Francesca Masini
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Secondo Ferdinand de Saussure, il padre della linguistica moderna, il pensiero sarebbe una “massa amorfa e indistinta” senza il linguaggio: sarebbe dunque quest’ultimo a mettere ordine tra i nostri pensieri, ‘ritagliando’ dei concetti e attribuendo loro un nome. Secondo questa ipotesi, i concetti non sono presenti nella nostra mente indipendentemente dal linguaggio, non sono cioè idee pre-esistenti a cui il linguaggio assegna delle ‘etichette’. Se questo è vero – direte voi – allora i concetti non sono universali, e il linguaggio ha un’influenza diretta sul pensiero. Ma è davvero così?
Di sicuro c’è che i concetti che stanno dietro alle parole non sono sempre uguali da lingua a lingua. Pensiamo alle parti del corpo. È abbastanza intuitivo pensare che le varie parti del corpo siano concetti universali, che tutti gli esseri umani condividono: del resto, abbiamo tutti una faccia, delle braccia, delle dita, delle gambe, ecc. Eppure, nel momento in cui occorre dare un nome a questi concetti, le lingue divergono, in modi (per noi) inattesi. Il jahai (lingua austroasiatica parlata in Malesia), per esempio, non ha un termine per ‘bocca’, ‘faccia’ o ‘gamba’; ha però una parola specifica per ‘labbro superiore’. Per tornare a lingue a noi più familiari, l’inglese ha due termini per ciò che in italiano chiamiamo dito: se il dito appartiene alla mano sarà un finger, se appartiene al piede sarà un toe. La domanda naturalmente è: queste differenze linguistiche determinano una percezione diversa della realtà da parte di chi le parla? Ovvero: i parlanti del jahai ‘concettualizzano’ come entità distinta il labbro superiore, ma non la faccia, la bocca o le gambe? E un italiano ‘percepisce’ le dita della mano come più simili alle dita del piede rispetto a un inglese?
A proposito di ‘percezione’, facciamo un altro esempio. Quanti sono i termini di colore in italiano? Sicuramente diverse decine, contando parole semplici (es. blu) ed espressioni complesse (es. giallo paglierino). Solo dodici, però, sono termini ‘basici’, come li hanno definiti Brent Berlin e Paul Kay in un famoso lavoro degli anni Sessanta: bianco, nero, rosso, verde, giallo, blu, azzurro, marrone, viola, rosa, arancio, grigio. Tali termini sono basici perché sono salienti, semplici (non derivati da altre parole, come rossiccio da rosso), non costituiscono un sottotipo di un altro colore (come ad es. verde bottiglia rispetto a verde) e sono applicabili a ogni contesto (biondo non è basico perché si riferisce solo ad alcuni oggetti). Ora, quanti sono i colori ‘basici’ nella lingua pirahã (lingua amazzonica parlata in Brasile)? A quanto pare, solo due: abbiamo un termine più o meno equivalente a ‘chiaro’ e uno più o meno equivalente a ‘scuro’. Molte lingue si collocano a metà strada: ad esempio il kalam (lingua parlata in Papua Nuova Guinea) ne ha sei (equivalenti a ‘nero’, ‘bianco’, ‘rosso’, ‘giallo’, ‘verde’, ‘blu’). Questo forse significa che le persone che parlano queste lingue non percepiscono, ovvero non riescono a distinguere i colori che percepisce un parlante dell’italiano?
C’è chi, in passato, ha pensato che fosse proprio così, che la scarsità di termini di colore in alcune popolazioni primitive fosse legata a una percezione visiva meno sviluppata (ipotesi poi smentita). Più in generale, c’è chi ha pensato che le categorie espresse da una lingua ‘determinassero’ le categorie di pensiero dei parlanti di quella lingua: il nostro sistema cognitivo sarebbe quindi indissolubilmente legato alla lingua che parliamo, e quindi relativo. Il principale esponente, in epoca moderna, di questa teoria è Benjamin Lee Whorf, allievo di Edward Sapir, tanto che la teoria in questione – denominata ‘relativismo linguistico’ o ‘determinismo linguistico’ – viene spesso indicata con l’espressione ‘ipotesi Sapir-Whorf’. Non è un caso che questa ipotesi provenga da studiosi come Whorf e Sapir, a loro volta fortemente influenzati da Franz Boas, il linguista-antropologo che ha dato il via alla descrizione sistematica delle lingue indiane d’America: il contatto con lingue molto diverse da quelle a noi più note ha infatti aperto la strada a un nuovo modo, meno eurocentrico, di concepire le lingue e le loro categorie. L’euforia legata alla ‘diversità’ di queste lingue ha talvolta prodotto delle distorsioni. Un caso che ha avuto grande risonanza presso il grande pubblico, e di cui forse anche il lettore avrà sentito parlare, è quello che riguarda i nomi per i tipi di ‘neve’ nelle lingue eschimesi. In un articolo comparso nel 1984 sul New York Times il numero di questi nomi sarebbe arrivato addirittura a un centinaio. Ebbene, so che questo susciterà un po’ di delusione, ma il numero reale è molto inferiore: Boas ne aveva identificati solo quattro… In compenso, in nootka (lingua wakashan parlata nell’isola di Vancouver) i nomi per ‘salmone’ (dal salmone anziano al salmone che avanza con la pinna fuori dall’acqua) ammontano a quattordici. Indipendentemente dai singoli casi, la domanda è: cosa ci dicono dati come questi (il numero di parole per riferirsi ai colori, alle parti del corpo, alla neve, al salmone, ecc.) rispetto al modo in cui funziona il nostro ‘pensiero’?
