Nicola Grandi
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
A volte mi chiedo cosa abbiamo fatto di male, noi linguisti. Non capita mai, neppure per caso, che una questione di carattere linguistico venga trattata dagli organi di stampa in modo corretto e competente, magari interpellando chi di lingua si occupa quotidianamente. Da qualche giorno non si fa che parlare di una proposta di legge sulle Disposizioni per la tutela e la promozione della lingua italiana e istituzione del Consiglio superiore della lingua italiana. Si tratta di un testo articolato (8 pagine, tra testo della proposta di legge vera e propria e introduzione; per altro il testo era già stato presentato, in una versione praticamente identica, il 31 maggio 2018!), che tocca ambiti diversi: didattica dell’italiano come L1 e come L2, diffusione dell’italiano all’estero, politica e pianificazione linguistica, ecc. Insomma tutti temi centrali nell’attività di ricerca di noi linguisti. E soprattutto temi che offrirebbero moltissimi spunti di riflessione e di confronto. Eppure l’unica cosa che sembra aver attirato l’attenzione degli organi di stampa è l’ultimo articolo:
La violazione degli obblighi di cui alla presente legge comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 5.000 a 100.000 euro.
E solo questo dettaglio è stato rilanciato, almeno nei titoli:
Repubblica: Lingua italiana, FdI presenta una proposta di legge per multare chi si macchierà di forestierismo
Il Sole 24 ore: Proposta FdI: multe fino a 100mila euro contro chi usa le parole inglesi nella Pa. Accademia della Crusca: ridicolo
La Stampa: Rampelli (FdI) vuole una legge per punire chi non usa l’italiano: multe fino a 100mila euro
Confesso che quando, un paio di giorni fa, mi sono imbattuto per la prima volta in questi titoli, la reazione che ho avuto non è stata molto diversa da quella del rag. Ugo Fantozzi dopo la proiezione della Corazzata Pötemkin. Poi mi son detto: e se fosse vero? Allora ho iniziato a fare due calcoli sui forestierismi usati nell’ultima giornata, li ho moltiplicati per 5.000 euro (il minimo della pena, sono pur sempre incensurato), ho aperto il mio estratto conto e ho realizzato, tragicamente, di essere sull’orlo della bancarotta. Mi è salita l’ansia. Ho subito iniziato a pensare a un luogo sicuro in cui nascondermi per sfuggire alla polizia linguistica che immaginavo già sulle mie tracce. Ho detto a mia moglie che forse avremmo dovuto vendere la casa che ancora dobbiamo finire di pagare. Ho avvisato i miei figli che non sarei più stato in grado di pagar loro gli studi. Mi è venuta la tachicardia, mi si è azzerata la salivazione. Stavo malissimo. Alla fine mi sono scaricato il testo della proposta di legge e ho compreso che, come accade spesso, i giornali non ci avevano capito nulla o quasi. La mia ansia è svanita, il battito è tornato normale, ma il danno, a livello di comunicazione, era ormai fatto: ho aperto Facebook e la mia bacheca era inondata di post sulle sanzioni contro i forestierismi con commenti del tipo ‘era ora!’, ‘basta con questa invasione!’; ho acceso la radio su una stazione a caso e un professore in pensione stava pontificando sul degrado della nostra lingua; ho cambiato stazione e un pubblicitario si chiedeva sconsolato cosa avrebbe dovuto dire al posto di marketing…
Da nessuna parte ho trovato commenti davvero informati e letture ‘laiche’ del testo. Eppure il testo merita di essere commentato per quello che dice e per i temi che pone. Proviamo a farlo, molto sinteticamente, almeno qui.
