Andrea Sansò
Università dell’Insubria
La diversità delle lingue umane ha sempre affascinato l’uomo. Molte culture possiedono miti come quello della Torre di Babele, che spiegano perché comunità diverse parlano lingue diverse e reciprocamente incomprensibili. Non tutti questi miti vedono nella diversità linguistica un fatto negativo. Presso varie popolazioni della Terra di Arnhem in Australia, ad esempio, la responsabile della diversità linguistica sarebbe stata una figura mitica: si tratta di Warramurrungunji, la prima donna a mettere piede nel continente australiano, che a ciascuno dei suoi figli assegnò una terra e una lingua, in modo tale che chiunque, ascoltando uno straniero, sapesse a quale comunità questi apparteneva.
Di lingue, nel mondo, ce ne sono più di 7000. E, studiando la grammatica di molte di queste, saltano agli occhi differenze macroscopiche rispetto alle lingue con le quali abbiamo più familiarità.
Ci sono lingue nelle quali è obbligatorio esprimere la fonte dell’informazione per ogni affermazione che facciamo. In tariana, una lingua parlata in Amazzonia, se devo dire che José ha giocato a calcio non posso non indicare da dove ricavo questa informazione. Se l’ho visto giocare, unirò al verbo che significa ‘giocare’ il suffisso -ka (dimanika-ka); se l’ho sentito gridare “Gol!”, ma non l’ho visto giocare, unirò al verbo un suffisso diverso (dimanika-mahka); se vedo che José non è a casa, e non c’è nemmeno il pallone (cioè se lo affermo sulla base di una semplice deduzione), unirò al verbo un suffisso ancora diverso (dimanika-nihka). Questi suffissi sono, come si è detto, obbligatori: la forma del verbo senza suffissi, dimanika-, non è una parola autosufficiente, esattamente come mangiav- o dormiv- non sono parole autosufficienti in italiano, perché manca quella parte che specifica la categoria grammaticale della persona.
Ci sono lingue in cui è necessario utilizzare verbi diversi per indicare l’azione per la quale in italiano usiamo il verbo dare. In navajo, la lingua dell’omonima comunità nativa americana, parlata in Arizona e New Mexico, ’ą́ significa ‘dare un oggetto sferico solido’ (ad es. un frutto), yį́ significa ‘dare un carico’ (ad es. un pacco), tą́ ‘dare un oggetto oblungo rigido’ (ad es. una freccia). Molti verbi, in navajo, hanno un grado di precisione semantica maggiore dei verbi italiani. Se un tale grado di specificazione ci sembra complicato, proviamo a immaginarne anche i vantaggi: quando ordiniamo a qualcuno di darci qualcosa, in navajo ci basta usare l’imperativo del verbo, senza la necessità di specificare l’oggetto, perché la semantica del verbo è sufficiente per far capire all’interlocutore a quale tipo di oggetto ci riferiamo.
Esempi come questi si possono moltiplicare, e riguardano praticamente tutti i livelli della grammatica, dalla morfologia verbale (come in tariana), al lessico (come in navajo), alla fonologia e alla sintassi: ci sono lingue con suoni ‘esotici’ come i click, prodotti aspirando anziché espirando l’aria. Ci sono lingue che hanno dei marcatori sul nome (prefissi o suffissi) che indicano il ‘tempo’ (cosicché il nome che significa casa avrà una forma diversa se compare in ho costruito una casa o in costruirò una casa). Se prendiamo la frase semplice, formata da soggetto, verbo e complemento oggetto, troviamo che tutti e sei gli ordini teoricamente possibili di questi tre elementi (SVO, SOV, VSO, VOS, OVS, OSV) sono effettivamente attestati, e così via.
Ma ci sono dei limiti a questa variazione, o le lingue possono variare nei modi più impensabili e bizzarri? A questa domanda, la linguistica tipologica e la linguistica generativa hanno provato a dare una risposta sin dalla seconda metà del secolo scorso. E la risposta è che le differenze tra lingue possono essere molte, ma non sono certamente infinite e soprattutto non sono casuali.
