Vera Gheno
Linguisticamente parlando, la ‘questione dei femminili’ appare tutto sommato semplice, o se non altro di semplice spiegazione; tuttavia, la discussione in merito è evidentemente connotata da aspetti sociali, culturali e politici. E questo, almeno in parte, è inevitabile, visto che tra lingua e società c’è un legame strettissimo e bidirezionale.
Ma perché l’argomento desta così tante reazioni avverse? A mio avviso, c’è prima di tutto una tendenza connaturata all’essere umano: da un certo punto in poi delle loro vite, le persone diventano più o meno esplicitamente ‘renitenti al cambiamento’; forse non reazionarie, ma perlomeno conservatrici, anche in campo linguistico. Ciò è comprensibile: l’essere umano è un animale stanziale, per il quale ogni cambiamento coincide con un piccolo trauma. L’atteggiamento si manifesta ad esempio nei confronti dei neologismi o dei linguaggi giovanili, spesso visti come una ‘rovina dell’italiano’ quando sono, in realtà, fisiologici in qualsiasi lingua viva. In altre parole, esiste una reazione di fastidio quasi istintiva, pavloviana, nei confronti dei mutamenti linguistici; tale reazione coinvolge anche la questione dei femminili professionali, che sono sentiti come una minaccia a un supposto status quo (che però, analizzando la storia della lingua, abbiamo visto non essere vero).
Dunque, se da una parte la strada più ‘sana’ è forse quella di considerare i femminili professionali come mera conseguenza di una realtà sociale mutata, in cui le donne via via conquistano nuovi spazi e nuovi ruoli che la lingua non fa che recepire e riflettere, occorre pure tenere conto delle resistenze esibite dai parlanti. Ritengo che in questa fase sia opportuno evitare di essere impositivi, ove possibile, dato che storicamente, in Italia, le imposizioni linguistiche hanno sempre avuto vita travagliata. Questo non toglie che talvolta siano necessarie azioni a livello amministrativo o governativo, per esempio fornendo delle linee guida per stilare documenti non sessisti o per dare notizie nel modo più corretto, per esempio nel caso di femminicidi. Allo stesso modo, giudico poco utili ‘alla causa’ giudizi apodittici nei confronti delle donne che si rifiutano di usare i femminili professionali.
Per quanto mi riguarda, la strada maggiormente percorribile per un dibattito più maturo e pacato passa dall’informare sulla questione, arrivando così, forse, a una discussione sui contenuti effettivi più che su posizioni stereotipate, istintive e spesso non ben documentate. Per agevolarla, propongo qui un breve elenco delle dieci obiezioni ricorrenti alle quali è possibile rispondere con quieta assertività.
- Il richiamo alla tradizione. Dal “si è sempre detto/fatto così” a “i femminili stravolgono l’italiano”, il richiamo al passato è forse una delle repliche più frequenti di fronte ad assessora o notaia. Davanti a tali osservazioni, invito ad analizzare la storia della nostra lingua – e prima ancora del latino – per verificare che i nomina agentis al femminile si sono diffusi nell’uso ogni volta che ce n’è stato bisogno. Alcuni femminili, di conseguenza, risalgono al latino (ministra); altri sembrano essere presenti ‘da sempre’ in italiano (maestra o sarta); altri ancora sono di adozione più recente (deputata o senatrice) o recentissima (questora o ingegnera). Il loro suonare più o meno strani è diretta conseguenza di tali differenze cronologiche, non di una diversa ‘liceità lessicale’.
- L’irrilevanza della questione rispetto a ben altri problemi. Le donne hanno sicuramente altri problemi che non quello di essere nominate in maniera più o meno esplicita; tuttavia, poiché nominare le cose con il loro nome aiuta spesso anche a ‘vederle’ meglio, usare i nomina agentis al femminile può contribuire a normalizzare la presenza femminile nei vari contesti professionali. Inoltre, rivolgere una piccola attenzione all’aspetto linguistico non toglie che ci si possa contemporaneamente occupare di altre questioni. La catena del ‘benaltrismo’ rischia essere un’obiezione vuota, dato che può essere portata all’infinito: qual è la questione che merita la nostra totale e completa attenzione, a discapito di tutte le altre?