Occorre premettere fin da subito che alcuni passaggi della proposta di legge rivelano una conoscenza per così dire precaria e a tratti molto ‘ingenua’ degli argomenti trattati. Ad esempio, nella frase di esordio della sezione introduttiva si scrive che “la lingua italiana rappresenta l’identità della nostra nazione, il nostro elemento unificante e il nostro patrimonio immateriale più antico”: a voler essere pignoli, si potrebbe obiettare che la lingua italiana così come viene poi intesa nel testo della proposta di legge non è di certo il nostro patrimonio immateriale più antico, spettando questo primato piuttosto ai dialetti italiani. A pag. 2 invece si afferma che “In Italia […] non esiste alcuna politica linguistica, anzi, il linguaggio della politica, nel nuovo millennio, si è anglicizzato sempre di più introducendo le parole inglesi nelle leggi, nelle istituzioni e nel cuore dello Stato”. Ora, è evidente che la politica linguistica e la lingua della politica sono due cose assai differenti, mentre il connettivo anzi sembra quasi porle sullo stesso piano. Affermare, poi, che in Italia non esiste alcuna politica linguistica è ovviamente falso. Esiste, ad esempio, una legge a tutela delle minoranze linguistiche che è a tutti gli effetti politica linguistica. In ogni caso, la prima reazione alla lettura di questa affermazione è “da che pulpito!”. Mi permetto di segnalare infatti che la comunità scientifica ha prodotto una quantità innumerevole di proposte di buona politica linguistica, riferite tanto al livello locale, quanto a quello nazionale; e queste proposte sono fondate su una letteratura scientifica molto ampia (nessuno si offenderà se mi limito, qui, a citare solo i lavori di due amici che ci hanno lasciato troppo presto: Gabriele Iannàccaro e Fiorenzo Toso). Resta il problema di cui sopra: finché non si riconoscerà che in tema di lingua esistono professionalità specifiche e finché i linguisti non verranno coinvolti nelle attività della politica che riguardano le lingue si avrà sempre la percezione che questo ambito sia un terreno incolto. Detta senza mezzi termini: scrivere che “in Italia […] non esiste alcuna politica linguistica” è un’inconsapevole ammissione di colpa da parte della politica stessa: la comunità scientifica attende un cenno da decenni… Siamo qui e non vediamo l’ora di collaborare!
Sorvolo sul “patrimonio idiomatico” citato a pag. 3 per soffermarmi sulle due questioni di sostanza più importanti che emergono dalla proposta di legge.
La prima riguarda un evergreen (e lo scrivo apposta in inglese!): la presunta invasione dell’inglese e il rischio che, a causa di questo fenomeno, starebbe correndo la nostra lingua: “Questa anglicizzazione ossessiva rischia, però, nel lungo termine, di portare a un collasso dell’uso della lingua italiana, fino alla sua progressiva scomparsa”. Quindi la lingua italiana si avvia all’estinzione a vantaggio dell’inglese. Ora, di questo tema ci siamo già occupati in modo semiserio qui, ma vale la pena ripetere, per l’ennesima volta, che mescolare occasionalmente due lingue (come nella frase mi sono fatto un drink al bar dopo lo sport) e sostituire una lingua a un’altra sono cose assai diverse e che tra i due fenomeni non c’è alcun nesso causale. Il contatto tra le lingue è un fenomeno naturale, anzi è forse il fenomeno più naturale nella vita di una lingua. Di questo si era accorto già Niccolò Machiavelli nel Dialogo o Discorso intorno alla nostra lingua, scritto circa 500 anni or sono:
Io voglio che tu consideri come le lingue non possono esser semplici, ma conviene che sieno miste con l’altre lingue. Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, ed è sì potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro; perché quello ch’ella reca da altri, lo tira a sé in modo che par suo.
Nell’evoluzione delle lingue, i processi più ‘strani’ (ad esempio fenomeni di complessificazione abbastanza estrema) si osservano nelle situazioni di isolamento, quasi a ribadire che l’interferenza è del tutto fisiologica. La presenza di anglismi in italiano non è la premessa per l’abbandono dell’italiano, ma è solo una delle vie che la lingua può percorrere per mutare e rinnovarsi. Tuttavia occorre rimarcare che quando due lingue si mescolano la situazione non è mai simmetrica: c’è una lingua che dà e una lingua che prende. D’altra parte si parla di prestito, non di baratto! Come scrivevo nell’articolo citato in precedenza, “Nel caso in questione, se l’italiano attinge a piene mani dall’inglese, l’inglese non ricambia affatto e prende in prestito dall’italiano pochissime parole (prevalentemente legate agli ambiti della moda e del cibo). Il rapporto tra le due lingue è perciò gerarchico e indica una certa ‘sudditanza’ dell’italiano rispetto all’inglese”. Questo è un tema su cui sarebbe utile avviare una riflessione; e sarebbe interessante conoscere l’opinione di chi ha e ha avuto negli anni responsabilità politiche e di governo: per quale ragione l’italiano è oggi percepito come una lingua meno attrattiva (stavo per scrivere appealing) dell’inglese? Il problema, qui, non è tanto difendere l’italiano, quanto, piuttosto, rafforzare l’immagine e la credibilità dell’Italia…
Detto questo, mi sento di rassicurare tutti e tutte: tra 80 anni l’italiano esisterà ancora. Certo, sarà diverso da quello di oggi. Ma non sarà sostituito dall’inglese.
