Paolo Milizia
Università di Napoli l’Orientale
La linguistica storico-comparativa afferma di poter ricostruire con buona precisione numerose caratteristiche di come parlavano alcuni gruppi umani preistorici, pur non disponendo di alcuna documentazione della loro lingua: nessuna iscrizione, nessun testo tramandato da manoscritti, nessun canto o poema trasmesso da una generazione all’altra tramite apprendimento mnemonico. Il prodotto più compiuto di questa disciplina è la ricostruzione dell’indoeuropeo preistorico, dalla quale sappiamo, tra tante altre cose, che gli Indoeuropei chiamavano il lupo *uĺkuos (sì, con l’accento sulla l) e la mucca *guṓus, dicevano *tod per dire ‘quella cosa’ e *septḿ (con l’accento sulla m) per dire ‘sette’ [con gli asterischi contrassegniamo tutte le forme non documentate].
Ora, la ricostruzione dell’indoeuropeo non nasce come risposta alla domanda: «Come parlavano gli Indoeuropei?». ‘Indoeuropei’, infatti, non è che il nome che abbiamo dato alle popolazioni che dicevano *uĺkuos, *guṓus, *septḿ, *tod. Di questi gruppi umani, al di là di ciò che riguarda la loro lingua, non sappiamo nulla di certo (per quanto diversi studiosi li collochino cronologicamente in un’epoca compresa tra il 5000 e il 2500 a.C. e geograficamente nei territori a nord del Mar Nero e del Mar Caspio). Ma qual è allora il problema scientifico che la ricostruzione dell’indoeuropeo vuole risolvere? E da cosa deriva la fiducia dei linguisti nell’affidabilità di quelle parole ricostruite? La risposta a queste domande è legata a due proprietà generali del linguaggio verbale umano: l’arbitrarietà del segno e la regolarità dei mutamenti fonetici. Ma procediamo con ordine.
Semplificando un po’, possiamo dire che una lingua ricostruita – ma si tratta sempre, in realtà, di una ricostruzione parziale – è la progenitrice comune di due o più lingue documentate. Sono queste a fornire i dati sui quali opera il procedimento di ricostruzione. Nel caso dell’indoeuropeo le lingue figlie sono un vasto gruppo di idiomi che comprende la maggior parte delle lingue d’Europa (tra le eccezioni vi sono ungherese, finlandese e basco), la maggior parte delle lingue distribuite in una fascia dell’Asia meridionale che dall’Armenia e dal Kurdistan arriva all’India settentrionale, così come numerose lingue ora estinte, tra cui la lingua degli Ittiti. Le parole di queste lingue presentano un insieme di coincidenze, ossia di corrispondenze, che è il vero oggetto dell’analisi storico-comparativa. Come spiegare tali coincidenze è appunto il quesito a cui la ricostruzione linguistica fornisce una risposta.
Se possiamo parlare di coincidenze da spiegare è perché, tranne che per poche eccezioni parziali – tra cui figurano le parole che imitano i versi degli animali, come miao o chicchirichì – le unità di una lingua dotate di significato sono arbitrarie. Con questa espressione intendiamo dire che non c’è nessuna relazione naturale tra il concetto che vogliamo esprimere e i suoni che usiamo per comunicarlo. Si tratta di un fatto evidente per chiunque conosca almeno una lingua diversa dalla propria: nessuno si meraviglia se lo stesso animale si chiama gatto in italiano e neko in giapponese. Ma questo fatto ci dice anche che se due lingue usano due sequenze di suoni molto simili per indicare una stessa cosa, ciò difficilmente potrà essere attribuito al caso. In particolare, quando la somiglianza riguarda più parole e sequenze di suoni non troppo brevi la possibilità di una coincidenza casuale è sostanzialmente nulla. Così, già nel Cinquecento, il viaggiatore fiorentino Filippo Sassetti, notando in un soggiorno in India che il sanscrito, l’antica lingua degli Indiani, possiede parole come sapta ‘sette’, sarpa ‘serpe’ e nava ‘nove’, aveva ben compreso che la consonanza con l’italiano non poteva essere fortuita e aveva scritto, in una lettera del 1586, che in sanscrito si trovano “molti de’ nostri nomi”. Naturalmente Sassetti si sarebbe sorpreso assai meno se le somiglianze avessero riguardato unicamente parole non del tutto arbitrarie come miao o chicchirichì.
