Cristiana De Santis
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Sono passati 100 anni dall’introduzione dell’esame di maturità, nato nella struttura attuale con la riforma Gentile del 1923. In un libro da poco uscito per UTET, Che traccia hai scelto. Una classe di autrici e autori di nuovo alle prese con il tema di maturità, il curatore Ivan Carozzi ha chiesto a celebrità di diverse generazioni, che scrivono per professione, di rifare il tema di maturità scegliendo tra le tracce proposte nel loro anno di esame (a meno che non lo abbiano sostenuto: come Antonio Moresco, ripetutamente bocciato, o il rapper Chicoria, che ha abbandonato gli studi; a ChatGPT è stata proposta la traccia del 2022 sulla pandemia, con esito deludente). Un volume che parte dall’alone mitologico che per decenni ha circondato la prima prova dell’esame di maturità: il cosiddetto tema di italiano, oggi sostituito da prove strutturate.
Se nelle scuole rimane intatta l’attesa per gli argomenti scelti dal Ministero, il vecchio terrore di fronte alla pagina bianca sembra oggi sostituito da una forma nuova di ansia: quella di ritrovarsi a leggere – al momento dell’apertura delle buste – paginate intere contenenti lunghe consegne tra le quali fare la scelta giusta, e di dosare le proprie energie per le 6 ore concesse, bilanciando l’impegno tra la prima parte della prova (quella di comprensione e analisi) e la seconda (la produzione di un’interpretazione critica di un testo letterario, di un’argomentazione originale intorno a una questione complessa, di una riflessione critica su un tema di attualità). Il cambiamento non riguarda solo il tipo di prove (sulle quali torneremo), ma il contesto: gli studenti sono ormai abituati alle prove standardizzate di valutazione degli apprendimenti, grazie ai tanti test che scandiscono il loro percorso scolastico, dalla seconda classe della scuola primaria alle prove INValSI propedeutiche all’esame di Stato. Per molti maturandi, poi, altre prove incombono: i test di accesso sempre più precoci e selettivi ai corsi di studio universitari ai quali si punta a iscriversi dopo la maturità.
Non è perciò inutile chiedersi se la prova di maturità – e in particolare lo scritto di italiano, comune a tutti gli indirizzi – mantenga il suo valore di rito di passaggio. Una domanda che si poneva già nel 1991, sulle colonne del “Corriere della sera”, lo scrittore Giuseppe Pontiggia (1934-2003): “Fra le tante maturità che ci aiutano ad affrontare la vita, ha ancora un senso quella rilasciata a scuola?”. Lessi quell’articolo qualche giorno prima di affrontare l’esame di maturità e da allora ne conservo il ritaglio: un piccolo trafiletto di carta dal titolo W la qualità. La risposta di Pontiggia (scrittore di cui ricorre in questi giorni il ventennale della morte) era positiva: non perché il superamento dell’esame assicuri di per sé il raggiungimento di un traguardo impegnativo come la maturità di una persona, “ma perché la promette”. Ci ricorda, cioè, il valore di una meta, per quanto provvisoria questa possa essere, e quello dell’attesa, giacché – per riprendere la formula biblica chiosata da Marco Belpoliti in uno dei testi proposti per la traccia di attualità – “c’è un tempo per ogni cosa, e non è un tempo immediato”.
Tornando a Pontiggia, “in un mondo abituato a tradurre la qualità in quantità”, le prove di maturità hanno un pregio non trascurabile: ci impongono di restare, almeno quel tanto che basta, nel regno della qualità. Ciò è tanto più vero per la prova di italiano, per la quale si richiede ai maturandi – a prescindere dalla traccia scelta – di dimostrare la raggiunta capacità di dominare la lingua di scolarizzazione sia in ricezione sia in produzione: di avere pienamente compreso un testo complesso (talora anche esteticamente ricercato) e di sapere architettare un testo nuovo che presenti in modo chiaro e ordinato interpretazioni, argomentazioni, riflessioni coerenti e pertinenti al tema in questione, con una adeguata proprietà lessicale, un sufficiente controllo della sintassi (anche complessa) e della compattezza strutturale del testo – che deve essere “coerente e coeso” e può essere utilmente suddiviso in paragrafi titolati, come suggeriscono le consegne delle prove di quest’anno. Del resto, questi sono gli indicatori qualitativi (specificati nel Quadro di riferimento) che la Commissione esaminatrice dovrà considerare per l’attribuzione dei punteggi. Perché va bene considerare la qualità, ma quello che conta alla fine è il voto (se non altro per la reputazione sociale, visto che non viene più calcolato per l’ammissione all’università).
