Serenella Baggio
Università di Trento
Nel corso della Grande Guerra furono 600.000 gli internati italiani nei campi dei due imperi centrali di lingua tedesca; ne parla Giovanna Procacci in un libro che spezza la congiura del silenzio e dell’incuria verso persone presto bollate di antipatriottismo e di diserzione per essersi date al nemico. Avevamo finora solo le loro testimonianze epistolari o memoriali, in parte filtrate, le prime, attraverso i libri di Spitzer: non solo Lettere di prigionieri di guerra italiani. 1915-1918, del 1921, di cui ho già parlato a proposito della riedizione italiana del 2016, ma anche Perifrasi del concetto di fame del 1920, di cui è appena uscita la prima edizione italiana, un vero monumento alla fantasia linguistica degli scriventi popolari, impegnati nel gioco del gatto e del topo con un’occhiuta censura che negava loro in ogni modo di esplicitare alle famiglie i bisogni più necessari.
Ora, come ho raccontato, di alcuni di quegli internati abbiamo anche le voci ‘vive’, conservate nelle registrazioni che furono raccolte da linguisti nei campi di prigionia, per una vasta inchiesta coordinata da due Commissioni Fonografiche, quella di Berlino e quella di Vienna, entrambe nate nel 1915.
Quelle che l’Archivio Fonografico di Vienna mi aveva incaricato di studiare per la pubblicazione digitale a cui avrei collaborato erano 15 tracce sonore dialettali corrispondenti alle voci di 12 prigionieri. Sapevo che nel Lautarchiv di Berlino se ne trovavano in un numero molto superiore, oltre un centinaio, cui sarebbero state da aggiungere le voci cantate dell’Archivio Fonografico berlinese. Pensai, quindi, che il numero misurato dei materiali viennesi permettesse di fare un esperimento editoriale. Contattai un certo numero di dialettologi esperti delle aree linguistiche con cui avevamo a che fare e piuttosto rapidamente, trovando in loro grande curiosità e disponibilità a lavorare su queste voci, potei assegnare, quasi in adozione, i 12 prigionieri ad altrettanti studiosi, che si sarebbero fatti carico del riascolto critico della registrazione, di una nuova trascrizione fonetica e, insomma, di uno studio comparativo, caso per caso, tra quanto aveva mostrato Ettmayer nei verbali e quanto oggi, a cent’anni di distanza, si poteva dire della rappresentatività di quelle registrazioni per i rispettivi dialetti. Sono un’allieva di Gianfranco Folena, sono una storica della lingua con una formazione filologica, e quindi cerco di conciliare il mio amore per la storia con quello per la critica del testo. La nuova proposta non riscosse un immediato entusiasmo da parte dei curatori dell’edizione digitale, che avevano seguito prassi più semplici pubblicando le testimonianze di altre lingue. Vedevano certo nel coinvolgimento di tanti collaboratori una complicazione del loro lavoro redazionale, ma alla fine accettarono.
In un ordine geografico da Nord a Sud, assegnai dunque a Maria Antonietta Arrigoni e Marco Savini, esperti di Lomellina, Luigi Barbonaglia, bracciante di Cozzo (prov. di Pavia), nato nel 1881; a Lorenzo Coveri il suo concittadino Francesco Piccardo, fuochista, nato nel 1884; a Silvia Calamai due toscani, Carlo Barlucchi, giardiniere di Torri di Chiusdino (prov. di Siena), del 1894, e Guido Pardino, contadino e cestaio di San Rocco in Turrite di Pescaglia (prov. di Lucca), del 1886; a Giovanni Manzari Rodolfo Cerabino, impiegato postale di Spinazzola (prov. di Barletta-Andria-Trani), del 1891; a Marta Maddalon e John Trumper Salvatore Fucilla, tipografo e agente teatrale di San Marco Argentano (prov. di Cosenza), del 1890; a Vito Matranga Gaspare Regina, contadino di Alcamo (prov. di Trapani), del 1898; a Roberto Sottile Carlo Antonio Puleo, studente di Sciacca (prov. di Agrigento), del 1896, e Salvatore Martorano, studente di Pietraperzia (prov. di Caltanissetta), del 1894; ad Antonietta Dettori Antonio Follesa, borghese di Cagliari nato a Villaputzu (prov. di Cagliari), del 1884; a Daniela Mereu Carlo Mulas, impiegato di Cagliari, del 1885; e a Nicoletta Puddu Salvatore Atzeni, scalpellino minatore di Arbus (prov. di Cagliari), del 1891.
