Serena Corazza e Valentina Foa
Ex professore a contratto presso l’Università degli Studi di Trieste / Psicologa e libera professionista
Che cosa significa essere bilingui italiano / LIS, ovvero conoscere e usare sia la lingua italiana che la lingua dei segni italiana nella quotidianità delle persone sorde italiane? La risposta arriva da due testimonianze diverse ma con un filo conduttore comune, ovvero: come capire e farsi capire da altre persone, all’interno di questo bilinguismo? (o in una situazione di bilinguismo?)
Serena Corazza, una delle pioniere della ricerca sulla LIS, ci narra la progressiva presa di coscienza del suo bilinguismo (anzi multilinguismo) cominciato fin dalla nascita, in quanto persona sorda in una famiglia sorda.
Valentina Foa, psicologa, nata sorda in una famiglia di udenti, ci racconta la sua scoperta della LIS e della necessità di impararla accanto all’italiano, e infine la scelta, maturata negli anni, di diventare bilingue.
Attraverso le loro narrazioni, Serena e Valentina provano ad andare oltre il riconoscimento formale e legislativo della LIS, la quale esisteva già nella loro vita, e puntano l’attenzione sulla continua ricerca delle diverse strategie comunicative attraverso cui capire le altre persone e farsi capire da loro, oscillando tra una lingua e un’altra. Perché, ancora oggi, non basta essere consapevoli di per sé ma occorre la consapevolezza anche e soprattutto collettiva, da parte di tutti.
Una consapevolezza che, scientificamente parlando, possiamo collocare all’inizio degli anni ’80: in quegli anni si iniziava ad analizzare la LIS – che all’epoca non aveva ancora questo nome, ma esisteva da sempre – a livello linguistico. Nel frattempo, i segni si vedevano soprattutto nei circoli e nei luoghi frequentati da sordi e nelle scuole speciali, specialmente fuori dalle classi a causa della famosa risoluzione del congresso di Milano del 1880 che aveva bandito le lingue dei segni dall’insegnamento e dall’educazione delle persone sorde. Timidamente, per merito di incontri scientifici, simposi, ricerche, venne restituita alla LIS la sua storia, grazie alla scoperta che essa esisteva già dalla notte dei tempi, e la sua dignità in quanto lingua vera e propria. E, finalmente, quasi quarant’anni dopo, è arrivato il giorno che diventerà storia per l’Italia: il 19 maggio 2021 “la Repubblica riconosce, promuove e tutela la lingua dei segni italiana (LIS)”.
“Quando la LIS non sapeva di esistere: la mia progressiva presa di coscienza tra segni e parole”
Di Serena Corazza, ex professoressa a contratto presso l’Università degli Studi di Trieste, Dipartimento di Scienze del Linguaggio, dell’Interpretazione e della Traduzione.
Questo testo è la traduzione-adattamento in italiano della versione originale in LIS, che potete vedere cliccando sul link in fondo
Io, sorda, oggi improvvisamente sento l’impulso di parlarvi di un periodo della mia vita nel quale non ero consapevole! Cosa significa non essere consapevole? Sono cresciuta in modo spensierato, bazzicando tranquillamente sia il mondo dei sordi che quello degli udenti.
Come comunicavo con loro? Con i sordi usavo di più il segnato, con gli udenti usavo di più il parlato, ma passavo da una modalità all’altra senza rendermene conto.
Per me era naturale fare così, così come erano naturali le difficoltà di comunicazione che c’erano: con i sordi la comunicazione in segni funzionava bene, ma con gli udenti potevano esserci dei problemi; eppure continuavo a essere distratta e a non capire il perché! Dall’altra parte, se gli udenti cercavano di parlare con i sordi, altre difficoltà!, e io continuavo a essere inconsapevole.
