Fabio Montermini
CNRS / Université de Toulouse Jean Jaurès
Nell’estate del 2020, all’uscita dalla prima ondata della pandemia, il Corriere della Sera pubblicò un articolo intitolato Alla ricerca della normalità tra i pericolosi cicaleggi di agosto. All’epoca lessi molti commenti di internauti che si interrogavano sull’esistenza della parola cicaleggio. Se prendo questo esempio come punto di partenza, è perché la domanda “la parola X esiste in italiano?” è una di quelle che, da linguista, mi sento rivolgere più spesso dai non addetti ai lavori. Dico subito che il più delle volte la risposta che do delude il mio interlocutore, che si aspetterebbe un semplice “sì” o “no” (o tutt’al più un onesto “non lo so”). Ma per un linguista sono i termini stessi in cui la domanda è posta ad essere problematici. Prima ancora di cercare una risposta, perciò, sarebbe necessario avere una discussione approfondita per intenderci su che cosa significhi, per una parola, ‘esistere’.
La risposta più immediata che molti darebbero alla domanda è “la parola X esiste se è nel dizionario”. In altri termini, per verificarne l’esistenza occorre fare appello a un’autorità riconosciuta come legittima in termini di lingua, ad esempio consultare uno o più dizionari o verificare la posizione in proposito di un’istituzione come l’Accademia della Crusca. La vicenda di petaloso, una delle maggiori ‘success stories’ di un neologismo degli ultimi anni, è eloquente: pur trattandosi di una parola costruita conformemente agli schemi derivazionali dell’italiano e perfettamente trasparente, è stata considerata ‘legittima’ solo dopo l’intervento della Crusca, interpretato da molti come un imprimatur. In maniera analoga, è probabile che in realtà l’interrogazione del nostro ipotetico interlocutore riguardi piuttosto la legittimità ad usare una parola (in particolare in un registro che viene percepito come ‘corretto’), una cosa che però ha ben poco a che fare con la sua esistenza, e sulla quale un dizionario può dare in molti casi solo una risposta parziale. Essa dipende infatti in maniera cruciale dai criteri di inclusione dei lemmi, che possono essere assai variabili a seconda dei dizionari, delle epoche, delle tradizioni, etc.
Vi è però un criterio irrinunciabile al quale nessun dizionario transige, ed è quello dell’attestazione, il fatto che l’uso di una certa parola sia stato registrato dai compilatori del dizionario stesso, possibilmente non una, ma un numero di volte ritenuto sufficiente. Quello dell’attestazione è all’apparenza un criterio migliore per stabilire l’esistenza di una parola rispetto alla semplice presenza in un dizionario: una parola ‘esiste’ se è stata utilizzata almeno una volta in un’interazione reale tra parlanti. In fondo, che la parola compaia in un dizionario o no, l’attestazione è un fatto oggettivo che può essere facilmente documentato citando il contesto e la fonte in cui una parola è stata osservata. Anche questo, però, si rivela essere un criterio aleatorio ad una disamina più attenta. Per molto tempo, il lessico che veniva registrato proveniva principalmente da testi scritti di grande diffusione (ad esempio opere letterarie). Oggi, le possibilità di osservare e registrare una parola si sono moltiplicate, in particolare grazie alla facilità con cui si ha accesso a grandi quantità di produzioni linguistiche reali sul Web, ma è del tutto probabile che un grandissimo numero di parole che i parlanti usano nei loro discorsi continuino a sfuggire ai radar dei linguisti.
