento del prodotto interno lordo italiano con il numero di persone che si dichiarano omosessuali. La congiunzione ma suggerisce, anche se non asserisce direttamente, che ci sia un contrasto tra le due frasi. La prima forma di significato implicito riguarda quindi il contrasto tra la crisi economica e la crescita di quanti si dichiarano omosessuali. Il contrasto però va oltre i dati numerici: a livello contestuale, l’accostamento tra l’andamento negativo del Pil e l’incremento degli omosessuali sembra suggerire un rapporto di causa e di effetto: se c’è la crisi è perché aumentano gli omosessuali in giro per l’Italia. Si tratta di un ulteriore significato implicito.
Come se non bastasse, nell’occhiello si aggiunge “C’è poco da stare allegri” e nel sottotitolo “Gli unici a non sentire crisi sono gli omosessuali: crescono in continuazione”. Un titolo del genere alimenta luoghi comuni sull’aumento dell’omosessualità in Italia (sarebbe più corretto parlare di aumento di visibilità) e incita all’odio verso un gruppo di persone identificate in base al loro orientamento sessuale e omologato come gli unici a non sentire crisi.
L’incitamento alla discriminazione e all’odio può scaturire anche dalle formule propagandistiche che limitano l’applicazione di un vantaggio o di un’agevolazione ad un gruppo di persone sulla base della nazionalità, della religione o dell’orientamento sessuale (per es. solo gli italiani possono…). Un divieto quale “gli ebrei non possono far parte di associazioni culturali e sportive”, come previsto dalle leggi razziali del 1938-1944, è una forma di discriminazione in base alla religione. Il messaggio non usa termini offensivi, ma implica delle differenze di razza e di religione che sono usate come strumento di subordinazione per il riconoscimento di diritti e concessioni.
Per la costruzione o il rafforzamento di stereotipi e pregiudizi basta utilizzare generalizzazioni indefinite (i meridionali non lavorano mai), spesso accompagnate da un pronome contrastivo (noi italiani, voi immigrati; questo immigrato, queste persone). È possibile adoperare anche pronomi generici per riferirsi ad un gruppo o sottogruppo di persone (loro sono pigri e non lavorano mai). Si sottolineano in questo modo identità sociali diverse, si crea distanza, si fomenta l’intolleranza, si incita all’odio. Ecco un esempio tratto da Facebook (citato da Fumagalli 2019: 66), in cui si fa ripetutamente riferimento a loro in opposizione a noi:
Ma quale odio razziale… l’odio razziale è da parte loro verso noi. Sono loro che rifiutano i nostri usi e costumi. Sono loro che rifiutano di integrarsi. Sono ancora loro che pretendono, pretendono, pretendono, senza un minimo di riconoscenza.
Il senso di autorità di una persona o di una ideologia può essere diffuso anche attraverso l’uso di pronomi inclusivi per fare riferimento a un gruppo o a un partito non specificato (per es. noi: lo sappiamo tutti, dobbiamo agire adesso) o tramite l’impiego di avverbi e aggettivi di intensità (completamente, assolutamente, decisamente) o aggettivi e avverbi che esprimono la sicurezza del parlante (epistemici) o l’attendibilità della fonte d’informazione (evidenziali) (sicuramente/evidentemente non è stato fatto abbastanza). Questi espedienti hanno il potere di giustificare e legittimare credenze e comportamenti e di influenzare la nostra percezione della realtà. Sono sfruttati per conferire autorità ad una dichiarazione, indipendentemente dalla verità del messaggio, e sono molto comuni negli episodi di aggressione verbale.
Il linguaggio d’odio non ha soltanto conseguenze personali, ma anche sociali, perché oltre alla singola persona colpisce tutto il gruppo di appartenenza. Bisogna quindi combatterlo su diversi fronti. La linguistica può aiutarci ad identificare il linguaggio d’odio nelle sue forme e nelle sue espressioni più subdole e nascoste tramite liste ed esempi delle strategie più comuni, ad educare gli utenti dei nuovi mezzi di comunicazione a riconoscerlo e a evitarlo. Può contribuire alla campagna di sensibilizzazione e all’implementazione delle varie forme di autodisciplina da parte della stampa e dei social media. Alcuni paesi regolano il linguaggio d’odio per prevenire e punire i crimini d’odio. In Italia non esistono per ora leggi che menzionano il linguaggio d’odio, anche se non mancano iniziative rivolte alla segnalazione di contenuti d’odio (si vedano per es. Odiare ti costa e la nuova Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio, che verrà ufficialmente presentata il prossimo 14 luglio) Le difficoltà principali nella regolamentazione riguardano proprio il riconoscimento di questo tipo di linguaggio. L’analisi linguistica del linguaggio d’odio può quindi contribuire a definirlo e a capire meglio i confini tra libertà di espressione e incitamento all’odio.
Per approfondire
Bianchi, Claudia. 2017. Linguaggio d’odio, autorità e ingiustizia discorsiva. Rivista di Estetica 64. 18-34.
Faloppa, Federico. 2012. Razzisti a parole (per tacer dei fatti). Bari: Laterza.
Faloppa, Federico. 2020. #ODIO. Manuale di resistenza alla violenza delle parole. Torino: UTET.
Fumagalli, Corrado. 2019. Discorsi d’odio come pratiche ordinarie. Biblioteca della libertà 224. 55−75.
Lombardi Vallauri, Edoardo. 2019. La lingua disonesta. Contenuti impliciti e strategie di persuasione. Bologna: il Mulino.
6 Commenti
Massimo Vedovelli 14 Luglio, 2020
Nella bibliografia inserirei anche Caterina Ferrini, Orlando Paris, I discorsi dell’odio, Roma, Carocci, 2019.
Silvio Cruschina 03 Agosto, 2020
Grazie del suggerimento. Chiederò di aggiungerla alla bibliografia.
Antonio 16 Luglio, 2020
Articolo interessante, chiaro ed esaustivo. Grazie!
Silvio Cruschina 03 Agosto, 2020
Grazie mille, Antonio!
Cristina 01 Agosto, 2020
Articolo interessante, ma manca la parte legata alla linguistica computazionale che è sempre più sovente applicata per aiutarci ad identificare il linguaggio d’odio ad esempio all’interno dei social media. Per varie lingue negli ultimi anni sono stati costruiti sistemi per la rilevazione automatica dell’hate speech e tanti corpora per addestrarli. In progetti come Contro l’odio ad esempio si vedono i risultati di questi sistemi riportati dinamicamente su una mappa (https://mappa.controlodio.it/).
Silvio Cruschina 03 Agosto, 2020
Grazie mille, Cristina! È vero, manca la parte di linguistica computazionale. Ho seguito le applicazioni recenti, ma non mi sono ancora aggiornato sui risultati (sembra limitata al lessico, ma indagherò). La terrò sicuramente presente in un eventuale seguito di questo articolo (e anche per mio interesse personale). Ti ringrazio anche per la segnalazione della pagina del progetto (che però, ahimé, non riesco a far funzionare; non so se per un problema del sito o del mio computer). Saluti!