Silvia Dal Negro
Libera Università di Bolzano
Uno degli ambiti linguistici sui quali i non specialisti chiedono spesso di avere voce in capitolo (anche alzandola, la voce!) è sicuramente la toponomastica. In realtà, con toponomastica si intendono almeno due cose abbastanza diverse: per la maggior parte dei linguisti, infatti, la toponomastica è innanzitutto lo studio dei nomi di luogo e della loro origine. Attraverso la ricerca toponomastica si cerca così di ricostruire la stratificazione storico-linguistica dei luoghi e delle popolazioni che li hanno vissuti e plasmati, fisicamente ma anche concettualmente e culturalmente, denominandoli. Un esempio di ciò sono i numerosi toponimi terminanti in –engo (uno per tutti: Vidalengo in provincia di Bergamo), così come i diversi Fara (ad esempio Fara Novarese) o Sala (fra gli altri, Sala Baganza nei pressi di Parma), tutte testimonianze di insediamenti longobardi in Italia. Esempi di altro tipo sono i cosiddetti fitotoponimi, cioè quei nomi di luogo che sono formati a partire da un nome indicante una specie vegetale e che si riferiscono alla presenza (spesso oggi non più riconoscibile) di boschi, brughiere, coltivazioni: si pensi a Rovereto in Trentino (letteralmente ‘bosco di roveri’), a Brugherio in Brianza (da brugo, ‘erica’), o ai numerosi Castagneto, Castagné, Castagnola, Casnedo e altri che rimandano alla coltivazione della castagna. D’altra parte con ‘toponomastica’ si può intendere più semplicemente l’insieme dei nomi di luogo presenti in un determinato territorio, disciplinati giuridicamente, e visibili su cartelli indicatori, carte geografiche, indirizzari, eccetera.
Per il cittadino comune la toponomastica intesa nel primo senso suscita, nel migliore dei casi, curiosità, nel secondo senso, invece, può facilmente trasformarsi in un teatro di scontri politici anche molto accesi. Questo succede perché le amministrazioni pubbliche (statali, regionali o comunali) registrano nei loro repertori toponomastici solo i nomi nelle lingue che, in un determinato luogo e in un determinato momento storico, sono ufficialmente riconosciute. La stessa cosa accade con i nomi di persona: sulla nostra carta d’identità, ad esempio, sono riportati solo nome e cognome ufficiali e non, ad esempio, i soprannomi o gli ipocoristici, cioè i nomignoli con i quali ci chiamano o chiamavano i nostri familiari o i nostri compagni di scuola. Questo significa però che la toponomastica, soprattutto nel suo aspetto più visibile che è quello dei cartelli stradali, diventa lo specchio della politica linguistica, se non della politica tout court, nazionale o locale che sia. Attraverso la toponomastica vengono stabiliti ed esibiti confini (dove credevamo non ce ne fossero), oppure ne vengono eliminati (dove invece credevamo che ce ne fossero).
Facciamo un esempio concreto di questa duplicità di prospettiva. Proprio sul confine tra le province di Bolzano e di Trento, e dunque su quello che possiamo definire un confine linguistico, oltre che amministrativo, si trova un paese di mezza montagna (parte del comune di Salorno) che, come tutte le località in Alto Adige, ha due nomi: Pochi in italiano e Buchholz in tedesco.
Ciò che è quantomeno curioso è che, mentre il nome tedesco è estremamente trasparente nel suo significato di ‘bosco di faggi’ (un po’ come il tristemente noto Buchenwald in Germania), il nome italiano a prima vista sembra non significare nulla di plausibile. In realtà, indagando un pochino, non è difficile riconoscere anche in questo nome la stessa origine di Buche ‘faggio’, ma nella sua forma tirolese, con assordamento della consonante iniziale che da b diventa p. Per cui, in un’ottica storico-linguistica l’origine del nome è comunque tedesca, seppure con differenze di tradizione: una ‘alta’, corrispondente allo standard (Buchenwald), e una ‘bassa’, locale e orale (Pochi). Nell’ottica della politica linguistica dell’Alto Adige i due nomi rimandano invece a due distinte comunità linguistiche, contigue ma parallele, quella tedesca e quella italiana. Si noti che la prima attestazione di Pochi è del 1817, precedente più di un secolo l’annessione del Tirolo meridionale all’Italia, e che persino Ettore Tolomei (fautore dell’italianizzazione dei toponimi tedeschi dell’Alto Adige) nel caso di Pochi riconobbe l’uso popolare della popolazione italofona (ma di fatto bilingue) che si era appropriata di un nome tedesco dialettale facendolo suo; venne così evitata la creazione ex novo di un toponimo italiano e questo tirolesismo divenne il nome italiano ufficiale della località. Così, scavando solo un po’ sotto la superficie, questo nome ci racconta molto di più delle apparenze, e cioè di un’epoca nella quale i confini erano più sfumati di oggi e il bilinguismo una realtà del parlare quotidiano e non un campo di battaglia istituzionale.