Una scrittura “matura”
Scorrendo le tracce proposte quest’anno notiamo favorevolmente che la “produzione”, cioè la scrittura, è stimolata da un testo di appoggio che si chiede prima di comprendere e analizzare: sia che ci si misuri (PROVA A) con l’analisi e il commento di un testo letterario in poesia (Alla nuova luna di Salvatore Quasimodo, da La terra impareggiabile, 1958) o in prosa (un brano da Gli indifferenti di Albero Moravia, 1929), sia che si scelga il testo argomentativo (PROVA B) che quest’anno verte sull’idea di nazione (a partire da un testo di Federico Chabod del 1961), o sul ruolo dell’individuo nel farsi della storia (a partire dal un brano dell’Intervista con la storia di Oriana Fallaci, del 1977), o sul valore del capitale intellettuale nel nuovo mercato del lavoro (a partire dal libro-testamento di Piero Angela, Dieci cose che ho imparato, del 2022). La traccia di attualità (PROVA C) propone invece una riflessione critica “in tempo reale” a partire da un articolo di Marco Belpoliti (Elogio dell’attesa nell’era di Whatsapp, apparso su Repubblica il 30 gennaio 2019) o – con abile manovra di mise en abîme per questo ritorno al “vero esame di maturità” – di una Lettera aperta inviata nel dicembre 2021 all’allora Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi per caldeggiare il ritorno alle prove scritte dopo la sospensione legata all’emergenza pandemica (la lettera è opera del “Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità”, già autore della famigerata Lettera dei Seicento “contro il declino dell’italiano a scuola” che tanta polemica provocò nel 2017).
L’idea di “partire dal testo” è del resto la maggiore novità introdotta nel 2019 con la revisione delle indicazioni per la redazione e lo svolgimento delle prove scritte di italiano a opera di una Commissione (Palermo, 2022) che, nel rinunciare – con una decisione che ha fatto molto discutere – al tema di storia, ha voluto incoraggiare una scrittura “situata”, collegata cioè a concreti contesti e situazioni discorsive, con precisi obiettivi e interlocutori reali (la speranza, in questi casi è che il meccanismo possa agire retrospettivamente, inducendo gli insegnanti a modificare le proprie pratiche, anziché indurli in extremis a cercare e proporre fac-simile di prove svolte). Vale la pena soffermarsi su questa idea “matura” di scrittura, intesa come abilità che non nasce dall’ispirazione né dall’improvvisazione, ma dalla capacità di leggere in profondità un testo (muovendosi tra diversi tipi di testo), di parafrasarne o riassumerne i contenuti, di utilizzare con capacità critica le fonti, di rielaborare in modo originale le conoscenze, di strutturare il proprio pensiero ed esprimerlo in modo chiaro, evitando la superstizione della quantità e l’appiattimento su un “italiano scolastico” ottenuto per innalzamento del registro (linguistico). Si tratta, piuttosto, di usare un “italiano adulto”, per riprendere la felice formula di Vittorio Coletti. Lascio ai commentatori politici il compito di esplicitare le inferenze possibili (e le polemiche di cui sono passibili) a partire dai contenuti proposti nelle tracce di quest’anno. Mi riservo invece di commentare la lingua dei testi scelti e le richieste di tipo linguistico fatte ai maturandi.