- I controcasi. “Allora da domani dico pediatro”; “Che cosa deve dire la povera guardia? Dobbiamo chiamarla guardio?”. A queste obiezioni si ribatte spiegando la differenza tra nomi di genere comune (il/la pediatra), promiscuo (la guardia, ma anche il pedone) e mobile (il sarto/la sarta). L’esistenza di comportamenti diversificati non pregiudica che nel caso dei nomi di genere mobile si possa procedere, vocabolario alla mano nei casi di incertezza, all’uso del termine correttamente declinato in base alle regole della morfologia.
- Il giudizio di ‘cacofonia’. Nei confronti della lingua che usiamo tutti i giorni, il ‘suonare male’ di una parola è prima di tutto soggettivo e in secondo luogo irrilevante. Impieghiamo le parole che ci servono per esprimere con precisione ciò che vogliamo dire, dando peso a giudizi di eu- o cacofonia quando siamo in ambito letterario o poetico. Insomma, se nulla ha mai ostato all’uso di transustanziazione perché ‘suona male’, così non dovremmo opporci all’uso di decisora/deciditrice adducendo questa motivazione.
- Il problema della ‘polisemia’. Alcuni ritengono che non si possa usare un determinato femminile perché la parola avrebbe già un altro significato. In generale, in italiano, come nelle altre lingue, non è raro che questo succeda. Di solito, basta il contesto per chiarire il senso con cui si impiega un termine. Quindi chimica, fisica, grafica, matematica, portiera (nel calcio), pur avendo anche altri significati, possono venire impiegati anche come nomina agentis; peraltro, abbiamo casi di polisemia anche per nomi maschili, come fisico o grafico, e anche il portiere può essere quello di uno stabile; eppure, l’obiezione in quei casi non viene mossa.
- Le assonanze. Di architetta abbiamo già parlato; altri se la prendono con ministra perché ‘suona come minestra’. Volendo, possiamo trovare assonanze più o meno comiche in ogni contesto (si pensi alle pene corporali o al fallo da dietro o a cazzare la randa); tali assonanze, a parte strappare qualche sorrisetto, non hanno mai impedito l’impiego di quelle parole.
- La presunta neutralità delle cariche. Per chi invece, obiettasse che “le cariche sono neutre”, rivolgersi a una donna appellandola al femminile (la sindaca xy, l’assessora yz, la giudice zw) non esclude la possibilità di continuare a usare il maschile quando il riferimento è generico: La carica di sindaco implica che… Il ruolo di questore impone… D’altro canto, cariche femminili sono sempre esistite (cfr. la regina Elisabetta) oppure sono state impiegate ‘alla bisogna’ (la giudicessa/giudichessa Eleonora D’Arborea).
- I femminili come ‘questione femminista’. Per ovvi motivi, è chiaro che all’interno del movimento femminista, estremamente frastagliato, ci possano essere correnti che ‘spingono’ in maniera particolare sull’uso dei femminili professionali. Tuttavia, forse occorre anche ‘de-femminilizzare’ l’istanza, riconoscendo che si tratta, piuttosto, di cambiamenti linguistici conseguenti a una realtà sociale mutata, in cui le donne vanno a ricoprire ruoli professionali – spesso apicali – che prima erano loro quasi preclusi. Insomma, se non è femminista chiamare maestra una maestra, forse potrebbe non esserlo nemmeno chiamare ministra una ministra.
- L’uso dei femminili come appannaggio della ‘sinistra’. Come al punto precedente, se è indubbio che da molti punti di vista lo schieramento sia identificato con il progressismo, e che a sinistra si sia lavorato maggiormente nella direzione di dare alla donna pari opportunità lavorative e di carriera professionale rispetto a un uomo, penso che in questo momento stia avvenendo un ribaltamento: sta quasi diventando più ‘politico’ definire una donna al maschile che non il viceversa. In fondo, non abbiamo dubbi a chiamare così le sarte, le cassiere, le operaie (ma anche le regine), eppure per alcuni è abominevole parlare delle ministre, delle assessore o delle presidenti.