Eppure affinità come quelle notate da Sassetti provano ancora poco in merito alla dimostrazione di una parentela genealogica tra lingue. E questo per due motivi. Il primo è che si tratta di semplici somiglianze e non di identità: sapta è simile ma non identico all’italiano sette. Estremamente simile, è vero. E tuttavia, se accettiamo l’idea che per individuare una parentela tra due lingue basta cercare coppie di parole simili, quale criterio potremmo adottare per decidere se una somiglianza è sufficientemente stretta da essere probante o se è invece troppo vaga. Un’identità dell’80% dei suoni o delle loro caratteristiche? E perché non del 90% o del 70%? Il secondo è che non siamo ancora in grado di escludere che una delle due lingue abbia semplicemente preso in prestito un gruppo di parole dall’altra, come nel caso delle parole cifra e tariffa, che l’italiano ha tratto dalle voci arabe ṣifr e ta‘rīfa senza che ciò implichi l’esistenza di un rapporto di parentela tra italiano e arabo.
In realtà ciò che garantisce al linguista che l’italiano sette e il sanscrito sapta siano due continuazioni di una stessa parola dell’indoeuropeo preistorico non è la loro forte somiglianza, ma la loro perfetta identificabilità alla luce delle corrispondenze che ci aspettiamo di trovare, corrispondenze determinate a loro volta dai mutamenti che i suoni originari hanno subíto nella storia e nella preistoria dell’una e dell’altra lingua. Questa possibilità di ragionare per corrispondenze attese dipende dal principio della regolarità dei mutamenti fonetici.
Con questa espressione alludiamo al fatto che quando nella storia di una lingua si verifica un mutamento di suono, questo coinvolge tutte le ricorrenze dei suoni di uno stesso tipo – per esempio, tutti i suoni p, o tutti i suoni e, o tutte le consonanti prodotte con meccanismo occlusivo-esplosivo (come p, t, k), e così via – che si trovano in un determinato contesto, per esempio tra due vocali, o in fine di parola, o davanti a consonante, e così via. E ciò indipendentemente dalla specifica parola in cui i suoni ricorrono. Nessuno può predire quali mutamenti fonetici si verificheranno nel corso dell’evoluzione di una lingua. Si può però predire che quelli che si verificheranno rispetteranno uno schema di questo tipo: un suono con tali e tal altre caratteristiche si muterà in tale modo nel tale contesto (e questo “in tale contesto” potrà anche essere “in qualsiasi contesto”).
Torniamo al numerale per ‘sette’. In indoeuropeo preistorico era *septḿ. Questa forma è diventata l’italiano sette attraverso il latino septem in virtù di quattro mutamenti regolari. Quali? Innanzitutto, in latino ogni m indoeuropea preceduta da un’altra consonante e posta in fine di parola è diventata una sequenza em (mutamento 1) e ogni bisillabo accentato sull’ultima sillaba ha ritratto l’accento sulla penultima (mutamento 2): arriviamo così da *septḿ al latino séptem. Inoltre nel passaggio dal latino all’italiano ogni m finale di polisillabo è scomparsa (mutamento 3), mentre ogni p seguita da una t si è assimilata a tale consonante successiva (mutamento 4): septem diventa sette. Lo stesso *septḿ è divenuto in sanscrito classico sapta attraverso tre cambi: nelle lingue del sottogruppo indoiranico – di cui il sanscrito fa parte – ogni m preceduta da un’altra consonante e posta in fine di parola è divenuta una a (mutamento 1), mentre ogni e è divenuta una a in qualsiasi contesto (mutamento 2); inoltre, come in latino, ma per pura coincidenza, in sanscrito classico ogni bisillabo accentato sull’ultima ha ritratto l’accento sulla penultima (mutamento 3). In greco moderno (nella varietà dimotikí, cioè “popolare”) abbiamo eftá. Ci arriviamo con quattro cambi regolari. Come indoiranico, ma in via indipendente, in greco antico ogni m finale indoeuropea preceduta da consonante è divenuta a (mutamento 1); inoltre ogni s iniziale seguita da vocale è divenuta h (mutamento 2): arriviamo così al greco antico heptá. In seguito ogni h iniziale è scomparsa (mutamento 3) e ogni p seguita da una t è divenuta f (mutamento 4): heptá diventa eftá.
Con questo tipo di ragionamento non parliamo più di parole ‘più o meno simili’, ma di parole perfettamente identificabili. Le somiglianze hanno svolto un ruolo fondamentale nell’indurre i linguisti a porsi il problema della comparazione e li hanno guidati nell’individuazione dei primi confronti, ma non costituiscono esse stesse il ‘dato probante’ per dimostrare che due parole come sanscrito sapta e italiano sette derivano da un comune archetipo indoeuropeo. Anzi, le cose stanno all’opposto: i confronti che mostrano una regolarità nella dissimiglianza possiedono una forza dimostrativa aggiuntiva, in quanto sono quelli che permettono di escludere con maggiore sicurezza che la corrispondenza tra le forme confrontate sia dovuta a imprestito.
