Francesca Masini
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
I lettori che seguono le avventure di Linguisticamente lo sanno già, ma per chi fosse capitato su questi lidi per la prima volta vale la pena di ribadirlo: i linguisti non studiano le lingue per imparare a parlarle, le studiano per capire come sono fatte. Di più, i linguisti spesso capita che parlino più di una lingua, ma non sono necessariamente poliglotti. Non è nemmeno detto che le lingue che un linguista parla coincidano con quelle che studia…
Pensiamo alla differenza tra un astronomo e un astronauta. L’astronomo osserva e spiega eventi e corpi celesti; l’astronauta esplora lo spazio in prima persona. L’astronomo ‘sa’ una quantità notevole di informazioni sui corpi celesti senza essersi recato fisicamente in nessuno di questi. D’altro canto, l’astronauta ha una conoscenza più ravvicinata di alcuni eventi spaziali senza necessariamente avere tutto il bagaglio di conoscenze teoriche di un astronomo. Anche gli strumenti che usano sono molto diversi: semplificando un (bel) po’, possiamo dire che per esplorare il cosmo dalla Terra serve un potente telescopio, per esplorare il cosmo ‘dal vivo’ è necessaria una navicella spaziale.
Il linguista è un po’ come l’astronomo: osserva le lingue e cerca di spiegarne il funzionamento (senza che questo comporti necessariamente il saperle ‘navigare’). Ma come fa il linguista a osservare quelle galassie meravigliosamente complesse che sono le lingue? Dove punterà il suo telescopio?
Immaginiamo di ritrovarci in mezzo a un popolo sconosciuto e di doverne descrivere la lingua, di cui non sappiamo nulla, salvo che è frutto – come tutte le altre lingue – della facoltà del linguaggio. Che cosa ‘osserveremo’ esattamente?
Una delle più note citazioni di Ferdinand de Saussure, padre della linguistica moderna, riguarda proprio questo aspetto: in linguistica, “è il punto di vista che crea l’oggetto”. Ovvero, il dato linguistico non è direttamente osservabile, è il linguista stesso che crea la prospettiva attraverso cui guardarlo. Pensiamo a libro in italiano. A partire da questo ‘dato’ potremmo osservare molte cose: che è una parola; che è formata da cinque suoni e da due sillabe; che è un nome; che compare come oggetto di molti verbi (ad es. comprare/leggere un libro) ma non di altri (ad es. decorticare un libro); che ha genere maschile, il quale dovrà comparire anche negli aggettivi che lo accompagnano (libro nuovo); che si riferisce a un oggetto concreto molto comune ma che può avere anche sensi più figurati (ad es. il libro dell’universo); che forma delle locuzioni ‘fisse’ insieme ad altre parole (ad es. libro bianco, libro di bordo); e così via.
Questi diversi ‘aspetti’ appartengono a ‘livelli’ di descrizione diversi. Ciascuno di questi livelli può essere (in una certa misura) isolato rispetto agli altri e ‘ingrandito’, allo scopo di essere analizzato più nel dettaglio.
Il livello del ‘suono’ è sicuramente uno di questi livelli. Tornando alla nostra lingua sconosciuta, sicuramente una delle operazioni che dovremo fare è capire quanti e quali suoni ci sono in quel sistema linguistico. Nel complesso, sono circa 900 i suoni linguistici delle lingue del mondo: alcune hanno inventari di suoni piuttosto semplici, altre molto più complessi. Bisognerà anche capire come questi suoni si possono combinare tra loro (ad es., in italiano una sequenza come krk non sarebbe possibile ma in ceco lo è!), ma anche come funziona la ‘prosodia’ di quella lingua, ovvero l’insieme delle caratteristiche foniche che ‘accompagnano’ suoni e sequenze di suoni, come l’intonazione, che in alcune lingue ha funzioni molto specifiche (sempre in italiano, ad es., può da sola distinguere una frase dichiarativa da una interrogativa: Ti piace la linguistica vs. Ti piace la linguistica?).
Un altro livello su cui dovremo puntare la lente è quello delle amate ‘parole’. Sebbene ci possano sembrare oggetti scontati, le parole sono un dominio molto più complesso di quello che pensiamo. Libro, come abbiamo detto, è una parola in italiano, più precisamente una parola ‘semplice’, dalla quale possiamo derivare parole ‘complesse’ (come libraccio, libraio o libreria, ma anche libro-gioco). Poi ci sono lingue, come il Bininj Gun-wok (parlata in Australia), in cui è normale trovare parole come abanyawoyʔwargaʔmaɳegaɲgiɲeŋ, il cui significato è, all’incirca, ‘ho di nuovo cotto loro la carne sbagliata’ (Evans 2003), che potrebbe essere resa in italiano solo con un’intera frase. Anche il modo in cui è organizzato il lessico è oggetto di indagine: quante e quali classi di parole ha la nostra lingua sconosciuta? Per quanto ne sappiamo, nomi e verbi sono le uniche parti del discorso universali o quasi, tutto il resto è variabile. E ancora: quali informazioni grammaticali vengono trasmesse obbligatoriamente dentro le parole? L’italiano, ad esempio, esprime il genere in alcune parti del discorso (nuova vs. nuovo), ma non è detto che il genere sia codificato in tutte le lingue (molte lingue non hanno un sistema di genere), e non è detto neanche che le lingue che lo codificano usino gli stessi valori che usiamo noi (maschile, femminile): in ojibwe (lingua algonchina parlata in Canada) abbiamo un sistema a due valori basato sull’animatezza, perciò avremo nomi ‘animati’ (persone, animali, spiriti e alberi) e nomi ‘inanimati’ (come essin ‘pietra’) (Corbett 1991: 20). Altre lingue ancora esprimono nelle parole informazioni inusuali per noi parlanti dell’italiano, come il ‘frustrativo’, che indica che un’azione non ha raggiunto l’effetto desiderato: la lingua iatmul (papuana) lo codifica all’interno delle forme verbali, come in ki’ki’da ki’lavidi ‘non sono riusciti a finire il cibo’ (letteralmente: cibo + forma del verbo mangiare), dove il mancato raggiungimento dell’obiettivo è espresso dalla marca –lavi– inserita dopo la radice per ‘mangiare’ (ki’) (Jendraschek 2021).