Immagine 1. Verbale relativo a Rodolfo Cerabino, impiegato postale di Spinazzola. Traccia audio. (© Phonogrammarchiv, Österreichische Akademie der Wissenschaften)
Ettmayer li aveva registrati nel 1918 in due mezze giornate, quella del 20 aprile a Mauthausen e quella del 25 aprile a Marchtrenk, cioè in due campi dell’Austria settentrionale in cui erano stati concentrati gli italiani fatti prigionieri dopo la rotta di Caporetto (la dodicesima battaglia sull’Isonzo), fra ottobre e novembre dell’anno prima. Il lavoro di preparazione delle registrazioni non ci viene documentato dai verbali. Lo desumiamo dalla documentazione berlinese e in particolare da un carteggio inedito, che ho potuto studiare, conservato all’Archivio J. Jud di Zurigo, fra l’ordinario di Filologia Romanza di Berlino, Heinrich Morf, responsabile della sezione lingue romanze della grande inchiesta, e il suo raccoglitore, il romanista Hermann Urtel, più giovane e meno titolato. Quasi giornalmente Urtel riferiva a Morf l’andamento della raccolta, parlando dei problemi pratici che doveva affrontare e, spesso con buon senso e umanità, riusciva a risolvere.
La scelta dei prigionieri da testare si faceva in ogni campo, col permesso delle autorità militari, convocando le persone giovani e non analfabete che venivano indicate da una sorta di mediatori, o traduttori, spesso probabilmente della stessa nazionalità dei prigionieri. Il testo da recitare nell’imbuto del grammofono (ricordate l’etichetta discografica La voce del padrone?) veniva preparato dal linguista insieme al prigioniero selezionato, con sedute di prova e scritture e riscritture da parte del prigioniero. Non si trattava né di risposte ad un questionario, né di una traduzione letterale in dialetto di un testo in italiano, sebbene da un modello in italiano o da un canovaccio narrativo si dovesse pur partire. Ettmayer aveva rinunciato a servirsi della Parabola del Figliol prodigo, comodo sistema di elicitazione per tanti dialettologi nella ricerca sul campo e molto usata anche da Urtel, su indicazione di Morf. Più originalmente chiese ai suoi informatori di recitare nel loro dialetto delle novelline sul gabbo del villano: si tratta, cioè, di storie di scherzi fatti a contadini approfittando della loro proverbiale ingenuità e ignoranza. In una di queste, come si vedrà, la vicenda gira intorno a un malinteso linguistico (Paris/Parigi confuso con Paradiso). Ci è stato possibile trovare nella letteratura etnografica solo una tra queste tre novelline (La barba franca). L’informatore la recitava e il linguista annotava; ripetendosi la recitazione, il linguista sentiva più versioni, da cui, alla fine, traeva una trascrizione fonetica. L’informatore, intanto, si era scritto un testo abbastanza stabile da imparare a memoria o da leggere senza esitazioni durante la registrazione (3 minuti da non sprecare); l’imbuto richiedeva immobilità, ma lasciava liberi gli occhi di guardare il testo scritto o il linguista che, a volte, suggeriva. Quando arrivava il tecnico dall’Archivio con la macchina (40 kg.), si facevano le registrazioni in poche ore di tutto un gruppo di prigionieri. Il linguista avrebbe sentito la registrazione in Archivio, ma la trascrizione fonetica del verbale spesso si discosta in vari particolari dal sonoro registrato, segno che nel verbale veniva riportata quella stesa dal linguista prima della registrazione.
Immagine 2. Verbale di una registrazione grammofonica del 1910 (non appartenente all’inchiesta italiana), in cui compare una rara immagine del momento della registrazione (© Phonogrammarchiv, Österreichische Akademie der Wissenschaften)
Solo a Berlino il mio allievo Stefano Bannò ha trovato conservati nei faldoni dei protocolli gli autografi dei prigionieri, preziose testimonianze della difficoltà che i dialettofoni hanno di scrivere nel loro dialetto, essendo stati alfabetizzati in lingua. In alcuni casi, però, si notava che esistevano consuetudini locali, tradizioni cittadine di scrittura, con precise marche regionali come la <x> genovese o quella veneziana. Marche simili, spariti invece gli autografi, a Vienna si possono trovare nelle ‘trascrizioni semplificate’ del sonoro, scritte a verbale da Ettmayer: linguisticamente molto diverse da informatore a informatore, mostrano che non sono opera del linguista, ma dipendono da testi a monte di diverse mani.
