Silvia Ballarè
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Il fatto che la lingua è un oggetto mutevole è noto a tutti. Ognuno di noi, anche nell’arco di una sola giornata, adatta il modo di comunicare in base, ad esempio, all’interlocutore o alla situazione in cui avviene lo scambio. Non solo. Nelle produzioni linguistiche (specialmente orali) di ognuno di noi vi è una serie di elementi linguistici (suoni, strutture o parole) che funzionano come indizi e manifestano, in maniera più o meno evidente, nostre caratteristiche – come la provenienza geografica, il grado di scolarizzazione, l’età.
Di tutto questo (e non solo!) si occupa la sociolinguistica. Come è facile intuire, il terreno di indagine della disciplina si colloca nel rapporto tra lingua e società. Gli studi e le prospettive che trovano spazio al suo interno sono piuttosto eterogenei. Per avere uno sguardo d’insieme, possiamo dire che sono individuabili due prospettive di ricerca: una più incentrata su aspetti linguistici e un’altra, speculare, che più si concentra su fatti di natura sociale.
Vediamo cosa si intende.
Sociolinguistica…
Nel ramo più ‘linguistico’ si hanno due prospettive complementari da cui si guarda alla lingua: l’‘essenzialismo’, secondo cui nei comportamenti linguistici si riflette la struttura sociale, e il ‘costruttivismo’, per cui i comportamenti linguistici creano struttura sociale. Nel primo caso, le categorie sociali (come ad esempio l’età, la classe sociale etc.) sono categorie piuttosto rigide e ‘misurabili’; nel secondo, invece, si riconosce una certa plasticità delle identità che sono appunto costruite nel corso delle interazioni (ad es. scegliendo una certa parola anziché un’altra). Per ragioni di spazio, ci concentriamo qui solo sulla prima prospettiva, ma una lettura molto interessante è senza dubbio il lavoro di Penelope Eckert che riportiamo tra gli approfondimenti.
Nell’analisi sociolinguistica ‘essenzialista’ si mira ad analizzare se e come tratti strutturali della lingua variano in base a fatti linguistici ed extralinguistici (dunque che stanno ‘al di fuori’ dalla lingua). Vale a dire che si prendono “modi alternativi di dire la stessa cosa” (Labov 1972: 188, traduzione mia) e si verifica se questi “modi alternativi” correlano con (ovvero, semplificando, sono legati a) aspetti linguistici e/o extralinguistici, come ad esempio la caratterizzazione sociale del parlante o il mezzo (parlato/scritto) attraverso cui avviene la comunicazione. Proviamo a rendere il quadro più chiaro grazie a qualche esempio.
Potremmo scegliere di indagare come gli studenti universitari realizzano le frasi relative locative (dunque del tipo il paese nel quale sono nato, oppure in cui, dove o anche che) nelle tesi di laurea e negli esami orali. Siamo di fronte a strutture con significato (quasi) del tutto analogo: possiamo infatti sostituire nel quale, in cui, dove e che senza che il significato della frase cambi. Tuttavia, possiamo ipotizzare che ci siano differenze tra produzioni formali scritte e parlate di studenti universitari? Se sì, di che tipo sono? Il sociolinguista ha gli strumenti metodologici e teorici per spiegare cosa succede.
Vediamo un altro esempio. A orecchie attente, non sarà sfuggito che può capitare di trovare costruzioni del tipo c’è Marco e Anna in alternativa della variante più frequente e ‘corretta’ ci sono Marco e Anna. Esistono motivazioni di tipo linguistico che fanno sì che alcuni parlanti selezionino c’è anche con un soggetto plurale? Ad esempio, il fatto che il soggetto sia Marco e Anna e non amici ha un’influenza di qualche tipo? La provenienza geografica del parlante può avere un valore? E il suo titolo di studio? Che peso hanno questi fattori? È possibile ordinarli? E ancora, è un caso che costruzioni analoghe si trovano anche in altre lingue (si pensi a there is con soggetto plurale, per cui può essere interessante dare un’occhiata qui)? Per provare a rispondere a queste domande, bisognerà guardare un numero molto elevato di esempi, prendere nota delle caratteristiche linguistiche (della costruzione) ed extralinguistiche (del parlante/della situazione) e poi, attraverso metodi qualitativi e, eventualmente, quantitativi condurre un’analisi che porti a trovare delle risposte.
Un ultimo esempio che possiamo vedere, sebbene più ‘eterodosso’ rispetto a quelli considerati finora, potrebbe essere l’uso del famigerato piuttosto che con valore disgiuntivo (del tipo potremmo andare al mare, piuttosto che in montagna, piuttosto che al lago…) in produzioni di parlanti con diversa caratterizzazione geografica per verificare l’ipotesi (mai provata!) secondo cui sia più frequente nel parlato settentrionale (particolarmente milanese) rispetto a quello di altre aree geografiche. In questo caso, a differenza dei precedenti, non saremmo di fronte a “modi alternativi di dire la stessa cosa” – come nel quale/in cui/dove/che e c’è/ci sono – ma di una costruzione che assume significati devianti rispetto alla norma, almeno per alcuni parlanti e in alcuni contesti.