È innegabile che il linguaggio umano sia strettamente connesso con il nostro sistema cognitivo: il linguaggio ci aiuta a ragionare, a mettere in ordine i pensieri, a categorizzare la realtà, a fare delle astrazioni. Tuttavia, il linguaggio serve anche per comunicare. Il modo in cui sono fatte le lingue verosimilmente riflette (anche) questa sua funzione. L’assenza di un termine specifico per una particolare entità in una data lingua potrebbe essere dunque dettata dal fatto che essa non è percepita come particolarmente utile ai fini comunicativi (magari perché poco saliente in quella cultura, perché poco frequente nell’esperienza media dei parlanti, ecc.). Ciò non deve indurci a pensare che non sia possibile riferirsi a determinati concetti anche in una lingua in cui questi concetti non sono espressi come parole: ciò che non possiamo esprimere con una parola singola può essere reso con una costruzione più complessa (pensiamo all’espressione neve mista a pioggia in italiano: non è una ‘parola’ ma descrive un tipo particolare di neve). In linguistica si parla di ‘onnipotenza semantica’: la capacità teorica delle lingue di poter esprimere qualsiasi tipo di significato, concreto o astratto che sia. Come vengono espressi i significati dipende dal tipo di lingua con cui abbiamo a che fare e dal tipo di cultura che essa esprime: non è difficile immaginare perché un abitante dell’isola di Vancouver possa avere più interesse a coniare parole specifiche per vari tipi di salmone rispetto a un siciliano. È plausibile quindi ipotizzare un’influenza della cultura sulla lingua, piuttosto che della lingua sul pensiero.
Come avrete già intuito, la risposta che la maggior parte degli studiosi darebbe oggi alla domanda ‘il linguaggio determina il pensiero?’ è negativa. Esclusa l’ipotesi forte del ‘determinismo linguistico’, ha però ancora senso porsi l’interrogativo più ‘debole’, ovvero: le nostre categorie linguistiche esercitano una qualche influenza sulle nostre categorie di pensiero? Alcuni esperimenti recenti hanno mostrato, per esempio, che i parlanti russi (che hanno due termini ‘basici’ distinti per ‘blu chiaro’, goluboj, e ‘blu scuro’, sinij) sono più veloci nel distinguere le tonalità di blu rispetto ai parlanti inglesi (che hanno invece solo blue ‘blu’). Altri esperimenti, condotti su lingue diverse (tedesco, spagnolo, ecc.), sembrerebbero indicare una correlazione tra genere grammaticale (maschile vs. femminile) e attributi tipici della mascolinità o femminilità nella percezione dei nomi inanimati (es. tavolo vs. sedia). La partita, dunque, non è ancora chiusa. Da linguisti (ma anche da psicologi e da antropologi) non possiamo far altro che continuare a ricercare, nella speranza che nuovi dati o metodi sperimentali possano gettare luce su questo affascinante interrogativo.
Per approfondire
Boroditsky, Lera. 2017. How language shapes the way we think. TED Talk.
Deutscher, Guy. 2016. La lingua colora il mondo. Torino: Bollati Boringheri [ed. or. Through the language glass. Why the world looks different in other languages, London, Arrow 2011]
Everett, Caleb. 2013. Linguistic relativity. Evidence across languages and cognitive domains. Berlin: Mouton de Gruyter.
McWhorter, John H. 2014. The language hoax. Why the world looks the same in any language. Oxford: Oxford University Press.
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