Nicola Grandi
Alma Mater Studiorium – Università di Bologna
Meglio tardi che mai!
Questa è la reazione che, a caldo, suscita in molti di noi la lettura del rapporto Ital Communications – Censis, presentato lo scorso 23 aprile nella Sala Zuccari, a Palazzo Giuistiniani a Roma, sede, tra le altre, della Presidenza del Senato della Repubblica Italiana.
Il rapporto segnala in modo inequivocabile che la comunicazione, durante questo anno ormai abbondante di pandemia, non ha funzionato. I dati che il rapporto presenta sono fin troppo evidenti:
Per il 49,7% degli italiani la comunicazione dei media sull’epidemia sanitaria è stata confusa, per il 39,5% ansiogena, per il 34,7% eccessiva. Solo il 13,9% pensa che sia stata equilibrata (pag. 5).
Conviene chiarire per bene lo sfondo di questi dati: a febbraio 2020 la vita di tutti e tutte noi è stata stravolta da un evento inatteso e ignoto, che, di conseguenza, ci ha colti impreparati. Una delle prime cose che abbiamo imparato è che per arginare il contagio occorre assumere comportamenti molto rigorosi, seguendo con scrupolo estremo le indicazioni trasmesse delle istituzioni: limitare al massimo gli spostamenti, indossare la mascherina, mantenere una certa distanza da altre persone, ecc. Per accettare queste limitazioni alla nostra libertà e per seguire queste linee guida servono innanzitutto equilibrio e lucidità (oltre a una piena consapevolezza del rischio che si corre violandole). Insomma, l’esatto opposto di ciò che invece ansia e confusione generano, cioè panico e atteggiamenti disordinati. Si può affermare, senza timore di essere smentiti, che una comunicazione confusa e ansiogena induce cittadini e cittadine ad assumere atteggiamenti caotici che vanno proprio nella direzione opposta a quella auspicata: i comportamenti caotici moltiplicano le occasioni di contagio, anziché ridurle; sono i migliori alleati del virus, non i suoi nemici.
Possiamo quindi dire che il caos comunicativo a cui abbiamo assistito in questi 14 mesi abbia concorso a complicare la situazione? Beh, certamente sì.
Perché, dunque, meglio tardi che mai? Perché chi si occupa, da tutti i punti di vista, di comunicazione ha fin da subito segnalato i rischi legati ai difetti della comunicazione, soprattutto istituzionale, in questa situazione di emergenza sanitaria. Lo hanno fatto alcuni divulgatori, lo hanno fatto alcuni giornalisti, lo hanno fatto gli esperti di gestione di crisi. E lo hanno fatto i linguisti. Ad esempio, da pochi giorni è stato pubblicato un volume ricchissimo, a cura di Patrick Trancu, che discute tutti gli aspetti che il report Censis evidenzia.
Cerchiamo di ricostruire, in sintesi estrema, quello che è accaduto da febbraio 2020 ad oggi. Il rapporto Ital Communications – Censis fornisce un altro dato clamoroso: “50 milioni di italiani, pari al 99,4% degli italiani adulti, hanno cercato informazioni sulla pandemia: non era mai accaduto prima” (pag. 5). Le domande a questo punto… sorgono spontanee: dove hanno cercato, gli italiani, le informazioni? E, soprattutto, cosa hanno trovato?
La risposta alla prima domanda è nel grafico a pag. 9 del rapporto: il 75,5% si è rivolto a media tradizionali (TV, stampa, radio, ecc.); il 51,8% a siti internet di fonte ufficiale; il 29,8 ai social network; il 25,1 al medico di medicina generale; il 18,2% ad amici e conoscenti, ecc.
È però la risposta alla seconda domanda l’aspetto che a noi interessa di più, soprattutto considerando che ogni atto comunicativo è sia forma che sostanza e che la forma condiziona la percezione della sostanza. Ma dal momento che le lingue sono forma e non sostanza è alla forma che viene naturale, per noi linguisti, rivolgere l’attenzione.
Prima di affrontare la questione serve, però, un’altra premessa. Il rapporto sottolinea come in questi ultimi mesi sia diminuito il cosiddetto digital divide: un numero sempre crescente di persone ha avuto accesso al digitale. Questa, però, non è necessariamente una buona notizia, perché non tutti coloro che hanno avuto accesso al digitale avevano gli strumenti per potersi orientare in esso. E in effetti è aumentato anche il cosiddetto information gap, cioè la distanza tra chi è in grado di gestire in modo consapevole e critico le informazioni ricavate, ad esempio, dal web e chi, invece, non è in grado di farlo. Si tratta di un fenomeno notissimo: il cosiddetto analfabetismo funzionale, cioè l’incapacità di applicare a situazioni di vita reale le proprie abilità di lettura, scrittura e calcolo (e, quindi, anche di giudicare criticamente le informazioni). La conclusione è ovvia: il concorso tra i due fattori crea le condizioni ideali per la proliferazione di fake news (di cui Linguisticamente si è occupato qui) e dei comportamenti disordinati da esse innescati.
