Nicola Grandi
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
De Mauro era ed è senza dubbio il linguista italiano più noto. Ed è noto come linguista anche a chi non sa cosa fa di mestiere un linguista. Tuttavia la reale portata del contributo che De Mauro ha dato agli studi linguistici, che ho voluto definire rivoluzionaria nel titolo di questo mio breve intervento, è – credo – largamente ignota non solo al pubblico colto ‘generalista’, ma anche a parte della comunità dei linguisti. Io stesso confesso di averla apprezzata appieno solo quando, dopo la sua morte, ho ‘messo in fila’ alcune date e per la prima volta ho costruito un quadro di insieme che mi è parso dirompente e quasi destabilizzante nella sua modernità.
Partiamo da alcuni passi della sua carriera ‘accademica’.
La prima data che conviene fissare è il 1961, quando Antonino Pagliaro cede l’insegnamento di Filosofia del linguaggio all’allievo Tullio De Mauro (laureato da appena 5 anni). Oggi chiameremmo un incarico di questo tipo ‘supplenza’.
La seconda data è il 1967: Tullio De Mauro è il primo vincitore in Italia di una cattedra di Linguistica generale.
Nell’attuale geografia accademica, la legittimità piena di due discipline affini ma distinte come la Filosofia del linguaggio e la Linguistica generale è fuori discussione. Negli anni Sessanta il quadro era completamente diverso ed entrambe faticavano a ritagliarsi uno spazio autonomo e ad ottenere una piena legittimazione. In questa opera il debito nei confronti di De Mauro è inestimabile. Dobbiamo in effetti considerare il contesto che fa da sfondo a queste due tappe della carriera di Tullio De Mauro. Da una parte, la linguistica storico-ricostruttiva era l’approccio ai fatti di lingua al quale veniva riconosciuta la maggiore dignità scientifica. Le lingue si studiavano principalmente con lo sguardo volto all’indietro, per ricostruire stadi linguistici non attestati a partire da quello che invece abbiamo a disposizione. Dall’altra parte la filosofia non attribuiva al linguaggio (che per i linguisti è cosa diversa dalle lingue, è bene ribadirlo sempre) un particolare interesse concettuale. La Linguistica generale e la Filosofia del linguaggio, dunque, irrompono nell’università italiana e suscitano un’inevitabile diffidenza. Con conseguenze anche personali per lo stesso De Mauro, sulle quali tornerò dopo.
Il 1967 è anche l’anno di fondazione della Società di Linguistica Italiana (SLI), di cui ha scritto per Linguisticamente Emanuele Banfi, che precede di tre anni quella della Società Italiana di Glottologia (SIG), raccontata per Linguisticamente da Vincenzo Orioles. Nella nascita della SLI Tullio De Mauro gioca un ruolo centrale, nell’ambito di un gruppo estremamente vario, nel quale trovano posto anche linguisti stranieri di varie estrazioni teoriche, insegnanti di scuola, pedagogisti, psicologi e responsabili di istituti culturali stranieri in Italia. Proprio questa apertura verso aree disciplinari e tradizioni di studio diverse contribuì al sospetto (e talora al disagio) con cui la SLI (di cui De Mauro divenne presidente nel 1970) fu accolta in ambito accademico italiano.
Conviene tentare di delineare meglio il quadro internazionale che fa da sfondo a questi eventi, per capire come De Mauro, in Italia, incarnò un moto di cambiamento che stava pervadendo la linguistica a livello mondiale. Procedo in ordine sparso: nel 1957 Noam Chomsky pubblica Le strutture della sintassi, nel 1965 Aspetti della teoria delle sintassi e l’anno successivo Linguistica cartesiana; nel 1960 André Martinet (ospite del primo congresso della SLI nel 1967) pubblica Elementi di linguistica generale e nel 1965 La linguistica sincronica. In quegli stessi anni Giulio Lepschy cura l’edizione italiana di Hjelmslev, I fondamenti della teoria del linguaggio e Luigi Heilmann, primo presidente SLI, quella di Roman Jakobson, Saggi di Linguistica generale. Nel 1963, poi, Eugenio Coşeriu ottiene la cattedra di Filologia romanza a Tubinga.
Come si è detto, la parte più rilevante della vita accademica di Tullio De Mauro è stata occupata da due discipline oggi distinte, la Filosofia del linguaggio e la Linguistica generale, ma nella convinzione che l’analisi del linguaggio e delle lingue dovesse avere un carattere profondamente unitario, al di là degli steccati, appunto disciplinari. Una sorta di ‘ibridismo’ che l’attuale sistema concorsuale non sarebbe in grado di digerire.
In particolare, possiamo individuare, nella molteplicità degli interessi e degli approcci di Tullio De Mauro, due capisaldi che identificano in modo paradigmatico questo approccio interdisciplinare:
- i fatti linguistici non sono separabili dal quadro geografico, storico e sociale nel quale si innestano. Ogni fatto di lingua va cioè contestualizzato all’interno di quello che i sociolinguisti chiamano il diasistema e si spiega anche (direi quasi soprattutto) in base alle condizioni extralinguistiche che lo hanno prodotto;
- l’indagine linguistica va collocata sempre entro il quadro ‘semiologico’ dei fatti di comunicazione, dei rapporti fra oralità e scrittura, fra mondo verbale e linguaggi segnati e non verbali; e infine, del linguaggio umano nell’insieme dei fenomeni che chiamiamo simbolici (cfr. Gensini 2017).