La seconda questione concerne invece l’italiano a scuola (e all’università). La proposta di legge, infatti, si propone di promuovere “l’uso corretto della lingua italiana e della sua pronunzia nelle scuole”. La questione di fondo, qui, è intendersi su quale sia la lingua ‘corretta’. Quella sancita dallo standard normativo post-unitario, che non si è mai tradotto in una lingua davvero di massa; o quella dell’uso che si discosta dalla norma ma è la varietà che davvero accomuna la stragrande maggioranza dei e delle parlanti (al netto dell’inevitabile variazione regionale)? Quale lingua va promossa nelle scuole? Su quale lingua deve fondarsi la riflessione metalinguistica? L’idea che si coglie tra le righe è che il focus sia su una lingua ‘fossilizzata’ e pura, che si auspica immutabile e capace di resistere alla contaminazione dell’inglese, che “la mortifica e la immiserisce” (pag. 2).
Questa idea contraddice quanto è espresso nelle Indicazioni nazionali, che invece auspicano una riflessione fondata sulla pluralità dei codici linguistici presenti in una classe. Ed è più o meno l’opposto dei principi cardine dell’educazione linguistica democratica, riassunti nelle Dieci Tesi del GISCEL:
Se riflessione sui fatti linguistici deve esserci nella scuola, essa deve tener conto anche […] dei fenomeni di collegamento tra le conoscenze e abitudini linguistiche e la stratificazione socioculturale ed economico-geografica della popolazione.
La sollecitazione delle capacità linguistiche deve partire dall’individuazione del retroterra linguistico-culturale personale, familiare, ambientale dell’allievo, non per fissarlo e inchiodarlo a questo retroterra, ma, al contrario, per arricchire il patrimonio linguistico dell’allievo attraverso aggiunte e ampliamenti che, per essere efficaci, devono essere studiatamente graduali.
La scoperta della diversità dei retroterra linguistici individuali tra gli allievi dello stesso gruppo è il punto di partenza di ripetute e sempre più approfondite esperienze ed esplorazioni della varietà spaziale e temporale, geografica, sociale, storica, che caratterizza il patrimonio linguistico dei componenti di una stessa società: imparare a capire e apprezzare tale varietà è il primo passo per imparare a viverci in mezzo senza esserne succubi e senza calpestarla.
In sostanza, è dalla consapevolezza dell’incontro e del confronto tra lingue diverse e varietà diverse della stessa lingua, che si manifesta sia in fenomeni di mescolanza, sia in situazioni di plurilinguismo, che si forma una coscienza linguistica più matura e consapevole. Ed è in questo modo che la scuola e, per suo tramite, lo Stato diventano davvero inclusivi.
In conclusione, mi pare che spesso ci si aspetti dalle lingue più di ciò che esse possono dare: le lingue tendono a recepire i cambiamenti sociali, ma più difficilmente li innescano. In altre parole è più facile che la lingua cambi perché è cambiata la società che il contrario: sperare di cambiare la società attraverso la lingua è, sovente, velleitario. Dietro questa attenzione talora quasi morbosa che i media e i social network dedicano ai fatti di lingua c’è però un aspetto che preoccupa un po’: stiamo assistendo a una certa esaltazione simbolica della lingua e ad una certa esasperazione del suo valore ideologico e identitario. Si tratta di una situazione ovviamente legittima, ma che nasconde qualche rischio. La lingua è senza dubbio parte di un patrimonio culturale, che è però collettivo e, di conseguenza, vario (come varie sono le tradizioni gastronomiche, le tecniche di costruzione degli edifici, le varie forme del folklore, ecc.). Se si perde di vista questo presupposto si rischia davvero di mettere in campo azioni che vanno nella direzione contraria rispetto alla necessità di conservare questo patrimonio immateriale in modo adeguato, cioè valorizzandone la ricchezza e la varietà.