Postilla: per condurre queste analisi i corpora costituiscono delle risorse irrinunciabili. È fondamentale, però, che essi siano costruiti (anche) con un “occhio sociolinguistico” – si pensi alla selezione delle varietà da raccogliere, alla metodologia per la raccolta, all’accesso a informazioni relative a caratteristiche sociali del parlante etc. Per questo motivo grandissima attenzione è dedicata alla metodologia della raccolta dati. Sull’argomento, consigliamo il testo di Sali Tagliamonte riportato tra gli approfondimenti.
… e sociolinguistica
Il ramo più ‘socio’ della sociolinguistica, invece, ha come oggetto di studio le lingue (o le varietà di lingua) nel loro complesso e il modo in cui esse si comportano nella società.
Un buon esempio di studi condotti in questo ramo della ricerca sono i repertori linguistici, intesi come l’insieme delle lingue parlate da una comunità linguistica. Un repertorio linguistico può essere monolingue (in cui, dunque, è presente una sola lingua) oppure bilingue o multilingue. Quando si tratta il repertorio di una comunità linguistica, non ci si limita ad annoverare le lingue presenti ma, soprattutto, si cerca di mettere a fuoco come esse si distribuiscono all’interno della società.
Proviamo a vedere due esempi di repertori bilingui. Una prima struttura che possiamo incontrare è la ‘diglossia’, in cui i membri della comunità linguistica usano una lingua (A) in contesti più alti e un’altra (B), invece, solamente in contesti più bassi (Figura 1). In questo caso, i parlanti sono bilingui e vi è una nettissima distinzione funzionale le due lingue. Un esempio classico è dato dalla Svizzera tedesca in cui, tipicamente, si utilizza il tedesco standard, ad esempio, negli uffici e in università, mentre lo svizzero tedesco per parlare con amici e familiari.
E in Italia? Anche qui, semplificando un poco per ragioni di spazio (rimandiamo però qui e qui per approfondimenti), abbiamo nella larga maggioranza dei casi due lingue presenti nel repertorio: l’italiano e il dialetto. A differenza di quanto avviene in Svizzera però, tipicamente, l’italiano, per ormai una grossa porzione della popolazione, è anche la lingua in cui avvengono le interazioni più basse. Cosa significa? Significa che il nostro repertorio è passato nel corso del tempo (si può approfondire qui) da una situazione di diglossia a una di ‘dilalìa’, in cui l’italiano (A) viene usato in contesti alti e bassi, mentre il dialetto (B) è riservato sostanzialmente a usi bassi (Figura 2). In questa prospettiva, per lo studioso la differenza tra italiano e dialetto, dunque, è puramente sociolinguistica: i due oggetti linguistici sono ‘lingue’ allo stesso modo e ciò che li differenzia sono le funzioni sociali per cui sono impiegati.
Si dice o non si dice?
Non sarà sfuggito al lettore attento che il sociolinguista è interessato a studiare anche strutture che tradizionalmente sono considerate ‘sbagliate’ e oggetto di censura da parte di grammatiche e insegnanti, oltre che varietà che possono essere considerate molto negativamente e possono portare alla stigmatizzazione non solo della varietà stessa ma, soprattutto, del parlante. È bene però inserire un appunto, che suonerà forse scontato ai più. Il sociolinguista è quanto di più lontano ci sia da una sorta di ‘censore linguistico’. Egli, anzi, assume una posizione del tutto neutra rispetto alla lingua e non esprime giudizi (bello/brutto, giusto/sbagliato, …) verso costruzioni linguistiche e men che meno (!) verso i parlanti che le realizzano. Queste valutazioni non rientrano in alcun modo nella cassetta degli attrezzi del sociolinguista. I parlanti nel loro agire spontaneo sono l’importantissima chiave di accesso alla lingua per come si manifesta concretamente. Agli occhi del sociolinguista, non è di alcun interesse che la lingua sia ‘il più corretta’ possibile. Il materiale più ‘ricco’ e utile è dato da produzioni (scritte o parlate) autentiche, che si realizzano (il più) spontaneamente (possibile).
Il sociolinguista ambisce a ‘mettere ordine’: studia e analizza il sistema linguistico nel suo realizzarsi concreto e nella sua dimensione sociale, legata dunque a parlanti concreti e situazioni concrete.
Non solo.
Questo ramo della linguistica ha anche un ruolo molto importante nella formazione di studenti e professionisti che, nel percorso di studi, incontrano la sociolinguistica. Essa permette di adottare una visione più laica della lingua che prescinde da giudizi (positivi e negativi) senza però renderla un oggetto astratto e non legato al concreto. Inoltre, lo studio della disciplina forma parlanti cittadini che sanno muoversi nello spazio sociale e linguistico con più abilità e consapevolezza, che sanno selezionare tratti e varietà nel modo più corretto adatto.
Per approfondire
Berruto Gaetano. 2012. Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo. Roma: Carocci.
Berruto, Gaetano & Massimo Cerruti. 2015. Manuale di sociolinguistica. Torino: UTET.
Eckert, Penelope. 2018. Meaning and linguistic variation. Cambridge: Cambridge University Press.
Labov, William. 1972. Sociolinguistic patterns. Philadelphia: University of Pennsylvania Press.
Tagliamonte, Sali A. 2006. Analysing sociolinguistic variation. Cambridge: Cambridge University Press.
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