Guglielmo Inglese
Università di Torino
Nel 2013, davanti al pubblico della TED talk, l’economista americano Keith Chen propone un’ipotesi particolarmente ardita per spiegare perché nazioni con sistemi economici all’apparenza simili mostrano una così alta diversità nella propensione individuale al risparmio. L’ipotesi di Chen è che le nazioni più portate al risparmio sarebbero anche quelle in cui si parla una lingua come il cinese, ovvero una lingua in cui non è obbligatorio distinguere tra eventi presenti o futuri. Al contrario, i parlanti di lingue che presentano sistematicamente forme verbali diverse per il futuro e per il presente, come l’inglese, tenderanno a concepire in modo più marcato il futuro come distante dall’oggi. Questa distanza frapposta, anche al livello linguistico, tra i due momenti temporali porterebbe gli individui a preoccuparsi meno del futuro, e, conseguentemente, a risparmiare di meno (qui il video, qui l’articolo)!
Al di là dei suoi meriti specifici, questa (fantasiosa) ipotesi – che si scontra con problemi ben noti a chi si occupa della complessa interfaccia tra realtà-pensiero-linguaggio (https://www.linguisticamente.org/lingue-e-pensiero/) – è un buon punto di partenza per iniziare a ragionare sul modo in cui l’esperienza che, in quanto esseri umani, abbiamo del tempo si riflette nelle nostre scelte linguistiche e nella grammatica delle lingue che parliamo. Come, giustamente, fa notare Chen, la differenza tra lingue come il cinese mandarino e l’inglese non sta nella possibilità di esprimere o meno nozioni temporali: in entrambe le lingue, infatti, sebbene con strumenti linguistici diversi, è possibile parlare di eventi che avvengono nel presente o che avverranno nel futuro. Ciò che distingue le due lingue è che un parlante di cinese mandarino, ad esempio, nel descrivere un particolare evento, ‘può’ omettere l’informazione relativa al momento in cui esso si è verificato, poiché la forma del verbo non porta con sé informazioni di natura temporale; un parlante di inglese (o di italiano), invece, nel compiere la medesima operazione è costretto di volta in volta a scegliere forme verbali che ‘necessariamente’ implicano un collocamento dell’evento in questione nel tempo. Possiamo dire dunque che in inglese (e in italiano) il tempo è una categoria grammaticale del verbo: si tratta di un’informazione che obbligatoriamente ogni forma verbale deve portare con sé. Quando parliamo di tempo verbale, in lingue in cui esso è una categoria grammaticale, facciamo perciò riferimento al fatto che una certa forma del verbo porta con sé informazioni che ci permettono di collocare l’azione in un preciso momento sull’asse del tempo, che può coincidere con momento in cui parliamo (presente, ‘scrive’), precederlo (passato, ‘scrisse’) o seguirlo (futuro, ‘scriverà’). Ovviamente, come già ci mostra l’esempio del cinese mandarino, non tutte le lingue esprimono il tempo in modo grammaticale: in un campione tipologico di 318 lingue da varie aree del mondo, Velupillai (2016) mostra che quasi il 25% delle lingue prese in esame non utilizza la morfologia verbale per indicare il tempo (in queste lingue, l’espressione di nozioni temporali è opzionale, ed è spesso affidata ad avverbi come ‘oggi’, ‘ieri’ e ‘domani’). Nel restante 75% delle lingue, in cui i verbi esprimono obbligatoriamente qualche tipo di informazione temporale, è possibile osservare una grande varietà di modi in cui la dimensione del tempo fisico (diremo, extralinguistico) si manifesta nella grammatica.
