Maria Napoli
Università degli Studi del Piemonte Orientale
Qualsiasi linguista a cui venisse posta questa domanda – “perché le lingue cambiano?” – vi direbbe che rispondere è facilissimo e insieme difficilissimo. È facilissimo perché esiste una prima risposta quasi ovvia ed intuitiva: le lingue parlate nel presente e nel passato appartengono all’uomo, sono legate alla sua attività, ed essendo il cambiamento connaturato a tutte le cose umane, anche le lingue di conseguenza sono soggette a non rimanere sempre uguali rispetto ai suoni di cui si servono, alle parole che ne formano il lessico, alle strutture che ne costituiscono la grammatica. Al tempo stesso, dire perché le lingue cambino è difficilissimo quando consideriamo tutte le cause che sono all’origine di questo fenomeno e dei suoi effetti: non solo tali cause sono potenzialmente molteplici, non solo coinvolgono anche fattori sociali, culturali, storici, geografici, ma talvolta sono mescolate insieme in modo così complesso e inestricabile che è impossibile comprendere perché sia avvenuto un mutamento specifico.
Le lingue cambiano, dunque, perché il cambiamento è nella loro natura, anche se questo non vuol dire che non possano invece rimanere stabili, almeno in alcuni tratti, per molto tempo. Potremmo dire, però, che le lingue oltre a cambiare invecchino, così come invecchia una moda o un oggetto consumato dall’uso che se ne fa? Certamente sì, seppure in un senso molto specifico: noi, in quanto esseri umani, invecchiamo e il nostro invecchiamento ha delle ricadute oggettive (le rughe, i capelli che si imbiancano, doloretti qua e là: non occorreranno troppi esempi!), mentre le lingue invecchiano o, meglio, si usurano dal punto di vista soggettivo dei parlanti, che possono trovare superato, obsoleto o inefficace un certo modo di esprimersi e sentono quindi l’esigenza di aggiornarlo (chi, ad esempio, oggi userebbe ancella al posto di badante?).
Quindi il mutamento di una lingua è certamente legato, sotto diversi aspetti, ai suoi parlanti. Non è un caso che quando una comunità vive una fase di divisione o di crisi a livello politico o culturale, spesso la sua lingua subisce dei cambiamenti che in un certo senso riflettono l’instabilità dei legami sociali e che possono essere persino radicali: il processo di cambiamento che a partire dal latino ha portato alla formazione delle lingue romanze (per citarne alcune: italiano, spagnolo, rumeno) ha coinciso con la disgregazione dell’impero romano.
Una lingua può cambiare, specie sul piano del lessico, perché la sua comunità subisce l’influsso di un’altra comunità, in genere per il prestigio associato a questa e quindi alla sua lingua: è il motivo per cui i prestiti da una certa varietà linguistica circolano e sono talvolta stabilmente accolti in un’altra, come in italiano è accaduto con varie parole dal francese (quali beige o equipaggio, da équipage), e oggi dall’inglese.
Rispetto al mutare delle lingue, però, ciò che è rilevante non è solo il concetto di comunità, ma anche il ruolo di singoli gruppi o persino di singoli parlanti, i quali, talvolta, sono spinti ad innovare il proprio modo di esprimersi, con un grado maggiore o minore di consapevolezza, per diverse ragioni, tra cui: l’esigenza di raggiungere un certo effetto comunicativo, essere incisivi, stare al passo coi tempi, colpire l’interlocutore, farsi notare, farsi capire meglio o, eventualmente, non farsi capire affatto. Le innovazioni individuali possono trasformarsi in mutamenti se sono accolte per imitazione in modo stabile da tutta la comunità dei parlanti.
Si pensi a certe trovate linguistiche di professionisti della scrittura o della cultura che hanno finito per diffondersi: ad esempio, si ritiene che la fortuna del prefisso super in diverse lingue europee, dove è utilizzato per esprimere intensificazione o eccesso davanti a nomi e aggettivi (come supersvendita, supernutrizione, superinteressante ecc.), sia dovuta all’introduzione della forma che in italiano è stata resa come superuomo (a partire dal tedesco Übermensch, creazione del filosofo Friedrich Nietzsche). Meno successo ha avuto invece, almeno per il momento, l’invenzione petaloso, dovuta ad un bambino di una scuola elementare in provincia di Ferrara che nel 2016 creò questo aggettivo per descrivere un fiore (come peraltro aveva fatto qualche anno prima di lui Michele Serra in un articolo su Panorama), attirando l’attenzione della sua maestra, che scrisse all’Accademia della Crusca per segnalare la neoformazione.
Possiamo prevedere se un giorno petaloso si diffonderà ed entrerà a far parte di tutti i nostri dizionari? Impossibile dirlo con certezza, perché è impossibile predire in che direzione una lingua muterà, non solo per quanto riguarda il destino di parole specifiche, ma, ancora di più, i mutamenti nella sua grammatica.
Questo non vuol dire, però, che il mutamento linguistico avvenga in modo caotico. Infatti, le lingue cambiano seguendo percorsi ricorrenti: ad esempio, parole che inizialmente indicano parti del corpo spesso assumono valore di avverbi o preposizioni di spazio e tempo, come l’inglese back, che dal significato di ‘schiena’ passa a voler dire ‘dietro’.