Pur essendo un criterio oggettivo, dunque, l’attestazione dipende anche da fattori casuali e imprevedibili. Come linguisti, invece, desideriamo poter utilizzare nozioni robuste e formalizzabili. Una di queste nozioni è il lessico, inteso come il repertorio di segni linguistici (parole, o tecnicamente lessemi) memorizzati da ogni parlante come parte della sua competenza linguistica (l’altra parte è costituita dal cosiddetto ‘sapere procedurale’, la capacità di applicare regole). Per molte parole, è indispensabile essere memorizzate nel lessico per poter essere impiegate nel discorso. Poiché l’associazione tra le forme cane, rosso, dormire, etc. e i relativi concetti è arbitraria, il fatto che diversi parlanti l’abbiano memorizzata come tale è una condizione essenziale per il funzionamento della lingua. Queste osservazioni potrebbero esserci d’aiuto per trovare una risposta alla domanda iniziale: potremmo dire che una parola esiste in quanto fa parte del lessico. Il problema è che accanto a parole come quelle menzionate qui sopra, il lessico mentale di ogni parlante ne contiene molte che vengono usate solo in certe situazioni con un gruppo ristretto di persone. Nessuno metterebbe in dubbio che cane o dormire esistano, ma diremmo la stessa cosa di sbrodeghezzo o mezzorado (due delle parole del ‘lessico famigliare’ di Natalia Ginzburg di cui tratta l’omonimo romanzo)? Tra questi due estremi vi è poi un’ampia zona grigia di parole di frequenza e diffusione diversissime di cui è difficile tracciare i confini. La difficoltà di ricorrere al lessico per risolvere il nostro dilemma iniziale diventa allora del tutto evidente: poiché è improbabile che i dubbi nascano in merito al nucleo centrale, cercare una risposta in questa periferia dai contorni indistinti ci riporta al punto di partenza.
Essere memorizzata nel lessico, inoltre, non è l’unica possibilità che una parola ha per essere usata e compresa dai parlanti. Cercando su un motore di ricerca le parole associate alla frase “scusate il neologismo” si trovano forme come aggiornatezza, covidismo, incittadinamento, telefoninico, usicchiare, etc. È probabile che nessuna di queste parole faccia parte del lessico di coloro che l’hanno prodotta (il che giustifica la presa di distanza) né della maggioranza degli altri parlanti. Tuttavia, decodificarle e interpretarne il significato non pone alcun problema ad un parlante competente dell’italiano. La ragione è evidente: si tratta di parole costruite secondo schemi produttivi della morfologia derivazionale di questa lingua, e perciò del tutto trasparenti. Anche in questo caso, il fatto che siano attestate è puramente fortuito (dipende dalla ricerca che ho effettuato sul Web). Quello che conta è che si tratta di parole possibili in italiano, e perciò immediatamente accessibili a qualsiasi parlante. A differenza delle precedenti, la nozione di parola possibile è una nozione puramente linguistica, che si riferisce, riassumendo, alla conformità agli schemi derivazionali di una lingua. Chiedersi se una parola possibile esiste ha lo stesso interesse di chiedersi se esiste il caffè che berrò domattina a colazione: è un oggetto virtuale la cui attualizzazione è nell’ordine delle cose, ma non è indispensabile per percepirlo come ‘reale’. Prendiamo, tra gli esempi qui sopra, incittadinamento: si tratta di una parola possibile (e, dal momento che l’ho osservata, anche attestata) derivata per mezzo del suffisso -mento, che forma nomi a partire da verbi. Il fatto che il verbo incittadinare sia anch’esso una parola possibile (ma non necessariamente attestata) è sufficiente a farne una base plausibile del sostantivo in questione.
Torniamo, per concludere, al cicaleggio da cui siamo partiti. La parola più frequente in italiano per esprimere il concetto in questione è cicaleccio, che tuttavia è solo parzialmente trasparente. Se vi riconosciamo cicala, infatti, la sequenza -eccio non corrisponde ad alcun suffisso produttivo in italiano. Cicaleggio, dal canto suo, è una parola possibile e quindi trasparente (e in realtà anche attestata, sebbene con minore frequenza): corrisponde al nome derivato per conversione da un ipotetico verbo in -eggiare. Indipendentemente dal giudizio che si può dare delle scelte lessicali del quotidiano in questione, è probabilmente proprio in virtù della sua trasparenza che è riuscita a farsi strada fin sulla prima pagina a scapito della rivale più frequente.
Per approfondire
Aronoff, Mark. 2007. In the beginning was the word. Language 83(4). 803-830.
Lorenzetti, Luca. 2010. Lessico. In Enciclopedia dell’italiano. Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana G. Treccani.
Micheli, M. Silvia. 2020. La formazione delle parole. Italiano e altre lingue. Roma: Carocci.
Montermini, Fabio. 2015. Regole (e irregolarità) nella formazione delle parole. In Nicola Grandi (a cura di), La grammatica e l’errore. Le lingue naturali tra regole, loro violazioni ed eccezioni, 63-83. Bologna: Bononia University Press.
Rainer, Franz. 2012. Morphological metaphysics: virtual, potential and actual words. Word Structure 5(2). 165-182.
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