Francesca Gallina
Università di Pisa
Il 21 febbraio di ogni anno rappresenta la Giornata internazionale della lingua madre, promossa dall’UNESCO per celebrare il valore della lingua materna e l’importanza del plurilinguismo. La scelta del 21 febbraio nasce dalla volontà di ricordare un episodio accaduto nel 1952 in Pakistan, quando le forze di polizia pakistane ferirono e uccisero alcuni studenti dell’Università di Dacca, che protestavano rivendicando il diritto del bengalese di essere riconosciuto come lingua ufficiale del Pakistan (che all’epoca comprendeva anche il Bangladesh).
Nel 1999 la Conferenza Generale dell’UNESCO ha istituito la Giornata internazionale della lingua madre, che dal 2007 è stata riconosciuta anche dall’Assemblea Generale dell’ONU tramite la risoluzione 61/266 dedicata al multilinguismo, con il fine di “promuovere la conservazione e la salvaguardia di tutte le lingue usate dalle popolazioni del mondo”. L’ONU e l’UNESCO, così come altre istituzioni internazionali come ad esempio l’Unione Europea, sostengono convintamente l’importanza del plurilinguismo, poiché interpretano la diversità linguistica e culturale come elemento chiave di società coese e sostenibili, dove gli individui possono vivere nel rispetto e nella tolleranza. La diversità linguistica e culturale consente anche di preservare le tradizioni in modo sostenibile, favorendo la trasmissione di tutte le culture di un territorio.
Oggigiorno il 40% della popolazione mondiale non ha possibilità di accesso a un’istruzione nella propria lingua madre, e anche se alcuni passi in avanti sono stati compiuti a favore di un’educazione multilingue che comprende anche la lingua madre degli apprendenti, molte restano le situazioni in cui la lingua madre è oggetto di discriminazione se non addirittura di vera e propria censura.
Il tema della Giornata internazionale della lingua madre per il 2021 è il seguente: “Promuovere il multilinguismo per l’inclusione nell’educazione e nella società”. Il Piano d’Azione Educazione 2030 dell’UNESCO, che nasce dall’Agenda 2030 dell’ONU, il cui obiettivo n. 4 è quello di fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva e opportunità di apprendimento per tutte e tutti, vuole incoraggiare il pieno rispetto della lingua materna nell’educazione, oltre che promuovere e salvaguardare la diversità linguistica. Il Piano UNESCO incoraggia l’insegnamento e l’apprendimento nella lingua madre fin dall’educazione prescolare, agevolando percorsi di alfabetizzazione in essa, all’interno di pratiche educative multilingui.
Il plurilinguismo rappresenta un elemento cardine per dare vita a sistemi educativi inclusivi, capaci di garantire a tutte e tutti le conoscenze e le competenze necessarie per inserirsi appieno nella società, per rendere consapevoli donne e uomini delle proprie tradizioni linguistiche e culturali, in un dialogo con l’altro che si fondi sulla reciproca comprensione e tolleranza. Preservare la lingua madre è dunque un presupposto irrinunciabile per un’educazione di qualità, che non lasci indietro nessuno.
Ma che cos’è la lingua madre?
Come si può evincere dalla parola, possiamo dire in prima battuta che è la lingua che ereditiamo dalla nostra famiglia, anche se le situazioni possono essere molto più complesse, soprattutto nei contesti plurilingui. Un individuo potrebbe, ad esempio, avere una lingua materna e una lingua paterna che non coincidono (e che possono essere anche dei dialetti, non solo delle lingue come le intendiamo comunemente). Potrebbe abbandonare l’uso della propria lingua materna a seguito di un’esperienza migratoria a favore della lingua del Paese che lo ospita, con una perdita parziale o totale di competenza nella lingua madre. Potrebbe altresì sviluppare la lingua madre solo in parte, ad esempio sviluppando la capacità di parlarla e capirla oralmente, ma non di scriverla o di leggerla. Oppure potrebbe saperla usare in alcuni contesti più familiari, quotidiani, ma non in ambito accademico o professionale.
In ogni caso, la lingua che ereditiamo viene collegata alla figura materna in diverse lingue (mother language/tongue, langue maternelle, lengua materna, ecc.), per il ruolo che la madre svolge nel determinare lo sviluppo delle capacità linguistiche nelle bambine e nei bambini, anche se in alcuni Paesi, come la Svezia, a scuola viene offerta la possibilità ai bambini con background migratorio di apprendere non solo quella che è definita come ‘lingua materna’, ma anche la ‘lingua paterna’.
