Riccardo Regis
Università di Torino
Quando ad aprile 2024 ricevo da un mittente a me ignoto, Francesca Pavone, una mail con l’oggetto “[TOPOLINO]: storia a fumetti in dialetto”, penso a un messaggio promozionale. Da appassionato lettore di fumetti disneyani, ricordavo che, nel lontano 1983, era uscita la traduzione latina di un episodio di ambientazione paperopolese (Donaldus Anas atque nox saraceni): date le difficoltà insite nella trasposizione da una lingua moderna a una lingua classica, è la mia prima reazione, perché stupirsi di una storia a fumetti in dialetto? Apro dunque, molto incuriosito, il messaggio di posta elettronica, scoprendo che non si tratta di una pubblicità, ma di una richiesta di collaborazione che la redazione di Topolino mi sta indirizzando. Detto molto in breve, l’idea è quella di avere più versioni di uno stesso numero di Topolino, con una storia tradotta in diversi dialetti e poi distribuita in modo puntuale nei vari territori, sfruttando il pretesto della Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali (che, istituita nel 2013 dall’Unione Nazionale Pro Loco d’Italia, si celebra il 17 gennaio). Qualora avessi accettato, il mio ruolo all’interno del progetto sarebbe stato quello di coordinatore: colui, insomma, che avrebbe dovuto rispondere delle scelte compiute, alcune delle quali – come vedremo – non facilissime. Senza nemmeno rifletterci, decido di offrire la mia disponibilità. Del resto, la passione per quel mondo mi aveva già indotto, un ventennio prima, a scrivere un articoletto sui meccanismi alla base dell’onomastica disneyana.
Durante la prima riunione convocata da Francesca Pavone (coordinatrice editoriale), a cui partecipano anche Davide Catenacci e Stefano Petruccelli (rispettivamente caporedattore e caposervizio della redazione del periodico), si pone subito la questione di quali dialetti selezionare. Allo scopo di guidare i miei interlocutori verso una scelta motivata e consapevole, propongo una rapida disamina sulle principali aree dialettali del nostro Paese, prendendo a modello la Carta dei dialetti d’Italia e i “cinque sistemi dell’italo-romanzo” di Giovan Battista Pellegrini. Parlo, in modo molto generico, dell’esistenza di cinque aree dialettali ben distinte: 1) quella settentrionale, con notevoli differenze fra 1a) la compagine “galloitalica” (comprendente il piemontese, il lombardo, l’emiliano-romagnolo e il ligure) e 1b) il veneto; 2) quella friulana; 3) quella toscana; 4) quella centro-meridionale, manifestante una rimarchevole diversità fra i dialetti delle aree 4a) mediana (Marche centrali, Umbria, Lazio fino alla linea Terracina-Frosinone), 4b) intermedia (meridione peninsulare fino a Cosenza esclusa, sul lato tirrenico, fino a Taranto inclusa, sul lato adriatico) e 4c) estrema (Calabria centro-meridionale, Salento, Sicilia); 5) quella sarda.
Il mio suggerimento iniziale consiste nel tralasciare i due “sistemi” che sono anche riconosciuti (dalla Legge Nazionale n. 482 del 15 dicembre 1999) come “minoranze linguistiche” e nello spostare l’attenzione sui restanti tre “sistemi”. Rispetto ai quali puntualizzo che sarebbe stato opportuno garantire la rappresentatività, all’interno di 1), di un dialetto galloitalico e del veneto; in seno a 4), almeno di una varietà meridionale intermedia e di una varietà meridionale estrema.
Alla riunione successiva, la redazione di Topolino mostra di avere maturato dei convincimenti molto chiari: il progetto avrebbe interessato tutte le regioni d’Italia, coinvolgendone, per iniziare, quattro. Preciso che l’adozione di una prospettiva regionale risponde a esigenze commerciali, ovvero alla necessità di mettere in vendita il numero speciale (cioè con la storia tradotta in dialetto) nelle edicole della regione amministrativa coinvolta. L’esperimento avrebbe riguardato la Lombardia, la Toscana, la Campania e la Sicilia, in ossequio a parte dei principi sopra illustrati, con la copertura rispettivamente di 1a), 3), 4b) e 4c). Sennonché subito si profila all’orizzonte il problema di quale varietà selezionare per ciascuno dei quattro contesti. E qui si rende inevitabile una digressione sul valore dei glottonimi (ovvero ‘nomi di lingua’), che spesso usiamo invocando un’arrischiata equipollenza fra denominazione dialettale e dimensione regionale-amministrativa. Molto schematicamente, è possibile distinguere fra:
- A) situazioni, piuttosto rare, in cui è invalsa l’abitudine di impiegare un glottonimo regionale per indicare la varietà del capoluogo. Un caso emblematico è quello del Piemonte, in cui dal Settecento si è affermato l’uso di piemontese per indicare, di fatto, la varietà torinese;
- B) situazioni, piuttosto comuni, in cui il glottonimo regionale è il frutto di un’astrazione del linguista. Si può certamente identificare un tipo dialettale lombardo, che possiede caratteristiche comuni alle tre aree del lombardo occidentale, orientale e alpino, ma che è del tutto arbitrario (oltreché storicamente immotivato) far coincidere con la varietà milanese;
- C) e situazioni, anch’esse non infrequenti, in cui il tipo dialettale regionale semplicemente non esiste. Non avrebbe alcun senso ricorrere all’etichetta di marchigiano, essendo le Marche attraversate da fenomeni che restituiscono una fisionomia linguistica tripartita, con l’attestazione di dialetti settentrionali (romagnoli) fino a Senigallia (AN), di dialetti mediani nel resto dell’Anconetano e nel Maceratese, di dialetti meridionali intermedi nella sezione più a sud.