Testi letterari che ci parlano (forse)
Per la traccia A è stata scelta una poesia che di certo non brilla nella produzione del premio Nobel Salvatore Quasimodo. L’eccellente traduttore dei lirici greci (sue le parole con cui abbiamo conosciuto l’impareggiabile Tramontata è la luna di Saffo), universalmente noto per un settenario divenuto proverbiale (“Ed è subito sera”), si mostra nel suo volto meno ermetico e più legato a un’attualità che oggi appare superata: l’entusiasmo per il lancio del primo satellite artificiale Sputnik I, la “nuova luna” con cui l’intelligenza umana (“laica” perché contrapposta a quella “divina” della creazione), impavida e instancabile, ha arricchito il firmamento, aggiungendo in cielo nuovi “luminari” (termine arcaico per “astri splendenti”, oggi diffuso nel significato metaforico di “chi brilla nel campo della scienza” – quel genere di stelle di cui più sentiamo la mancanza, quando si spengono). Sembra una parafrasi, la mia, ma non vuole esserlo affatto: non c’è pratica meno utile di questa per avvicinare la poesia contemporanea e provare a coglierne il senso, che è sempre unione inscindibile di significante e significato. Che ne resta di questi versi liberi, se togliamo alla poesia la sua musica, legata alla scelta e alla collocazione precisa di quelle parole (se necessario ripetute, dando luogo alle anafore che si chiede di cercare nel testo poetico – il solo, si badi, in cui le ripetizioni siano tollerate, nobilitate dalla terminologia retorica)? “Parlo della vera quantità d’ogni parola (nella piega della voce che la pronuncia), del suo valore, non di tono ma di durata” – sono parole di Quasimodo a commento della sua operazione di traduzione dal greco antico. Per fare una poesia, si sa, non bastano gli accapo, neppure quando spezzano la frase creando inarcature (gli enjambements che la traccia chiede di individuare). Così come per fare una preghiera non basta l’Amen finale. Evidentemente luminare è un residuo di quella “terminologia classicheggiante il cui umore s’è isterilito, come avviene in ogni passivo aggregato linguistico che ha insistito a continuare una tradizione” (cito sempre da Quasimodo). Va però riconosciuto che l’altro vocabolo posto in explicit non ha perso invece la sua connotazione liturgica e si ricongiunge ad anello con l’incipit biblico. Al giovane o alla giovane il compito di elaborare una riflessione “sulle modalità con cui la letteratura e/o altre arti affrontano i temi del progresso scientifico- tecnologico e delle responsabilità della scienza nella costruzione del futuro dell’umanità”.
L’alternativa al testo poetico è un brano tratto dal romanzo Gli indifferenti di Alberto Moravia (1929), scritto quando lo scrittore aveva più o meno l’età dei maturandi, accuratamente scelto per esemplificare la rappresentazione critica del mondo borghese, col suo disprezzo per quei “miserabili” tanto cari alla letteratura realista. L’aspetto più interessante del testo è il contrasto tra il tono dei dialoghi, aperto al parlato – sia pure “distinto”, come ci si aspetta da una famiglia che non vuole finire declassata – e le ampie descrizioni che mimano il movimento psicologico della protagonista. Si potrebbe azzardare un paragone con l’Addio monti manzoniano se la traccia non invitasse a concentrarsi sui caratteri della borghesia. Dal momento, poi, che si chiede di riassumere il testo evitando di ricorrere al dialogo (dimostrando così di saper usare il discorso indiretto e i congiuntivi richiesti), il rischio del maturando è quello di sintonizzarsi sulla parte del testo che (come la protagonista) rifugge la medietà stilistica per rifugiarsi negli ella, nei preziosismi (la turba), nelle terne lessicali (ripugnanza, umiliazione, paura) e nell’abbondanza aggettivale, nelle figure di costruzione (l’antitesi dalle grandi campate: non… ma; i parallelismi: senza…. senza; i chiasmi: oscurità completa, ignuda oscurità), recuperando magari anche i desueti punti e virgola per una scrittura ossequiente dell’autorità.