Un altro rapporto, quello elaborato dall’Istat e presentato a Montecitorio il 3 luglio 2020, fornisce un drammatico riscontro a questi dati: nei primi mesi della pandemia, i tassi di mortalità sono cresciuti molto di più nelle fasce meno alfabetizzate della popolazione. Chi è culturalmente fragile è più vulnerabile. Lo stesso rapporto Censis ammette che “la pandemia ha certificato il ruolo crescente della comunicazione nella vita delle persone” (p. 6). E, si è visto, vita va inteso in modo non solo metaforico.
Torniamo, ora, alla seconda domanda posta sopra. Cosa hanno trovato, i cittadini, cercando informazioni sul Covid-19? Conviene soffermarsi su chi, istituzionalmente, avrebbe dovuto dettare la linea e dare risposte chiare e univoche. Software come Gulpease o Read-It, che ci consentono di misurare la complessità di un testo e di prevedere, poi, quanti e quali cittadini esso potrà raggiungere, rivelano come i testi della comunicazione istituzionale, ad esempio i DPCM o i comunicati della Protezione Civile, abbiano una complessità tale da risultare pressoché incomprensibili per almeno due cittadini su tre (qui qualche dato) . Sono testi, cioè, accessibili (o, meglio, comprensibili) solo per chi abbia un livello di istruzione molto elevato e per chi, negli anni, abbia avuto modo di esercitare con regolarità e ad alto livello le abilità di lettura, scrittura e calcolo acquisite nella propria formazione (mettendosi al riparo, dunque, dall’analfabetismo di ritorno).
Questo è il vero nocciolo della situazione: disinformazione e fake news attecchiscono particolarmente dove le Istituzioni non comunicano in modo chiaro. Se la comunicazione istituzionale è chiara e accessibile, la cosiddetta infodemia si diffonde in modo molto più limitato.
Questo è il dato cruciale: dal punto di vista sintattico e lessicale gli atti comunicativi istituzionali sono testi d’elite, non inclusivi. E, di fatto, spingono i cittadini e le cittadine verso fonti di comunicazione alternative, non verificate, con i rischi che sopra abbiamo evidenziato.
Quale può essere il rimedio a questa situazione? Che insegnamento possiamo trarre dalla gestione di questa crisi, per prepararci alle emergenze del futuro?
Nell’ultima parte del rapporto Ital Communications – Censis vengono presentate le ‘ricette per combattere la mala informazione’: l’obbligo, da parte delle piattaforme web, di rimuovere le fake news; l’attivazione di sistemi di controllo sulla veridicità delle informazioni da parte dei social media; la richiesta, ai motori di ricerca, di privilegiare nei risultati le informazioni provenienti da siti istituzionali; il varo di campagne di sensibilizzazione sull’uso dei social; ecc.
C’è, però, un problema di fondo in queste ‘ricette’: se la ‘mala informazione’ è una manifestazione patologica della comunicazione, esse agiscono sui sintomi, sugli epifenomeni, non sulla causa profonda dell’infodemia. Sorprende, in effetti, che non vengano menzionate le due soluzioni più efficaci e più ‘struutrali’ nel contenimento delle fake news.
La prima: lo Stato, in tutte le sue istituzioni, dovrebbe adottare uno stile comunicativo davvero accessibile, redigendo i testi sulla base delle competenze linguistiche reali dei destinatari (e non degli estensori). Un documento ufficiale, a differenza di un romanzo o di un testo specialistico come una tesi di laurea, può permettersi di ‘badare al sodo’, puntando sulla sostanza con una forma essenziale. Un testo di questo tipo non è un esercizio di stile: le informazioni vanno trasmesse con scelte lessicali e sintattiche finalizzate a favorire una lettura immediata e univoca.
La seconda: lo Stato deve favorire lo sviluppo, da parte della maggioranza dei cittadini e delle cittadine, degli anticorpi necessari a resistere a ogni contagio informativo. E questo è possibile solo attraverso investimenti sistematici nei percorsi formativi, non solo per bambini e adolescenti, ma anche per gli adulti: occorre elevare il livello medio di alfabetizzazione della popolazione ed arginare l’impatto dell’analfabetismo di ritorno. Se lo Stato mettesse davvero, e finalmente, la scuola al centro delle proprie strategie, l’incidenza della ‘mala informazione’ diminuirebbe da sé, rendendo meno impellenti provvedimenti come quelli elencati in coda al rapporto. Gli investimenti sulla scuola sono anche investimenti sulla salute.
Tutto questo consentirebbe una piena realizzazione della nostra Costituzione, che, all’articolo 3, recita:
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Se è vero, per citare Don Lorenzo Milani, che si può definire uomo solo chi è padrone della propria lingua e che è la lingua a renderci uguali, allora l’istruzione e in particolare l’educazione linguistica sono condizioni necessarie al vivere democratico, in quanto premessa imprescindibile per la costruzione di un’uguaglianza sostanziale e non solo formale tra tutti i cittadini e le cittadine (De Mauro 2018: 58).
Per approfondire
De Mauro, Tullio. 2018. L’educazione linguistica democratica. Bari: Laterza.
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