Una prima domanda che possiamo porci è: quanti tempi verbali esistono nelle lingue del mondo? Le lingue a noi più vicine, come l’italiano e l’inglese, ci mostrano una tripartizione tra forme verbali che si riferiscono rispettivamente al presente, al passato e al futuro, es. amo/amai/amerò, ing. love/loved/will love. Osservando questi esempi, possiamo notare una differenza strutturale nella realizzazione del futuro in italiano, dove ‘amerò’ costituisce un’unica forma verbale, e in inglese, dove la forma will love è composta da due elementi (ovvero il verbo ausiliare will che veicola il significato di futuro e love che esprime il significato lessicale). In linguistica, la strategia dell’italiano è detta ‘sintetica’ e quella dell’inglese ‘analitica/perifrastica’.
È importante poi sottolineare che sistemi linguistici con una tripartizione di questo genere, per quanto diffusi a livello globale, non esauriscono il ventaglio delle possibilità. Un primo caso è dato da situazioni in cui si ha un’unica distinzione tra forme verbali che indicano il passato e forme che possono essere utilizzate sia per il presente sia per il futuro. Una lingua di questo tipo è l’ittita, la lingua di più antica attestazione della famiglia indoeuropea, in cui, per esempio, la forma pai può voler dire, in base al contesto, ‘dà’ o ‘darà’; gli studiosi, nel ricostruire il protoindoeuropeo, ovvero la lingua madre dell’ittita e delle altre lingue indoeuropee come il greco e il latino, concordano nel considerarla una lingua ‘senza futuro’ (Luraghi 2021: 195)! Senza andare così lontano nel tempo e nello spazio, anche in italiano, soprattutto nel parlato, può presentarsi un quadro non troppo dissimile: frequentemente, infatti, scegliamo il tempo presente per riferirci ad aventi che devono ancora avvenire, come in ‘vengo domani’, ‘arriva la settimana prossima’. Un secondo caso, documentato ma comunque più raro, può essere esemplificato dalla lingua murui. Si tratta di una lingua parlata da comunità della regione amazzonica tra l’Ecuador e la Colombia in cui il paradigma dei verbi contrappone forme che esprimono il futuro e altre che possono indifferentemente riferirsi a eventi presenti o passati.
Un altro aspetto interessante relativo al tempo riguarda la natura di quello che i linguisti definiscono il ‘momento di riferimento’, cioè l’istante della linea del tempo rispetto al quale collochiamo gli eventi di cui parliamo. Tornando all’italiano, consideriamo a mo’ di esempio le frasi ‘oggi lavoro da casa’, ‘domani andrò al cinema’ e ‘ieri ho cenato fuori’. In queste frasi, la collocazione nel tempo degli eventi ‘lavoro’, ‘andrò’ e ‘ho cenato’ avviene a partire dal momento in cui le frasi vengono prodotte, e i tempi verbi in questione vengono definiti ‘tempi assoluti’. Talvolta però abbiamo la necessità di collocare gli eventi nel tempo non solo rispetto al momento in cui parliamo, ma anche rispetto ad altri eventi già introdotti nel discorso. Per esempio, nella frase ‘quando ho telefonato, era già uscita’, la forma del trapassato prossimo ‘era uscita’ non solo ci consente di capire che l’evento è avvenuto nel passato, ma anche che possiamo collocarlo anteriormente rispetto all’evento descritto dal verbo ‘ho telefonato’. Se invece vogliamo parlare di un evento che ha luogo nel passato ma in un momento successivo a un evento preso come riferimento, possiamo utilizzare le forme del condizionale passato, come nella frase ‘mi disse che sarebbe uscita più tardi’ (si noti qui che il condizionale, trattato nella grammatica tradizionale come un ‘modo’ del verbo, è di fatto utilizzato come un tempo). L’uso del trapassato prossimo e del condizionale passato in questi due esempi è trattato nei termini di ‘tempo relativo’.