Quanto abbiamo detto è molto lontano dalla prassi che oggi seguirebbe qualsiasi dialettologo. Informatori giovani, dialettofoni non puri, capaci di leggere e scrivere, spesso inurbati, raramente contadini, piuttosto artigiani, studenti, piccoli impiegati; una preparazione alla registrazione che ne garantisce l’esecuzione, ma toglie spontaneità e fluenza alla recitazione, volutamente segmentata in piccole unità narrative; più sciolta la recitazione a memoria di proverbi, filastrocche, strofe di canzone. Ma Ettmayer, con sensibilità da sociolinguista più che da dialettologo, sapeva osservare i cambiamenti in atto in un’Italia postunitaria dove i giovani si staccavano dalla campagna e dal mestiere dei padri, per studio o per lavoro, o cominciavano a viaggiare. Per loro anche la guerra, pur tragica e orrenda, era un’esperienza formativa.
I ‘miei’ dialettologi hanno lavorato con l’emozione di chi può retrodatare di 30 e più anni le proprie conoscenze del dialetto parlato registrato, osservando soprattutto i fatti di pronuncia, il ritmo, la cadenza. Con ripetute audizioni delle tracce sonore si sono familiarizzati con un ascolto che all’inizio pareva molto molto difficile. I loro saggi sono begli esempi di filologia dialettale.
L’edizione è finalmente uscita, su cd, nel 2019: Sound documents from the Phonogrammarchiv of the Austrian Academy of Sciences. The complete historical collections 1899-1950. Series 17/6: Recordings from prisoner-of-war camps, World War I. Italian recordings (a cura di Gerda Lechleitner e Christian Liebl, con la collaborazione di Serenella Baggio, Vienna, Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften).
Ma il lavoro non è finito. Abbiamo proposto all’Accademia della Crusca l’edizione italiana, in cartaceo e con alcune aggiunte. Stiamo scavando nella vita di quei prigionieri per ricostruire le loro vicende prima e dopo il 1918 e per conoscerli meglio, attraverso le loro scritture, quando si trovano, o il ricordo che hanno lasciato nelle famiglie e nelle comunità di appartenenza. Soprattutto vogliamo, però, condividere l’ascolto delle registrazioni con un pubblico ampio, non solo di specialisti, che possa sentire e capire bene quello che fu detto. Per questo prepariamo un ipertesto che consenta di sincronizzare l’ascolto con la visione di più tipi di trascrizione, fonetica e semplificata, e di traduzioni.
Per approfondire
Baggio, Serenella. 2018. Alternative al questionario. Inchieste nei campi di prigionia della prima guerra mondiale. In Gianluca Ligi, Giovanni Pedrini & Franca Tamisari (a cura di), Un accademico impaziente. Studi in onore di Glauco Sanga, 291-304. Alessandria: Edizioni Dell’Orso.
Macchiarella, Ignazio & Emilio Tamburini (a cura di). 2018. Le voci ritrovate. Canti e narrazioni di prigionieri italiani della Grande Guerra negli archivi sonori di Berlino. Udine: Nota.
Procacci, Giovanna. 2016. Soldati e prigionieri italiani nella Grande guerra. Con una raccolta di lettere inedite. Torino: Bollati Boringhieri.
Spitzer, Leo. 1920. Die Umschreibungen des Begriffes “Hunger” im Italienischen. Stilistisch-onomasiologische Studie auf Grund von unveröffentlichem Zensurmaterial. Halle: Niemeyer [ed. it. Perifrasi del concetto di fame. La lingua segreta dei prigionieri italiani nella Grande guerra, Milano, il Saggiatore 2019].
Spitzer, Leo. 1921. Italienische Kriegsgefangenenbriefe. Materialien zu einer Charakteristik der volkstümlichen italienischen Korrespondenz. Bonn: Hanstein V., Bonn [ed. it. Lettere di prigionieri di guerra italiani. 1915-1918, Milano, il Saggiatore 2016].
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