Giuliano Bernini
Università di Bergamo
Gli atteggiamenti di grande favore che la diffusione della lingua inglese mostra presso vasti gruppi di persone e la sua introduzione nei programmi scolastici fin dalla scuola primaria si accompagnano alla convinzione che sia una lingua ‘facile’. Questa convinzione poggia su impressioni fallaci che cerchiamo qui di individuare rispondendo a due domande: 1. “L’inglese è davvero facile?”; 2. “Perché l’inglese sembra facile?”.
1. Chi si avvicina per la prima volta all’inglese si trova in effetti facilitato, trovando parole che mantengono per lo più un’unica forma indipendentemente dal significato che veicolano e dalla funzione che assumono nelle frasi. L’apprendente deve solo memorizzare parole e disporle secondo poche regole nelle frasi. Si pensi a My friends drive red cars rispetto a I miei amici guidano macchine rosse. La disposizione delle parole riflette in parte quella dell’italiano nelle frasi, ma non nei nomi complessi (red cars ma macchine rosse), dove non è esplicita la relazione che lega le loro parti, come in stepchild adoption ma adozione come figliastro.
In generale la sequenza di parole è però il punto di arrivo di operazioni nascoste che derivano da un’organizzazione complessa di parole ed elementi grammaticali e di cui diamo qui qualche traccia.
I nomi sono suddivisi in tre generi grammaticali (maschile, femminile, neutro) che però sono ‘coperti’ (friend ‘amico’, friend ‘amica’, car ‘macchina (neutro)’) e non segnalati esplicitamente come in italiano (amico vs. amica). Emergono quando in un discorso si utilizzano i pronomi per tenere traccia di ciò di cui si parla. Quando si dice My friend came in her new car, il pronome her ‘di lei’ segnala che si sta parlando di un’amica e non di un amico, altrimenti avremmo avuto my friend came in his car. Si può poi aggiungere it is red ‘è rossa’, tenendo quindi traccia della macchina dell’amica tramite il pronome it.
Nella grammatica del verbo è presente la costruzione progressiva con be ‘essere’ e la forma in –ing del verbo, che per il suo significato richiama in italiano la costruzione stare + gerundio. Il suo impiego dipende però da come l’inglese organizza il riferimento al tempo delle situazioni di cui si parla. Senza entrare in spiegazioni ‘difficili’, si può osservare che l’arrivo a una destinazione di un treno Freccia rossa è annunciato con la costruzione progressiva accompagnata da un’esplicita indicazione di tempo (We are now arriving in Firenze SMN), obbligatoria in inglese ma esclusa in italiano (Siamo in arrivo a Firenze SMN).
L’esempio delle Frecce Rosse dà modo di osservare che la descrizione delle situazioni comporta in inglese − come in tutte le lingue − l’adozione di prospettive diverse dall’italiano. Nella descrizione di situazioni in cui una persona si sposta, l’inglese seleziona la prospettiva del modo in cui la persona si sposta, per esempio a piedi, come in John walked out of the room, aggiungendo poi la direzione dello spostamento (out of the room). In italiano si seleziona invece la direzione dello spostamento, come in Giovanni uscì dalla stanza, senza che si debba menzionare il modo in cui avviene lo spostamento (e suonerebbe strano sentire Giovanni uscì dalla stanza camminando). Le lingue, in generale, mettono a fuoco componenti diverse delle stesse situazioni, dando le altre per scontate, per così dire, cioè lasciandole intuire. Le lingue mostrano così un’interazione complessa con il pensiero, che si manifesta nelle diverse prospettive fornite dalle lingue nel processo che Dan Slobin ha chiamato “thinking for speaking”.
Molte parole coprono poi una rete di significati che pertengono ambiti anche molto diversi, come per esempio right, che corrisponde, semplificando molto, a diritto, destra, proprio. Nella sequenza di parole la selezione del significato pertinente può essere evidente nel contesto di altre parole (the human rights ‘i diritti dell’uomo’), ma è spesso segnalata da differenze di accento, come in rìght now ‘a destra ora’ e in right nòw ‘(proprio) ora!’. I problemi relativi al capire e al farsi capire ci portano infine a riconoscere le difficoltà di pronuncia dell’inglese, per esempio in parole che si distinguono per la sola vocale breve o lunga che contengono, come live ‘abitare’ e leave ‘partire’. Molte di queste coppie comportano il rischio di fraintendimenti indecorosi se non pronunciate con accuratezza.
2. Abbiamo visto fin qui quanto sia ingiustificata l’impressione che l’inglese sia una lingua facile. Perché allora l’inglese continua ad essere considerato una lingua (che sembra) facile? Per capirlo, dobbiamo ricordare che le lingue che impariamo da bambini e anche quelle che cerchiamo di imparare da adulti sono ancorate alla concezione che ciascuno di noi ripone nel ‘mondo’ e nei gruppi sociali a cui quelle lingue permettono di accedere.