Andiamo con ordine. Ci sono innanzitutto delle caratteristiche che accomunano la grammatica di tutte le lingue, dette ‘universali assoluti’. Uno di questi stabilisce che tutte le lingue possiedono almeno due classi di parole ben differenziate tra loro, i nomi, utilizzati per riferirsi a oggetti e entità del mondo reale, e i verbi, utilizzati per descrivere eventi o azioni che coinvolgono i nomi. Sono state proposte diverse eccezioni a questo universale, ma sono state tutte puntualmente smentite. Una lingua spesso portata ad esempio per dimostrare che la distinzione tra nomi e verbi non è universale è il mundari (una lingua parlata in India). In mundari, una parola come buru può essere utilizzata come nome (‘montagna’) o come verbo, col significato di ‘ammassare’, jom può significare sia ‘cibo’ che ‘mangiare’, e lo stesso si può dire di gran parte del lessico (engga significa sia ‘madre’ che ‘partorire/essere madre’, durang sia ‘cantare’ che ‘canzone’, ecc.). Esiste tuttavia un gruppo di parole in mundari che funzionano unicamente come verbi o come nomi (misi, ad esempio, significa soltanto ‘sorella’ e non ha nessun significato come verbo; al contrario, om è un verbo che significa ‘dare’ ma non ha nessun significato come nome, e quindi non può essere usato per designare il ‘dono’).
Un altro universale assoluto stabilisce che in tutte le lingue parlate ci sono più consonanti che vocali. La lingua con il minor numero di consonanti finora descritta è il rotokas, una lingua di Papua Nuova Guinea, con solo sei consonanti (/p/, /b/, /t/, /d/, /k/ e /g/), che comunque superano in numero le cinque vocali di questa lingua, mentre quella con più consonanti è una lingua parlata in Botswana, il !xóõ, che ne conta ben 122.
Se prendiamo in considerazione la sintassi, una proprietà universale che accomuna tutte le lingue è l’esistenza, nella frase interrogativa, di un qualche tipo di modificazione rispetto alla corrispondente frase dichiarativa. Questa modificazione può essere di natura morfosintattica (come l’inversione soggetto-verbo in inglese) o prosodica (come in italiano, dove le frasi interrogative possono avere lo stesso ordine delle parole delle corrispondenti frasi dichiarative, ma hanno un’intonazione ascendente anziché discendente).
Gli universali assoluti non sono le uniche proprietà che accomunano tutte le lingue e che pongono dei limiti alla variazione possibile. Altre proprietà universali riguardano la compresenza, nella stessa lingua, di diverse caratteristiche. Questi universali sono chiamati ‘universali implicazionali’ perché hanno la forma di un’implicazione: “Se x, allora y”. Un esempio è il seguente: “se una lingua esprime la categoria del genere, allora esprime anche la categoria del numero”. Questo universale ammette l’esistenza di lingue che esprimono ambedue le categorie, come l’italiano, di lingue che esprimono solo la categoria del numero ma non quella del genere, come il finnico, e di lingue che non esprimono né l’una né l’altra, come l’imonda, (un’altra lingua di Papua Nuova Guinea, in cui il pronome di 3a persona ehe significa ‘egli’, ‘essa’ e ‘essi’), mentre esclude l’esistenza di lingue che esprimono la categoria del genere ma non quella del numero.
Abbiamo già detto dei sei ordini possibili di soggetto, oggetto e verbo, e di come tutti e sei siano attestati (anche se non con la stessa frequenza: gli ordini VOS, OVS e OSV sono molto rari). La sempre maggiore disponibilità di dati da molte lingue ha mostrato però alcuni fatti interessanti. Alcune caratteristiche grammaticali (come ad esempio la posizione della frase relativa rispetto al nome a cui si riferisce, o l’esistenza di postposizioni, elementi che svolgono la stessa funzione delle preposizioni, ma si trovano dopo il nome, come in latino mecum o in italiano antico meco, ‘con me’) si correlano fortemente con uno dei due ordini possibili di verbo (V) e oggetto (O): nelle lingue con ordine OV troviamo più frequentemente postposizioni, e frasi relative che precedono il nome a cui si riferiscono, mentre nelle lingue con ordine VO troviamo preposizioni e frasi relative che seguono il nome a cui si riferiscono. Non si tratta, in questo caso, di regole assolute, ma di tendenze statistiche molto forti, che limitano fortemente le possibilità di variazione.
Gli universali assoluti e implicazionali individuati in più di cinquant’anni di ricerca dalla linguistica tipologica sono più di 2000. Oggi, una risorsa elettronica, lo Universals Archive dell’Università di Costanza, li raccoglie tutti, inclusi quelli oggetto di dibattito o che presentano eccezioni, e rappresenta pertanto il punto di partenza per chi vuole esplorare la diversità linguistica e i suoi limiti.
Per approfondire
Arcodia, Giorgio Francesco & Caterina Mauri. 2016. La diversità linguistica. Roma: Carocci.
Evans, Nicholas. 2010. Dying words. Londra: Wiley-Blackwell.
Grandi, Nicola. 2014. Fondamenti di tipologia linguistica. Roma: Carocci.
Moro, Andrea. 2006. I confini di Babele. Il cervello e il mistero delle lingue impossibili. Bologna: il Mulino.
0 Commenti
Lascia un commento