5 Commenti
Mara Spiezia 03 Aprile, 2023
Tutto giustissimo, ma resta il fatto che mentre esistono casi in cui si adopera una parola inglese invece di “inventarne” una italiana che ancora non esiste, spesso e volentieri si sentono espressioni inglesi che hanno il loro perfetto corrispondente italiano. Tanto per fare un esempio, perché il telecronista di una partita di calcio si sente in dovere di dire “votate l’MVP” invece di dire semplicemente “votate il miglior giocatore” ? Evidentemente pensa di fare un figurone, e non per una questione di “pigrizia”, ma per quella che è una vera e propria sudditanza culturale. Tutto ciò che è anglosassone è meglio di ciò che è italiano. Non trovo niente di sbagliato, pertanto, che nelle leggi e nei rapporti con la pubblica amministrazione si vieti l’uso di vocaboli inglesi.
Tra l’altro, la cosa buffa è che una buona conoscenza dell’inglese è tuttora appannaggio di una ristretta minoranza di italiani!
Giuseppe Giuttari 09 Aprile, 2023
Questo articolo mi è stato segnalato da una sua studentessa. La ringranzio per averlo scritto e pubblicato; l’ho trovato semplicemente illuminante. Come direbbero i ragazzi d’oggi (per me che oramai sono diversamente giovane), “top”
Federica 05 Aprile, 2023
Sono abbastanza d’accordo con le sue riflessioni ma penso che l’articolo sarebbe stato più poignant ( 😉 ) se si fossero incluse riflessioni sulle conseguenze che questa norma avrà o non avrà sulla vita reale di tutti i giorni. Esempio: ho due lauree in lingue e ma i miei genitori (nati negli anni ’60) hanno solo la licenza media. Capita spesso che mi chiamino dalla posta perché non riescono a completare un’operazione perché ci sono dei termini in inglese, oppure che chiedano il mio aiuto per scaricare un’app dato che sempre più spesso anche su app sviluppate in Italia presentano termini in inglese.
Passi l’uso dell’inglese ad esempio negli slogan pubblicitari, passino le canzoni di thasup dove ci sono più termini inglesi che italiani (ovviamente, visto che teoricamente è arte) ma nella pubblica amministrazione ritengo che lo stato debba mettere in grado tutti di eseguire le operazioni in autonomia. Perché mia mamma vorrebbe anche seguire un corso di inglese ma non può permetterselo. Quindi la soluzione qual è?
Il discorso è complesso e la politica non aiuta strumentalizzando queste questioni, e chi le sciorina dovrebbe avere in mente l’interesse degli italiani tutti, in primis.
Giorgio Casacchia 07 Aprile, 2023
Caro collega (permettimi il termine perché faccio il filologo, sia pure del cinese) hai ovviamente ragione su tutto. Solo, farei notare che gli anglismi sono diventati di recente a un tempo sia prestiti di necessità (quando in italiano non c’è un termine corrispondente, tipo boomerang o samurai) perché l’italiano ha cessato quasi del tutto di produrre neologismi, sia prestiti di lusso (per eleganza, come mia nonna che a metà del secolo scorso diceva cabbarè (fr. cabaret) invece di vassoio o paltò (fr. Paletot) invece di cappotto, lampi d’eleganza nel romanesco. Dunque sono particolarmente invadenti. Non solo, ma anche prepotenti, la modalità del loro ingresso in italiano scaccia le parole indigene, anche se migliori (previdenza sociale era certamente meglio di welfare, p.es.). E poi, che inglese si prende a prestito? Quello di Dickens o Joice,per dire? Non mi pare,piuttosto il globlish, minestrone di sigle, parole portmanteau, trovate spiritose, incapace di fare periodi di più di pihe parole. Come non vedere alla radice del fenomeno l’appiattimento culturale, la gergalizzazione, l ‘indidualismo, la brandizzazione neoliberali?
Giuseppe Giuttari 09 Aprile, 2023
Questo articolo mi è stato segnalato da una sua studentessa. La ringranzio per averlo scritto e pubblicato; l’ho trovato semplicemente illuminante. Come direbbero i ragazzi d’oggi (per me che oramai sono diversamente giovane), “top”
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