Anche l’esistenza di percorsi comuni del mutamento può dirci qualcosa di significativo sul perché le lingue cambiano. L’uso del linguaggio obbedisce infatti a meccanismi cognitivi condivisi, che possono aver un effetto anche sul mutare delle strutture linguistiche. Uno di questi meccanismi, che agisce frequentemente, è quello per cui certi elementi della lingua tendono a passare da un valore concreto ad un valore più astratto, come per il caso di back. Difficilmente, poi, un elemento linguistico o una costruzione si fissano rigidamente in unico significato: ne avranno certamente uno di base ma, nel contesto opportuno, potranno dare origine ad una nuova interpretazione, che spesso è motivo di un cambiamento, così come la stessa nuvola, guardata da due occhi diversi, può rimandare per la sua forma ad un oggetto o ad un altro.
Il tempo futuro dell’italiano, il tipo dirò, si è formato a partire da una costruzione latina formata dall’infinito di un verbo e da ‘avere’ (dicere habeo ‘ho da dire, devo dire’ diventa in italiano dicèr ào, poi dicerào, quindi dicerò, attestato ancora in Dante, infine dirò). Perché avviene questo mutamento? Questa costruzione era usata in latino per esprimere un’idea di dovere, ma ad un certo punto inizia ad acquisire anche un valore di predizione, per cui nel contesto appropriato la cosa che uno deve fare viene interpretata come la cosa che uno farà. Questo tipo di costruzione, innovativa, sostituirà gradualmente la forma più antica di futuro latino usata fino ad allora.
Ecco che nelle lingue una forma può sostituirsi ad un’altra per svariate ragioni, legate all’aspetto della comunicazione o all’impatto della lingua sulla società. Se oggi alcuni di noi preferiscono dire ministra o avvocata è perché ultimamente queste forme hanno cominciato a circolare per effetto di una discussione molto vivace, che ha coinvolto linguisti e politici, sul presunto maschilismo della lingua italiana, accusata di essere mancante dei corrispettivi femminili di certi nomi di professione per i quali esiste invece la forma maschile. Ministra e avvocata si imporranno e tutti, proprio tutti, nel futuro, useremo tali forme? Impossibile a dirsi anche in questo caso, com’era impossibile prevedere che i pronomi soggetto lui/lei, stigmatizzati come errori dai grammatici del Cinquecento, che prescrivevano di usare egli/ella, sarebbero diventati così diffusi che persino un tale Alessandro Manzoni li utilizzò ampiamente nella riscrittura del suo romanzo I Promessi Sposi, finché non vennero accolti dalle grammatiche. Dunque, anche ciò che è percepito come un errore può, nel cambiamento linguistico, diventare una regola.
Per concludere, se nel bel mezzo di una conversazione venisse fuori la domanda perché le lingue cambiano?, e vorreste dare una risposta ad effetto, rispondete pure che lingue cambiano perché sono usate. Ma non stupitevi se questa risposta sarà di quelle che generano a loro volta infinite domande.
Per approfondire
Grandi, Nicola. 2017. Errori oggi, regole domani. Come gli errori cambiano la lingua. In Francesca Masini & Nicola Grandi (a cura di), Tutto ciò che hai sempre voluto sapere sul linguaggio e sulle lingue, 101-104. Bologna: Caissa Italia.
Magni, Elisabetta. 2017. Come cambiano le lingue? O meglio: chi cambia le lingue e perché? In Francesca Masini & Nicola Grandi (a cura di), Tutto ciò che hai sempre voluto sapere sul linguaggio e sulle lingue, 105-108. Bologna: Caissa Italia.
Napoli, Maria. 2015. Regole ed eccezioni nel mutamento linguistico. In Nicola Grandi (a cura di), La grammatica e l’errore. Le lingue naturali tra regole, loro violazioni ed eccezioni, 119-136. Bologna: Bononia University Press.
Renzi, Lorenzo. 2012. Come cambia la lingua. L’italiano in movimento. Bologna: il Mulino.
3 Commenti
Roberta 18 Luglio, 2020
Di tutto il bellissimo articolo, quel “presunto maschilismo” proprio non è accettabile.
A meno che non scriviate un altro articolo che dimostra come la lingua italiana sia perfettamente bilanciata tra maschile e femminile, e che quindi il maschilismo sia percepito ma inesistente.
Maria Napoli 18 Luglio, 2020
Grazie del commento, che mi permette di intervenire su un punto forse non chiaro. L’aggettivo “presunto” si riferisce al dibattito in corso e al fatto che non tutti condividono l’dea che sia la lingua a creare le discriminazioni, ma ritengono piuttosto che la lingua le rifletta, come osserva il noto sociolinguista Gaetano Berruto. Si potrebbe dire che la lingua italiana non è maschilista, perché potenzialmente ha la capacità di flettere i nomi al maschile e al femminile, ma che semmai può essere maschilista l’impiego (o non impiego!) che si è fatto di questa potenzialità, escludendo dall’uso certi nomi femminili.
Roberta Bertoli 26 Luglio, 2020
Era decisamente non chiaro, come punto.
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