Poi ho cominciato a studiare, a fare ricerca, sono entrata al CNR e ho iniziato a fare molte scoperte: si trattava di due lingue ben distinte. La lingua dei segni è una lingua proprio come quelle parlate, ciascuna con le proprie regole: in questo senso non è diversa, ad esempio, dall’italiano, lo sloveno o l’inglese. Queste regole non si possono mescolare, non funziona, non va bene. Io ero stata inconsapevole di tutto ciò fino a quando non ho cominciato a studiare e a scoprire…che cosa? Che se i sordi provavano a entrare nel mondo degli udenti era spesso un fallimento, e il motivo è che non conoscevano bene l’italiano e gli udenti non li capivano e incontravano delle difficoltà; o viceversa gli udenti parlavano con i sordi, ma questi non riuscivano a seguire bene il labiale e di conseguenza a comprendere bene il contenuto. E io continuavo a non capire!
Come voi adesso, siete tutti consapevoli di quello che accade? Come risolvere la situazione da entrambe le parti? Essere inconsapevoli può essere piacevole ma non può durare per sempre. Bisogna attivarsi, cercare e diffondere le informazioni, spiegare che si tratta di due lingue distinte: da una parte, una lingua dei segni, la LIS, e dall’altra una lingua parlata, nel nostro caso l’italiano. Va spiegato bene. Ma come? Grazie allo studio e alla ricerca di informazioni ho progressivamente preso coscienza, e ora mi muovo in modo più consapevole tra un mondo linguistico e un altro. Posso spiegare e aiutare a risolvere, almeno in parte, le difficoltà di comunicazione. Spero di esserci riuscita, oggi, anche con voi!
“Quando il bilinguismo italiano / LIS non sapeva di esistere: la mia progressiva presa di coscienza tra segni e parole”
Di Valentina Foa, psicologa e libero professionista
“Non sento, leggo le labbra”: era questo il mio modus operandi, il mio biglietto da visita tirato fuori di fronte ai miei primi approcci con le persone udenti, bambini e adulti, incontrate lungo il mio cammino.
Nata sorda, andavo convincendomi che l’unico e forse esclusivo modo per captare le loro parole, le loro frasi era quello di vederle, ovvero usare gli occhi, perché qualunque suono mi era precluso. Tanta era la preoccupazione negli occhi dei miei genitori che si chiedevano in continuazione: “ma parlerà, prima o poi?”.
Mentre iniziavano gli studi sulla LIS, io continuavo a vivere nel mondo delle parole lette sulle labbra. La comunicazione intrisa di gesti, sguardi, espressioni facciali, disegni, scritte e parole scandite sulle labbra: quella c’era da sempre e, col tempo, assumeva forme e strategie sempre più raffinate. L’importante era che ci si capisse, con diverse forme, tutte appoggiate sulla lingua italiana. La lingua dei segni italiana non esisteva nel mio mondo comunicativo, non ancora.
Leggere il labiale, dunque, era il mio ‘parlare’ con il mondo circostante. Non avevo consapevolezza di quale lingua fosse quella lingua usata da me con gli altri, però capivo bene che cosa era che mancava effettivamente e che andava compensata con qualcosa altro, ogni volta: era ciò che oggi definirei semplicemente una serie di difficoltà comunicative (e linguistiche). Dovessi fare un elenco di esempi fallimentari (e qualche volta poi vincenti), diventerebbe difficile farlo in due righe perché facevano e fanno parte della mia quotidianità.
C’è tuttavia un episodio abbastanza rappresentativo, avvenuto quando avevo dieci anni circa. Ero nell’ufficio di mio padre e un impiegato mi salutò con un buongiorno letto sulle sue labbra, lo capii bene perché era anche molto intuibile, e sarebbe finita lì. Invece, lui volle continuare a interagire. Ricordo di aver provato un po’ di tensione, perché mi obbligava a stare sull’attenti, non potendo prevedere che cosa avrebbe voluto dirmi in seguito, e avevo già imparato che l’eventuale bisogno di chiedere a qualcuno di ripetere qualcosa per un po’ di volte probabilmente poteva risultare stressante per l’interlocutore, e di sicuro lo era per me. Inoltre, le sue labbra erano sottilissime e serrate, questo me lo ricordo bene.