L’espressione ‘lingua madre’ è in parte sovrapponibile a espressioni come ‘home language’, ‘lingua di origine’, ‘prima lingua’, ‘L1’. In tutti questi casi, il parlante è definito come ‘madrelingua’ o ‘parlante nativo’, per sottolineare il fatto che quell’individuo parla quella lingua perché l’ha sentita fin dalla propria nascita (e anche durante la gestazione!): si tratta della lingua con cui compie le prime interazioni, che spesso utilizza per imparare a leggere, a scrivere e a far di conto, anche se, come abbiamo visto, molti individui a scuola utilizzano una lingua che non dominano e che non è la loro lingua madre.
Eppure, non tutti i nativi sono uguali, nel senso che ciascun individuo impara la lingua in un certo contesto, segue percorsi educativi e di vita che possono essere molto eterogenei, ha conoscenze linguistiche che non coincidono mai perfettamente con quelle di un altro individuo.
La varietà di lingue e dialetti del nostro Paese complica particolarmente la definizione di parlante nativo, come ha ben sottolineato Gaetano Berruto, uno dei più grandi sociolinguisti italiani, in un suo contributo dedicato al parlante nativo di italiano del 2003. Secondo Berruto, se per italiano assumiamo che l’italiano è quello standard, allora nessuno è in effetti un parlante nativo, tanto più se prendiamo in considerazione la fonetica, poiché l’italiano standard viene appreso non tanto nella socializzazione primaria, quanto attraverso l’educazione scolastica.
Quali sono allora i criteri che possiamo adottare per definire una persona come parlante nativo?
Certamente ciascuno è parlante nativo di una lingua (escludendo dunque situazioni limite come quelle dei bambini lupo), ma definire il parlante nativo secondo parametri misurabili resta una questione fondamentale per i linguisti, che hanno espresso posizioni molto diverse tra loro.
Secondo una prospettiva più restrittiva, il parlante nativo è colui che sa esprimere i cosiddetti giudizi di grammaticalità, che distingue ciò che è grammaticale (ovvero che è corretto per il sistema linguistico di riferimento) da ciò che non lo è, che sa dire cosa è accettabile e cosa non lo è in una lingua. Da questo punto di vista il parlante nativo è una risorsa importante per i linguisti, perché consente di ricostruire e descrivere una lingua, grazie alle sue intuizioni.
Ma non sempre il parlante nativo è un parlante ideale (per dirla alla Chomsky) e competente, e non sempre i giudizi dei parlanti nativi coincidono, anzi a volte si riscontrano delle divergenze, che rendono perciò problematico stabilire il confine tra chi è e chi non è madrelingua. Entrano quindi in gioco altri criteri, come ad esempio quello della lingua della socializzazione primaria.
Alan Davies (2003) ha cercato di riassumere i tratti che ci consentono di dire che un individuo è un parlante nativo:
- ha acquisito la L1 da bambino;
- ha intuizioni sulla propria grammatica;
- sa distinguere la propria grammatica da quella standard;
- ha una specifica competenza linguistica, sa produrre fluentemente un discorso spontaneo;
- ha una specifica competenza nell’utilizzare la propria lingua per scopi creativi e per tradurre nella propria L1.
Secondo Davies il parlante nativo non va dunque inteso come parlante ideale, in un certo senso mitizzato da molti linguisti, anche se certamente la distinzione nativo/non nativo si basa anche sulla competenza linguistica (intesa però come capacità di usare una lingua), al punto che possiamo parlare di parlante quasi nativo nel caso di apprendenti di una lingua seconda che raggiungono livelli elevati di competenza, ma che si distinguono nettamente dai nativi per l’età di acquisizione della lingua. Per quanto riguarda la competenza dei nativi e dei non nativi sarebbe forse più opportuno immaginare il parlante nativo su un continuum, proprio per meglio rappresentare le diverse situazioni che caratterizzano i parlanti. Agli estremi del continuum troviamo da un lato il parlante nativo prototipico con una competenza molto ampia, e dall’altro lato colui che usa quella stessa lingua pur non essendo madrelingua (il cosiddetto “native user” secondo la proposta di Alan Davies, 2013). Lungo il continuum, invece, possiamo trovare diverse situazioni: il parlante semi-nativo, quello quasi-nativo e quello ex-nativo (Berruto 2003).
Per concludere, possiamo dire che la definizione di parlante nativo non è così netta come potrebbe sembrare a prima vista, e che la nozione stessa di parlante nativo dipende da una molteplicità di fattori, che non pregiudicano però il fatto che il 21 febbraio sia la festa di chiunque parli una lingua.
Per approfondire
Berruto, Gaetano. 2003. Sul parlante nativo (di italiano). In Hans-Ingo Radatz & Rainer Schlösser (a cura di), Donum grammaticorum. Festschrift für Harro Stammerjohann, 1-14. Tübingen: Niemeyer.
Davies, Alan. 2003. The native speaker: Myth and Reality. Clevedon: Multilingual Matters.
Davies, Alan. 2013. Native speaker and native users: Loss and gain. Cambridge: Cambridge University Press.
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