Quelle descritte in A), B) e C) sono da considerarsi situazioni “paradigmatiche”, ma è bene tenere presente il fatto che non saranno per nulla inconsuete declinazioni intermedie: tra A) e C) esiste, in altre parole, un continuum, del quale mi sono limitato a evidenziare gli “addensamenti” più significativi.
Come agire, di fronte a un quadro tanto sfaccettato? Da parte mia, giunge la proposta di una soluzione forse debole, ma difficilmente attaccabile: quella di privilegiare sempre la varietà del capoluogo regionale, ovvero, se si vuole, l’applicazione forzosa di A) a tutti i contesti della Penisola. Per ricapitolare: il milanese per la Lombardia, il fiorentino per la Toscana, il napoletano per la Campania, il palermitano per la Sicilia. In realtà, il “principio della varietà del capoluogo” viene onorato soltanto in tre occasioni su quattro; l’eccezione concerne la Sicilia, per la quale la redazione dichiara di preferire Catania a Palermo. A imporsi è una ragione meramente editoriale: mi viene infatti spiegato che Catania costituisce, quanto a distribuzione e numero di “venduti” (come si dice in gergo), una piazza migliore di Palermo.
A me il compito di individuare i traduttori, rispetto ai quali ho da subito idee molto nette. Contatto perciò Vittorio Dell’Aquila per il milanese, Neri Binazzi per il fiorentino, Giovanni Abete per il napoletano, Salvatore Menza per il catanese. Da tutti ottengo immediatamente un’entusiastica adesione. Seguono varie riunioni per dibattere questioni non secondarie quali, per esempio, la resa grafica dei diversi dialetti. Nel frangente in cui ci troviamo a operare, la migliore delle grafie ipotizzabili dovrebbe rispondere a due criteri: essere, da un lato, (I) fruibile a chi sia scolarizzato nella lingua dominante, dall’altro, (II) ossequiosa della tradizione (ove esistente). Ciò che si trova sulle pagine delle edizioni speciali di Topolino risponde bene al criterio (I), nel senso che le grafie impiegate risultano di facile interpretazione per chi sia abituato a leggere e scrivere in italiano, ma talvolta anche al criterio (II). Dell’Aquila ha usato la grafia moderna del milanese, di comprensione più immediata per gli italofoni (criterio (I)), riservando la grafia classica, cosiddetta portiana (criterio (II)) ai soli personaggi di Paperon de’ Paperoni e Battista, allo scopo di esaltarne il milanese d’antan.
Abete, dal canto suo, si è affidato alla grafia tradizionale napoletana (criterio (II)), che, senza accorgimenti particolari, risulta pienamente adeguata alla competenza scrittoria di un italofono (criterio (I)).
Menza ha adottato una versione semplificata della grafia del Vocabolario siciliano, che poco si discosta da quella dell’italiano (criterio (I)), aggiungendo simboli speciali o diacritici solo laddove necessario.
Il più fortunato, da questo punto di vista, è stato Binazzi, dato lo strettissimo legame fra fiorentino e italiano. Andrà tuttavia segnalato che la grafia impiegata non dà conto di fenomeni “automatici” che l’avrebbero inutilmente appesantita, quali la gorgia (ovvero la spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche: dunque, si trova scritto sicuro, anche se si pronuncia sihuro) e la resa “strascicata” di ci e gi fra vocali (ovvero la deaffricazione delle affricate postalveolari sorda e sonora; dunque, alle grafie facile e stagione corrisponderanno realizzazioni effettive del tipo fascile e stajone – con j che vale il suono iniziale del francese jour): se vogliamo, un altro espediente per garantire il rispetto del criterio (I).
Ma come far arrivare ai lettori le ragioni delle nostre scelte? Suggerisco che, sui numeri speciali di Topolino, compaiano due paginette a firma del traduttore, che gli consentano di esplicitare i principi seguiti e fornire ragguagli di varia natura; mi rendo però conto di star sfondando una porta aperta, perché una soluzione di tal fatta è già stata prefigurata dalla redazione.
Allo scopo di fornire ai lettori un inquadramento generale sul concetto di dialetto, sui rapporti fra dialetto e lingua, ecc., è previsto che tanto i numeri “regionali” quanto il numero nazionale (in cui compare la versione originale, in italiano, della storia che è stata oggetto di traduzione) ospitino una chiacchierata fra il coordinatore e Francesca Agrati. Benché a nessuno manchi ormai una certa pratica nello svolgere opera di divulgazione, in questo caso l’esercizio si è rivelato più delicato del solito: nelle quattro introduzioni così come nell’intervista, la posta in gioco era infatti costituita dal rendere accessibili contenuti non semplici a un pubblico di lettori giovani e giovanissimi (ancorché supportati, nel loro compito di “decifrazione”, da genitori e nonni). Ci saremo riusciti?
CATANESE
FIORENTINO
NAPOLETANO
MILANESE
Per approfondire
Pellegrini, Giovan Battista. 1957. I cinque sistemi dell’italoromanzo, in Id., Saggi di linguistica italiana. Boringhieri: Torino: 55-87.
Pellegrini, Giovan Battista. 1977. Carta dei dialetti d’Italia. Pacini: Pisa.
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