“Me lo può ripetere, per favore?”, era questa la mia seconda carta da giocare, e la usavo spesso. Già si poteva supporre che il suo fosse un complimento riferito a qualcosa, complice la sua espressione facciale. L’uomo ripeteva comunque sempre la stessa frase quasi a oltranza, senza nessuna modifica né un aiutino, niente. Finalmente, quasi arrendevole, mi indicò il polso. E il mio sguardo finì sul mio orologio nuovo. Ecco che cosa voleva dirmi: “che bell’orologio che hai!”.
Mi fosse arrivata in forma scritta, l’avrei colta al volo, avendo io già una buona padronanza lessicale e semantica, e la parola “orologio” era presente già da molto tempo nel mio lessico mentale.
Perché, dunque, c’era questa difficoltà, e da dove arrivava? Col senno di poi, mancava completamente l’aggancio al contesto, non c’erano indizi né riferimenti alla situazione. Non bastava l’intuito, per me da sempre fondamentale: serviva esclusivamente la comprensione del parlato. E il mio sforzo era volto alla ricerca di diversi pezzi con cui completare la frase.
Così pensavo, sempre con un velo di speranza a posteriori, che sarebbe stato bello se tutto quel labiale che mi circondava si fosse prima o poi tramutato anche in forma scritta o almeno di facile visibilità e immediatezza da qualche parte, anche in aria davanti a miei occhi. È lì che una minima consapevolezza ha preso forma: c’era non solo il bisogno ma anche la voglia di capire, oltre che cercare di ‘parlare bene’, per me sinonimo di ‘farmi capire’. Era quella la mia normalità: mi servivano la lingua italiana e i miei occhi. Però non bastavano mai, solo che non capivo né il motivo né che cosa mi mancasse così tanto.
Non bastavano nemmeno alcuni gesti che già usavo in famiglia e in alcuni contesti extrafamiliari.
Intanto guardavo, anche fuori dalle mie mura, quel qualcosa che si vedeva già in TV e in giro, e in effetti nel decennio successivo la LIS trovò terreno fertile nelle ulteriori ricerche, nei convegni, e anche nei workshop di ricercatori sordi, e sorgevano anche corsi di formazione: quel qualcosa che per me era un gesticolare forbito, immediato, ma continuavo a cercare le labbra per capire, anche tra chi muoveva le mani. Non conoscevo quella cosa – forse un linguaggio particolare? Un insieme di mimica? – non sapevo nemmeno che cosa fosse, forse un semplice insieme di gesti inventati qua e là.
E pensavo che quel gesticolare esisteva solo tra sordi, quei sordi forse un po’ diversi da me, e in che cosa ancora non lo realizzavo.
Nella mia inconsapevolezza, mi sono avvicinata alla lingua dei segni italiana a vent’anni grazie ai contatti con alcune persone sorde incontrate in quel periodo. Per me era semplicemente un “modo di comunicare” come un altro, e lo trovavo naturale, immediato, sebbene non conoscessi i segni, per la maggior parte non intuitivi, visto che io vivevo di intuizione comunicativa. Erano quei tempi in cui cominciava a diffondersi la consapevolezza in chi la usava che la LIS avesse caratteristiche linguistiche proprie, ancora in via di definizione.
Come poteva essere una lingua, questa? Come poi sono arrivata a capire che lo è a tutti gli effetti?
Ragionavo in termini di strumenti finalizzati allo scopo comunicativo: potevo tranquillamente manipolare l’italiano scritto, certo non privo di errori di qualche tipo, ma faticavo in qualche modo a stare dentro all’italiano parlato in senso biunivoco: capire e parlare, ricevere e inviare. Spesso potevo benissimo parlare senza capire. Oppure capire bene ma non riuscire a non farmi capire.