- Il richiamo al ‘politicamente corretto’. Stando allo Zingarelli 2021, politicamente corretto è “detto di atteggiamento o linguaggio non offensivo nei confronti di soggetti deboli o minoritari”: per esempio, è meglio usare disabile che handicappato, nero o afro-(americano/italiano) che ne*ro, omosessuale che invertito (sull’argomento, cfr. anche Faloppa 2017: 21 e sgg.). Appellare al femminile una donna che svolge un certo lavoro, tuttavia, non ha a che fare con il politicamente corretto quanto piuttosto con il semanticamente e grammaticalmente corretto. Se definire professoressa la propria docente non è un’istanza di politicamente corretto, non lo è nemmeno chiamare avvocata quella che ci difende in una causa. Attenzione, dunque, a questa etichettatura a mio avviso parzialmente impropria.
Alla fine di questa carrellata, non resta che armarsi di pazienza e comprendere, come mi capita spesso di dire, che quella dei femminili professionali non deve per forza essere una ‘battaglia’. A mio avviso, la realtà, la società, la cultura stanno andando nella direzione della normalizzazione dei nomina agentis al femminile. Si tratta, in un certo senso, di tenere conto del fatto che i cambiamenti linguistici necessitano sempre del dovuto tempo.
Per approfondire
Blasi, Giulia. 2018. Manuale per ragazze rivoluzionarie. Perché il femminismo ci rende felici. Milano: Rizzoli.
Faloppa, Federico. 2017. PC or not PC? Some reflections upon political correctness and its influence on the Italian language. In Guido Bonsaver, Alessandro Carlucci & Matthew Reza (a cura di), Italy and the USA: Cultural change through language and narrative. Cambridge: Legenda.
Faloppa, Federico. 2020. #Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole. Torino: UTET.
Gasparrini, Lorenzo. 2019. Non sono sessista ma… Il sessismo nel linguaggio contemporaneo. Roma: Tlon.
Gheno, Vera. 2020. Nomi professionali femminili: singolarità o normalità? In Lavoro diritti Europa. Rivista nuova di Diritto del Lavoro, 2 luglio.
Guerra, Jennifer. 2020. Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà. Roma: Tlon.
Telve, Stefano. 2011. Maschile e femminile dei nomi di professione [prontuario]. In Enciclopedia dell’italiano. Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana G. Treccani.
10 Commenti
Tiziana Salafia 29 Luglio, 2020
Molto esaustivo. Davvero bello!
Vera Gheno 01 Agosto, 2020
Grazie, davvero!
Laura Turri 03 Agosto, 2020
Ho scelto di essere la Presidente. Presidentessa non mi rappresentava.
Cosetta 03 Settembre, 2022
Sull’uso de “la presidente” posso essere d’accordo, ma non capisco cosa significhi essere o meno rappresentati dall’una o dall’altra forma. Si avvicina troppo alla posizione di quelle che vogliono essere avvocato o direttore, parole che non suonano affatto come di genere comune.
Roberta 29 Novembre, 2023
Grazie
Annalisa 27 Novembre, 2023
Molto interessante ed esaustivo, in tutte le sue parti di approfondimento, Grazie infinite
Patrizia Ottone 05 Dicembre, 2023
Non comprendo perché la reazione avversa all’uso dei nomi femminili professionali sia “tendenza connaturata all’essere umano: da un certo punto in poi delle loro vite, le persone diventano più o meno esplicitamente ‘renitenti al cambiamento”. Si intende che ad una certa età si è più resistenti al cambiamento linguistico? Si tratterebbe di una resistenza di tipo generazionale? Non ne sarei così sicura, e non capisco su quali basi lo si affermi. Grazie.
Vera Gheno 05 Gennaio, 2024
Gentile Patrizia, c’è una tendenza generale al conservatorismo, con il passare degli anni, nelle persone. Questo non vuol dire che lo siano tutte invariabilmente, ma che uno degli atteggiamenti ricorrenti è quello di richiamare una mitica “età dell’oro” situata, di solito, “ai miei tempi”. Non è un’affermazione mia; si basa sull’osservazione di molti studiosi e molte studiose prima di me, sia in ambito sociologico, sia in quello psicologico, sia in quello linguistico.
SIMONA 27 Febbraio, 2024
Molto interessante, grazie
Chiara 25 Maggio, 2024
Esaustivo ed interessante
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