Soffermandoci ancora sull’italiano, sappiamo che esistono (almeno) due tempi verbali per riferirci al passato: il ‘passato remoto’ e il ‘passato prossimo’ (o composto). Come i nomi della grammatica tradizionale parrebbero suggerire, l’esistenza di due forme del passato in italiano sarebbe motivata da una distinzione semantica: il passato remoto verrebbe usato per riferirsi ad eventi avvenuti in un passato percepito come particolarmente distante, mentre il passato prossimo per eventi avvenuti in un momento più recente. Effettivamente, almeno secondo l’italiano standard, una frase del tipo ‘stamattina mi alzai presto’ non è grammaticalmente corretta (frase invece perfettamente accettabile per parlanti di varietà meridionali!). Come osserva Squartini (2015: 48-57) la situazione dell’italiano è in realtà parecchio più complessa, dal momento che sia il passato remoto sia il passato prossimo possono essere utilizzati per indicare eventi ‘remoti’, es. ‘Roma fu fondata/è stata fondata nel 753 a.C.’; l’uso delle due forme è determinato in parte da considerazioni aspettuali (come discuteremo nel prossimo articolo) e in parte da considerazioni sociolinguistiche, tra cui il luogo di provenienza del parlante. Esistono però lingue in cui la distanza tra gli eventi è un elemento che svolge un ruolo tutt’altro che marginale nella struttura del sistema verbale (cfr. Botne 2012). Distinzioni di questo tipo sono particolarmente diffuse nelle lingue parlate in Africa, tra cui le lingue del gruppo bantu: nei paradigmi di queste lingue si trovano spesso più forme di passato e/o di futuro, utilizzate per riferirsi a eventi percepiti come più o meno distanti. Un caso abbastanza estremo è quello della lingua yagua, parlata in Amazzonia. In questa lingua, esistono ben cinque morfemi che indicano il tempo passato: -jásiy ‘accaduto da poche ore’, -jay ‘accaduto il giorno precedente’, –siy ‘accaduto tra una settimana e un mese fa’, –tíy ‘accaduto tra due mesi e due anni fa’ e –jada ‘avvenuto in un passato mitico’ (Payne e Payne 1990:386-388). Quest’ultima forma ci fa anche notare come nel riferirsi al passato, i sistemi grammaticali non tengono solo conto della distanza temporale, ma anche della memoria umana, nella misura in cui eventi avvenuti in passato, ma nell’arco di vita di un parlante, sono espressi in modo distinto da eventi di cui il parlante non ha potuto avere esperienza.
Abbiamo finora discusso del tempo come categoria grammaticale rilevante soprattutto per l’analisi del verbo: questa correlazione non è sorprendente, se teniamo conto che sono soprattutto gli eventi (e non le entità) ad avere una dimensione temporale, e che gli eventi sono prevalentemente espressi dai verbi. In alcune lingue, tuttavia, il tempo è anche una categoria grammaticale relativa anche al nome: si prenda ad esempio la lingua halkomelem, nativa dell’America Settentrionale, in cui i parlanti possono indicare esplicitamente la collocazione temporale di certe entità. In halkomelem il suffisso –elh indica entità passate, come xelth-elh ‘la mia penna di un tempo’, mentre il suffisso –cha quelle future, es. lálém-cha ‘la mia casa futura’ (cfr. Lecarme 2012).
Per approfondire
Botne, Robert. 2012. Remoteness distinctions. In Robert I. Binnick (ed.), The Oxford Handbook of Tense and Aspect. Oxford: Oxford University Press. 536–561.
Givón, Talmy. 2001. Syntax: An Introduction. Vol. 1. Amsterdam & Philadelphia: John Benjamins.
Lecarme, Jacqueline. 2012. Nominal tense. In Robert I. Binnick (ed.), The Oxford Handbook of Tense and Aspect. Oxford: Oxford University Press. 696–719.
Luraghi, Silvia. 2021. Introduzione alla linguistica storica. Roma: Carocci.
Payne, Doris L. & Thomas Payne. 1990. Yagua. In Desmond C. Derbyshire & Geoffrey K. Pullum (eds.), Handbook of Amazonian Languages, vol. 2. Berlin & New York: de Gruyter. 249–474.
Squartini, Mario. 2015. Il verbo. Roma: Carocci.
Velupillai, Viveka. 2016. Partitioning the timeline: A cross-linguistic survey of tense. Studies in Language 40(1).
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