Capire: il mio comprendere attraverso il labiale richiedeva comunque uno sforzo che poi diventava quasi una tranquilla abitudine, ma spesso dipendeva da come gli altri muovevano le labbra e dalle connotazioni ambientali in cui si trovavano gli interlocutori, per non citare tutti gli altri fattori concorrenti quali il numero delle persone con cui si interagisce, la luminosità sul volto dei parlanti, e così via.
Parlare: crescendo, ero via via sempre più consapevole del timbro della mia voce da sorda profonda che non potevo sentire ma soltanto percepire. Dovevo e devo tutt’ora prestare spesso attenzione alla modulazione della mia stessa voce affinché arrivi in qualche modo acusticamente comprensibile all’altro. Se arriva diventa una tranquilla passeggiata, altrimenti è come scalare una montagna, soprattutto in ambienti molto rumorosi o con persone non abituate alla mia voce. Nell’insieme, si trattava di adottare diverse e molteplici strategie comunicative.
È questa la mia consapevolezza nel mio uso della lingua italiana parlata, ulteriormente incrementata da quando la LIS è entrata nella mia vita.
Non posso parlare del mio percorso verso la consapevolezza senza menzionare periodi piuttosto significativi di crisi comunicativa, linguistica e identitaria.
Parallelamente ho scoperto di aver trovato un altro input linguistico che, per sua – e mia – natura è incredibilmente accessibile per i miei occhi, nelle sue due modalità bidirezionali: capire e parlare, anzi segnare.
Dunque, eccola la mia crisi interiore: come convivere con due lingue profondamente diverse tra di loro ma ugualmente indispensabili in base ai contesti in cui mi trovo?
Averne consapevolezza è anche farsi domande, guardarsi indietro e riflettere sul futuro. Informarsi e informare, per dare forma a quello che oggi definiamo bilinguismo: consapevolezza è dunque avere in mente che quando si comunica non si pensa solo a strumenti, a modi di comunicare più o meno efficaci, a strategie più o meno appropriate, a come capire e farsi capire, ma anche alle lingue stesse che si stanno usando nel comunicare con l’altro.
Per approfondire
Corazza, Serena. 1995. Storia della Lingua dei Segni nell’educazione dei sordi italiani. In Giulia Porcari Li Destri & Virginia Volterra (a cura di), Passato e Presente: uno sguardo sull’educazione dei sordi in Italia. 77-102. Napoli: Gnocchi.
Corazza, Serena. 2000. Aspetti morfofonologici dei verbi in LIS. In Laura Gran & Cynthia Jane Kellett Bidoli (a cura di), L’interpretazione nelle lingue dei segni: aspetti teorici e pratici della formazione. Università degli Studi di Trieste. Dipartimento di Scienze del Linguaggio dell’Interpretazione e della Traduzione. 19-28. Trieste: Edizioni Università di Trieste.
Corazza, Serena & Luigi Lerose. 2008. L’origine della Lingua dei Segni Italiana, variante triestina. In Bagnara Caterina, Serena Corazza, Sabina Fontana & Amir Zuccalà (a cura di), I segni parlano. Prospettive di ricerca sulla Lingua dei Segni Italiana. 132-139. Milano: Franco Angeli.
Foa, Valentina, Gabriele Gianfreda & Barbara Pennacchi. 2016. Aspetti psicologici e sociali del bilinguismo. In Marziale, Benedetta & Virginia Volterra (a cura di), Lingua dei segni, società, diritti. 71-110. Roma: Carocci.
Volterra, Virginia, Maria Roccaforte, Alessio Di Renzo & Sabina Fontana. 2019. Descrivere la lingua dei segni italiana. Una prospettiva cognitiva e sociosemiotica. Bologna: il Mulino.
Documentario “Segna con me”, disponibile all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=5HF1we5TJjk.
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