Un esempio un po’ estremo di dissimiglianza regolare potrà chiarire meglio il concetto. L’indoeuropeo preistorico possedeva parole che iniziavano con una sequenza du̯ (dove u̯ indica una u “non sillabica”, come nel du– del bisillabo italiano duò-mo). In armeno questa sequenza iniziale è divenuta regolarmente erk: il numerale per ‘due’, che in sanscrito suonava in origine du̯a e in latino è duo, è in armeno classico erkú; all’aggettivo greco antico dārós ‘lungo’ (dialetto dorico), che proveniva da un precedente *du̯ārós, corrisponde in armeno erkár; l’armeno erkiwł ‘timore’ contiene la continuazione di una radice *du̯i- ‘temere’ di cui abbiamo riflessi anche in greco e nel gruppo indoiranico. Ora è chiaro che se l’armeno avesse preso in prestito il suo numerale per ‘due’ da un’altra lingua indoeuropea in una fase storica relativamente recente, questo sarebbe stato ben più simile al du̯a sanscrito e al duo latino di quanto lo sia la forma erkú. È quindi proprio il modo in cui le forme delle parole confrontate differiscono l’una dall’altra a garantirci che esse hanno attraversato l’intero percorso evolutivo proprio della lingua a cui appartengono, subendone tutti i mutamenti di suono caratteristici.
A ben vedere le trafile dei mutamenti fonetici funzionano un po’ come un sistema di cifratura, dato che sostituiscono suoni (o sequenze di suoni) con altri suoni (per esempio e con a, o s con h) in modo sistematico. Ora, la crittografia è impiegata, oltre che per gioco (nell’enigmistica) e per le comunicazioni riservate (in cui solo il destinatario voluto possiede la chiave per decifrare il messaggio), anche per assicurarsi dell’autenticità della fonte: siamo certi che il messaggio è stato inviato da un determinato emittente in quanto è stato cifrato con una chiave che solo lui conosce. Ebbene, in modo non troppo dissimile, noi possiamo essere sicuri che una parola è un’autentica continuazione diretta di un archetipo indoeuropeo – e non una parola presa in prestito da un’altra lingua in un secondo momento – se presenta quella ‘cifratura’, cioè quell’insieme di mutamenti fonetici, che è specifica della lingua in cui è documentata. Questo punto è decisivo, perché l’esclusione delle parole che non sono ereditarie garantisce a sua volta la fondatezza dell’intero procedimento ricostruttivo.
Resta da chiarire un punto riguardo al livello di dettaglio delle forme ricostruite. Una proprietà importante che differenzia questa sorta di cifratura spontanea delle lingue rispetto alla nostra crittografia è il fatto che l’evoluzione dei suoni può portare due parole originariamente distinte a divenire formalmente identiche: ad esempio, latino aptus ‘adatto’ e actus ‘atto, azione’ hanno dato in italiano due forme atto omofone. Ma siccome ciò che si perde in una lingua spesso si preserva in un’altra, ciascuna lingua indoeuropea ci fornisce un’immagine dell’archetipo che è sì filtrata, ma lo è secondo un filtro diverso da quello applicato dalle lingue sorelle. Sicché spesso, sovrapponendo le diverse immagini, possiamo giungere a ricostruire la forma originaria con buona precisione. Per esempio, il sanscrito sapta, preso da solo, non ci permetterebbe di stabilire se la prima vocale del numerale ‘sette’ fosse una e, una a o una o (tanto *septḿ quanto *soptḿ e *saptḿ avrebbero dato sapta), mentre dal latino septem, preso da solo, non potremmo inferire con certezza che nella medesima forma indoeuropea nessun suono vocalico si frapponeva tra la t e la m.
In realtà, la precisione della ricostruzione non è semplicemente possibile, ma è, per dir così, obbligata: se ricostruissimo il numerale per ‘sette’ come *saptḿ anziché come *septḿ non ci spiegheremmo la e in prima sillaba del latino e del greco; se lo ricostruissimo come *septem non ci spiegheremmo le –a finali del greco antico heptá e del sanscrito sapta (in greco una e non diventa a e né in greco né in sanscrito una m finale preceduta da vocale può scomparire senza lasciare traccia); se lo ricostruissimo come *séptm, non ci spiegheremmo la posizione dell’accento nel greco.
Dovrebbe essere chiaro a questo punto come mai la linguistica storico-comparativa sia così fermamente convinta dell’affidabilità delle proprie ricostruzioni: la ‘regolarità nella dissimiglianza’ di cui abbiamo parlato può essere spiegata soltanto partendo da forme preistoriche ben precise, capaci di dare origine, attraverso mutamenti fonetici regolari, a ciascuna delle forme documentate confrontabili. La stessa certezza che le lingue che chiamiamo indoeuropee siano effettivamente imparentate tra loro non è che un corollario di questo ragionamento.
In conclusione la ricostruzione linguistica, più che un obiettivo che il ricercatore si propone, è un ragionamento la cui logica si impone a quell’osservatore che abbia còlto le corrispondenze nascoste generate dal mutamento fonetico, che abbia trovato, cioè, la chiave risolutrice della crittografia spontanea delle lingue.
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