Saper argomentare (riconoscendo i buoni argomenti)
Passando alla traccia B, si apprezza lo sforzo di reintrodurre la storia attraverso un brano del valdostano Federico Chabod, che torna al Risorgimento come alla fonte limpida dei concetti di Nazione e Patria, sempre congiunti a ideali quali Libertà e Umanità e a figure come Cavour e Mazzini. Anche in questo caso è richiesto il riassunto (non si specifica se con la stessa abbondanza di maiuscole e punteggiatura enfatica) e, prova linguistica per eccellenza, la riformulazione di una frase del testo: “La nazione non è fine a se stessa: anzi! È mezzo altissimo, nobilissimo, necessario, ma mezzo, per il compimento del fine supremo: l’Umanità”. Volendo ridurre all’osso, stralciando le solite terne, antitesi ecc.: “Il fine giustifica il mezzo”. In effetti, sulla veste linguistica di questo testo così iperbolico ci sarebbe molto da dire, ma il compito richiesto è un altro: la stesura di un testo argomentativo “in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso”.
La storia (questa volta con la minuscola) è la parola di inizio anche dell’altra traccia, affidata a un brano di Oriana Fallaci: “La storia è fatta da tutti o da pochi? Dipende da leggi universali o da alcuni individui e basta?”. Una domanda impegnativa, che chiama a coorte tanti argomenti affrontati in modo trasversale nel corso dell’anno scolastico, compresa la poesia omonima di Eugenio Montale (La storia, scritta nel 1969, otto anni prima che la grande giornalista intervistasse la storia a nostro beneficio). La domanda successiva offre comunque lo spunto per approfondire un aforisma di Pascal che avalla una fake news dal vago sapore maschilista, sul presunto ruolo storico del naso di Cleopatra. Con sollievo si arriva a un altro brano, scritto nella lingua limpida tipica dell’ottimo divulgatore scientifico: Piero Angela. Qui, se vogliamo costruire un buon testo argomentativo, siamo agevolati dal modello: la struttura è ben scandita, con la presentazione di una serie di cambiamenti (Uno… Quindi…), ciascuno spiegato con il ricorso a riformulazioni (cioè…, vale a dire) ed esempi (come…, si pensi a…), frasi tematiche ben isolate (“Dei piccoli cervelli creativi hanno abbattuto un colosso planetario”), connettivi conclusivi (Per questo). Con una segnaletica così chiara diventa facile orientarsi per individuare “le tesi con le argomentazioni a supporto” (come richiesto) e costruire, a propria volta, un testo in cui si ragioni dello stesso tema (il sapere come fonte di ricchezza immateriale) presentando argomenti a favore (o contro, perché no).
Ma veniamo all’attualità…
In molti a questo punto aspetteranno le tracce di attualità, quelle che statisticamente risultano le più scelte, forse perché più agganciate all’esperienza dei maturandi e aperte alle considerazioni personali. Per commentare il colto articolo di Belpoliti, in effetti, più che considerazioni filosofiche su tempo cronologico e tempo psicologico saranno adatte formule di (auto)critica sul modo impulsivo e compulsivo di vivere le giornate, all’insegna del “tutto e subito”, che i giovani potranno facilmente descrivere avendocelo quotidianamente sotto gli occhi, perfettamente esemplificato da noi adulti. Qualcuno, inevitabilmente, scivolerà sulla buccia di banana della lettera aperta all’ex Ministro, piena di affermazioni di buon senso (sottoscritte in buona fede da “illustri esponenti del mondo accademico e culturale italiano”), messa lì con studio, magari non per provocare, ma per indurre all’elogio del ritorno all’ordine, dopo la fine della “dittatura sanitaria”. In fondo la consegna chiede solo di esporre il proprio punto di vista e di confrontarsi in maniera critica con le tesi espresse nel testo. Anche in questo caso, sebbene non esplicitato, è consentito dissentire.
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