L’inglese è la lingua di Paesi modello nella scienza, nella tecnologia, nella cultura e nello spettacolo come gli Stati Uniti d’America e la Gran Bretagna, che sono anche potenze militari di rilevanza mondiale. Il contatto con l’inglese è quindi necessario e ambìto, cool come direbbe qualcuno. Presso parlanti altre lingue in altri Paesi esso viene ad essere una presenza ‘normale’ e diffusa: in italiano sport è presente dal 1875 e ad esso hanno fatto seguito jazz e rock, internet (non interrete), location (non sede), story telling (non narrazione), ma anche stroke unit (non unità ictus) e lockdown (non confinamento).
Dal 1995 i mezzi di comunicazione telematica e la disponibilità di voli economici a grandi distanze hanno contribuito a consolidare la posizione dell’inglese come lingua veicolare, cioè di prima scelta in caso si debba parlare con persone di cui non si condivide la lingua. Il consolidamento dell’inglese come lingua veicolare è evidente nelle insegne pubbliche bilingui in istituzioni e mezzi di trasporto (segreteria studenti – student office) e nel suo utilizzo per le pubblicazioni scientifiche di ogni disciplina.
Fino al 1990 la preminenza dell’inglese è stata favorita anche dall’attrattività degli USA nella competizione con i Paesi del blocco sovietico, iniziata all’indomani della fine nella Seconda Guerra Mondiale, e del venir meno dell’attrattività del tedesco come lingua della tecnologia e della scienza per le brutalità della dittatura nazionalsocialista in Germania: la teoria della relatività è stata pubblicata da Albert Einstein nel 1905 in tedesco (Zur Elektrodynamik bewegter Körper, in Annalen der Physik). Prima ancora, però, l’inglese era già diffuso nei diversi continenti dell’impero coloniale britannico a scapito di altre lingue veicolari coloniali e anzitutto del portoghese. La diffusione dell’inglese è dunque conseguenza di dinamiche politico-economiche e non della sua presunta facilità, impressione indotta dall’attrattività che quelle dinamiche inducono verso i Paesi dove è parlato.
La complessa architettura dell’inglese di cui abbiamo dato qualche esempio è spesso messa in secondo piano dall’urgenza del suo uso come lingua veicolare, che sembra far superare barriere comunicative col poco sforzo richiesto dalla memorizzazione di forme costanti di parola. È uno dei pericoli in cui incorrono le università, in Italia e non solo, che escludono le lingue native dei loro studenti e docenti in favore di un’istruzione superiore impartita in inglese, nella fallace convinzione di arrivare così a più alti livelli di prestazione scientifica e professionale. All’università, però, si corona lo sviluppo della prima lingua iniziato in tenera età con l’esposizione a lessici specialistici e strutture sintattiche complesse. L’utilizzo esclusivo di un’altra lingua – l’inglese nel nostro caso – pregiudica quello sviluppo e impedisce un apprendimento solido, mancando le stesse competenze linguistiche della prima lingua.
L’opportunità di ‘farsi intendere’ ad ampio raggio non va infatti fraintesa per la capacità di ‘comprendere’ il mondo offerta dalle diverse prospettive del “pensare per parlare”. È nell’architettura nascosta così diversa dall’italiano che emerge “il gusto della concisione e della limpidezza” dell’inglese, come ha scritto De Mauro (In Europa son già 103. Troppe lingue per una democrazia? Roma/Bari, Laterza, 2014, p. 83).
Per approfondire
Santipolo, Matteo. 2020. Perché l’inglese è diventato la lingua più diffusa al mondo? Miti, stereotipi e qualche verità. In Cecilia Poletto & Matteo Santipolo (a cura di), L’animale che parla – Linguistic pills.
3 Commenti
Giorgio Testa 24 Luglio, 2020
Condivido molto la tesi dell’articolo, ma trovo che non si centri il punto quando si dice che “now” in “we are now arriving” è obbligatorio. È usato perché lo richiede la situazione, non la grammatica. E infatti, anche se il tema è la somiglianza con la forma progressiva italiana, per l’italiano si cita una forma, “essere in arrivo”, che non è la forma progressiva (“Stiamo arrivando a Firenze” sarebbe un annuncio molto strano pur essendo grammaticalmente corretto).
Saverio Buchicchio 26 Luglio, 2020
Anche se l’Inglese, (grammaticalmente parlando), forse, potrebbe essere una delle lingue europee piu’ facili da imparare; a mio parere, il piu’ difficile arriva con la pronuncia! Ho ascoltato Italiani che parlano l’Inglese, grammaticalmente, quasi perfetto ma che la loro pronuncia……. fa’ piangere!
Antonio 29 Luglio, 2020
Mi permetto di lasciare un commento da profano, ma sono abbastanza convinto che sia più facile per un italiano o un tedesco imparare l’inglese che non il viceversa, essendo l’inglese una lingua oggettivamente più semplice di altre.
il punto 1) dell’articolo fa leva sulla necessità di pensare nella nuova lingua che si sta imparando, ma questo vale per qualunque madrelingua di una lingua A che vuole imparare una qualsiasi altra lingua B.
Detto questo, anche solo paragonare la coniugazione dei verbi in italiano o in inglese ci dovrebbe far rendere conto di quanto l’inglese (non foss’altro per quanto riguarda i verbi) è oggettivamente molto più semplice dell’italiano.
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