Da (a) nasce, nel 1963, Storia linguistica dell’Italia unita; da (b) nasce, nel 1967, l’edizione italiana del Cours che non è una mera traduzione dell’opera di Saussure: oggi tutto o quasi il mondo occidentale non si limita a studiare Saussure, ma studia il Saussure di Tullio De Mauro (1967).
Mi soffermerei in particolare sulla prima, visto che l’edizione di Laterza del Cours è un lavoro notissimo: De Mauro non solo traduce, ma commenta Saussure e ristruttura filologicamente l’impianto del Cours, contribuendo in modo decisivo a definire l’autonomia della Linguistica generale e a costruire il lessico tecnico e le basi della disciplina.
Storia linguistica dell’Italia unita parte da presupposti che all’epoca erano quasi ‘eversivi’: le lingue esistono solo in quanto sono parlate o sono state parlate e dunque non esistono al di fuori della coppia lingua-parlanti. Oggi può sembrare banale e scontato, ma non lo era nel panorama linguistico degli anni Sessanta del secolo scorso, quando la pervasività della dimensione storico-ricostruttiva induceva talora a considerare le lingue come oggetti a sé stanti. Questo vuol dire che in ogni lingua è leggibile la storia dei conflitti e delle conquiste o delle sconfitte dei suoi parlanti. Le lingue riflettono successi ed insuccessi dei loro parlanti. De Mauro, dunque, non intende ricostruire la storia di una lingua per altro relativamente giovane, cioè l’italiano postunitario. La storia linguistica è cosa ben diversa dalla linguistica storica. La storia linguistica attinge a piene mani alla demografia, alla statistica, all’economia, alla sociologia… Storia linguistica dell’Italia unita è un volume ‘pieno di numeri’, in cui la lingua diventa una chiave di lettura per capire la storia dei parlanti. De Mauro fu respinto nei suoi primi concorsi universitari anche perché il libro non era considerata un’opera scientifica di linguistica, ma veniva definito un manifesto politico o, nella migliore delle ipotesi, un trattato sociale.
Storia linguistica dell’Italia unita non è dunque la storia dell’italiano; è la storia degli italiani ricostruita nella prospettiva della lingua che essi parlano, perché le caratteristiche della lingua negli anni che vanno dall’Unità al Secondo Dopoguerra ci dicono moltissimo sulla storia di chi ha vissuto l’Italia in quegli anni. Tullio De Mauro pone in risalto come la stratificazione stessa della lingua, con l’apporto fondamentale dei dialetti, delle varietà regionali e sociali, delle lingue tecniche e specialistiche, ecc. riproduca la stratificazione della società (di qualcosa di simile ci ha già parlato, su Linguisticamente, Claudio Iacobini a proposito del Vocabolario di Base). Ci racconta l’illusione dello standard e ci ha prefigurato l’inevitabilità del neostandard, cioè di quella nuova varietà della quale oggi si riconosce anche istituzionalmente l’esistenza. E ci pone in maniera quasi violenta di fronte agli occhi emergenze sociali assolutamente trascurate, come l’analfabetismo di ritorno o l’analfabetismo funzionale. Insomma, se oggi avvertiamo un declino nelle competenze linguistiche e nella padronanza dell’italiano è anche perché non abbiamo ascoltato abbastanza De Mauro.
Torniamo ora alle date, in particolare alle ultime due che ho citato (1963 e 1967). Esse acquistano rilievo soprattutto se si considera che Tullio De Mauro è nato nel 1932. A trenta anni, più o meno, De Mauro ci ha regalato Storia linguistica dell’Italia unita e l’edizione commentata del Cours. Devo quindi aggiungere un secondo aggettivo a quello usato nel titolo di questo intervento: coraggioso! E chi sa come funziona l’università nei suoi meccanismi concorsuali, sa quanto sia coraggioso pubblicare, a trenta anni, lavori ‘eversivi’ come lo erano, negli anni Sessanta, Storia linguistica dell’Italia unita e il Cours saussuriano. Ai nostri allievi trentenni, oggi tutti noi consigliamo prudenza: prima di tutto accontentare il settore e riservare… l’’eversione’ a quando si è accademicamente stabili!
Concludo con un terzo aggettivo: Tullio De Mauro è stato un linguista coraggioso, rivoluzionario e militante. Ma militante non nel senso sbandierato oggi da alcuni linguisti, che si ergono a custodi della norma e che ritengono una missione quella di dover giudicare e fustigare l’uso che i parlanti fanno della lingua ogni volta che ci si discosta da essa. De Mauro è stato un linguista militante (come lo è stato, a suo modo, Don Lorenzo Milani) innanzitutto perché si è sporcato le mani, perché si è speso per trasformare in azione concreta quello che scriveva. Ma è stato militante anche perché ci ha insegnato instancabilmente a vedere il parlante dietro a ogni parola e a capire che ogni disagio linguistico manifesta un disagio sociale e che per dare a tutti le stesse opportunità linguistiche occorre agire non sulla lingua, ma sulle condizioni di vita di chi parla una lingua.
Di questo coraggio e della sua rivoluzione gli siamo debitori.
1 Commento
Alessandro de Lachenal 06 Gennaio, 2021
Esattamente a metà degli anni citati si colloca inoltre “Introduzione alla semantica”, titolo non voluto da Tullio ma imposto da Vito Laterza: un libro che accosta Aristotele, Leibniz, Vico, Croce, Wittgenstein (e molti altri) e che sarebbe anch’esso inaccettabile nei concorsi accademici odierni. Grazie di averci dato tutto questo (e ciò che seguirà queste 3 opere nei successivi 40 anni e passa)
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