Il modo in cui le parole si combinano tra loro per formare delle frasi è un altro ‘livello’ imprescindibile. Si dovrà cercare di capire come la nostra lingua sconosciuta costruisce le frasi dichiarative semplici: potrebbe funzionare come l’italiano, in cui abbiamo un ordine di base del tipo ‘soggetto-verbo-oggetto’ (Giulia legge un libro), oppure come il giapponese, in cui l’ordine di base è del tipo ‘soggetto-oggetto-verbo’ (Taro ga inu o mita ‘Taro vide il cane’, letteralmente: Taro cane vide), oppure in un altro modo ancora. Bisognerà capire quali ‘conformazioni’ possono assumere le frasi, a seconda del tipo di verbo usato: in italiano un verbo come mangiare può comparire con o senza il complemento oggetto (Alex ha mangiato la pizza, Alex ha mangiato), mentre un verbo, pur simile dal punto di vista semantico, come divorare non può fare a meno di esprimere l’oggetto (Alex ha divorato la pizza ma non Alex ha divorato). La presenza/assenza di determinati elementi e l’ordine in cui compaiono andranno ‘osservati’ in tutti i componenti della frase: ad esempio, dove si collocherà l’aggettivo rispetto al nome (sempre che la nostra lingua abbia degli aggettivi!)? E, naturalmente, quanti e quali tipi di frasi avremo?
C’è poi almeno un altro ‘livello’ di indagine che dobbiamo considerare, un livello forse meno ‘afferrabile’ degli altri: quello del significato, ovvero del ‘contenuto’ delle strutture linguistiche. Le parole hanno un significato lessicale (anzi, spesso ne hanno più d’uno, sono cioè ‘polisemiche’, come libro discusso poco fa) e sono collegate tra loro da relazioni di varia natura (ad es. nuovo e vecchio hanno significato opposto). Anche le frasi hanno un significato. E tramite esse compiamo tutta una serie di ‘atti’ che sono alla base dell’interazione sociale: facciamo delle constatazioni, diamo ordini, facciamo domande, esprimiamo dubbi, sentimenti, ecc. In alcune espressioni linguistiche, questo significato è ‘non letterale’, cioè non predicibile a partire dal significato delle parti: pensiamo a locuzioni come cervello in fuga o avere un diavolo per capello, ma anche a frasi come Nicole non è una stupida. Nel formularla, non sto semplicemente negando la stupidità di Nicole; sto dicendo, in realtà, che Nicole è intelligente.
Quella che ho appena descritto, in maniera del tutto sommaria e parziale, è la suddivisione in ‘livelli di analisi’ che caratterizza tradizionalmente lo studio delle lingue. Se aprite un qualsiasi manuale di introduzione alla linguistica, quasi sicuramente troverete nell’indice la seguente successione di capitoli: fonetica e fonologia (lo studio dei suoni), morfologia e lessico (lo studio delle parole e del lessico), sintassi (lo studio delle frasi), semantica e pragmatica (lo studio dei significati e dell’uso delle espressioni linguistiche, rispettivamente). Anche le ‘grammatiche descrittive’ delle lingue (scritte dai linguisti per i linguisti) seguono in larghissima parte questa suddivisione.
I linguisti spesso si specializzano in uno di questi ambiti – c’è chi fa il fonologo, chi fa il morfologo, chi fa il sintatticista e così via – puntando quindi il proprio ‘telescopio’ su un aspetto del sistema linguistico. Solo uno? – direte voi. Ebbene sì, proprio come avviene in altre scienze. In medicina, c’è chi si specializza in ginecologia, chi in endocrinologia, chi in pediatria ecc. Lo stesso vale per la linguistica, nonostante questi aspetti siano compresenti nelle manifestazioni linguistiche e interagiscano costantemente, tanto da rendere i confini labili.
Quanti e quali livelli ‘esistono’ è oggetto di dibattito in linguistica: alcuni pensano che il livello della morfologia, ad esempio, non esista separatamente dalla sintassi; per alcuni semantica e pragmatica sono due livelli distinti, per altri invece sono un dominio unico; e così via. Alcuni linguisti sono poi convinti che questa suddivisione sia fittizia, cioè che non esistano ‘moduli’ separati della competenza linguistica. I livelli di analisi sarebbero, allora, degli epifenomeni. Indipendentemente dalla teoria che ci convince di più, la suddivisione in livelli è uno strumento operativo utile: la struttura delle lingue è molto più complessa di quello che si possa pensare e per comprenderla a fondo, a volte, è necessario circoscrivere il proprio oggetto di indagine, puntando il ‘fuoco’ del nostro telescopio su un aspetto specifico, ingrandendo l’immagine e aumentando la risoluzione. Dobbiamo solo ricordarci di non rinunciare alla visione d’insieme.
0 Commenti
Lascia un commento