Ma torniamo ai cartelli indicatori di località, strade, piazze, quartieri, frazioni: in che senso questi possono darci informazioni sullo status delle lingue che sono presenti in un determinato territorio? Consideriamo anche che, diversamente dal paesaggio linguistico più in generale (ne abbiamo scritto qui, ndr), l’osservazione della toponomastica ci fornisce maggiori informazioni, sia rispetto alla politica linguistica (i cartelli sono creati e affissi da una pubblica amministrazione), sia rispetto ai valori e agli atteggiamenti linguistici di una comunità per il ruolo che i nomi propri hanno nella costruzione dell’identità individuale e collettiva.
Un cartello monolingue, come lo sono la maggior parte dei cartelli indicatori in Italia, non implica naturalmente che quella sia l’unica lingua usata in quella zona, ma l’unica ufficiale e, in teoria, l’unica nella quale i cittadini si riconoscono in quanto comunità linguistica. Nel momento in cui ciò non è più vero, o non lo è più per alcuni sottogruppi della popolazione, ecco che si registrano episodi di vandalismo con lo scopo di trasformare i nomi ufficiali in nomi in dialetto o in una lingua di minoranza non riconosciuta, come capitava di vedere in diverse zone dell’Italia settentrionale negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso. A questa fase più radicale ne è seguita una di (parziale) istituzionalizzazione per cui in molti comuni, ad esempio in provincia di Bergamo, oggi possiamo vedere cartelli con il nome della località in italiano e in dialetto. La scritta in dialetto compare però quasi sempre all’interno della cartellonistica a scopo turistico (dove si inseriscono ad esempio le informazioni sui gemellaggi o diciture come “comune termale”, e simili), di solito con scritta bianca su fondo marrone, e non nel cartello principale, con scritta nera su fondo bianco. L’osservatore attento potrà così dedurre che l’identità locale viene sì riconosciuta attraverso l’uso di una sorta di bilinguismo, ma al tempo stesso il ruolo del dialetto è relegato alla dimensione folkloristica.
Diverso è il caso dei nomi nelle lingue di minoranza che, seppure piccole e di scarsa diffusione, se riconosciute ufficialmente compaiono sui cartelli indicatori di località con gli stessi caratteri e la stessa dimensione della dicitura in italiano. Questo si può osservare percorrendo ad esempio la valle di Fassa in Trentino, dove ogni località è indicata da cartelli con nome in italiano e in ladino e dove entrambe le lingue godono della stessa dignità (almeno formalmente), sebbene l’italiano preceda. Lo stesso discorso vale ad esempio per Cortina d’Ampezzo, sede, con Milano, delle Olimpiadi invernali del 2026, e ufficialmente riconosciuta come parte dell’area linguistica del ladino dolomitico, motivo per cui sul cartello stradale troveremo anche la denominazione ladina Anpezo, con pari dignità tipografica rispetto al più noto nome italiano.
Chiudiamo questo breve excursus nella toponomastica con un cenno ad un caso apparentemente opposto a quelli appena commentati: non è raro trovare, laddove la toponomastica ufficiale è bilingue (o addirittura trilingue), atti vandalici volti a cancellare una delle lingue presenti sul cartello.
Anche qui è più interessante fermarsi a riflettere che non arrabbiarsi per lo sfregio. Se la lingua cancellata è quella nazionale, ci troviamo di fronte ad una rivendicazione più estrema di quelle viste sopra, in quanto volta a raggiungere un’autodeterminazione istituzionale e culturale che passa prima di tutto attraverso un’autodeterminazione linguistica (e pazienza se poi l’informazione sul cartello diventa poco leggibile per un non locale, ad esempio per un turista). Ma forse ancora più interessante è la situazione in cui sia la lingua di minoranza ad essere cancellata: in questo caso con un tratto di vernice si vogliono annullare anni di faticose battaglie locali e nazionali volte al riconoscimento di un diritto linguistico. Perché lo si fa? Ci possono essere molte ragioni per questo gesto, ma credo che se ne riconoscano almeno due principali. Da una parte il gesto si spiega per l’intolleranza verso qualsiasi cosa possa mettere in discussione la perfetta coincidenza di stato, lingua e nazione, dall’altra perché la minoranza linguistica viene percepita come eccessivamente ridotta e dunque insignificante e la presenza di questa lingua nello spazio pubblico come un’esibizione eccessiva e inutilmente costosa. Ma forse, più semplicemente, la ragione del gesto va cercata nella diffusa insofferenza verso tutto ciò che è diverso.
Per approfondire
Bernini, Giuliano & Federica Guerini & Gabriele Iannàccaro (a cura di). 2021. La presenza dei dialetti italo-romanzi nel paesaggio linguistico. Ricerche e riflessioni. Bergamo: Università degli Studi di Bergamo.
Pellegrini, Giovan Battista. 1990. Toponomastica italiana. Milano: Hoepli.
Tolomei, Ettore. 1935. Prontuario dei nomi locali dell’Alto Adige. Roma: Istituto di Studi per l’Alto Adige.
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