Stefano Ondelli
Università di Trieste
Quando cerchiamo un modello di lingua da seguire – a cui ispirarci per scrivere in ‘buon italiano’ – tradizionalmente ci affidiamo a professionisti della scrittura, soprattutto in ambito artistico, giornalistico o saggistico: i grandi autori e le grandi autrici della letteratura italiana, giornaliste e giornalisti famosi, intellettuali di varie discipline. Eventualmente, per risolvere dubbi grammaticali, possiamo rivolgerci a esperti come docenti e autori di manuali scolastici.
Queste abitudini dimostrano due cose: innanzitutto, che normalmente pensiamo all’italiano principalmente nella sua versione scritta; in seconda battuta, che ci facciamo influenzare da quelli che consideriamo più bravi di noi. Tutto ciò ha, naturalmente, senso quando stiamo cercando un modello in maniera consapevole, ma che cosa succede quando invece veniamo esposti continuamente a esempi di un certo tipo di lingua senza però accorgerci dell’influenza che hanno su di noi? È quello che capita tutti i giorni con il ‘traduttese’, cioè l’italiano che caratterizza le traduzioni.
L’idea che tutte le traduzioni abbiano qualcosa in comune dal punto di vista linguistico discende dalla teoria degli ‘Universali Traduttivi’. Questa teoria sostiene che chi traduce da una lingua straniera scrive in maniera diversa rispetto a quando scrive direttamente nella propria lingua madre. Non si tratta solo dell’influenza del testo di partenza (che pure c’è: si chiama ‘interferenza’), ma di una serie di tendenze e strategie che più o meno vengono adottate da tutti i traduttori, anche dai professionisti. Per esempio, sembra che chi traduce voglia inconsapevolmente aiutare i propri lettori, e così tende a utilizzare un lessico più semplice, strutture sintattiche più snelle, oltre ad aggiungere informazioni e spiegazioni che rendono più immediata la lettura di un testo originariamente scritto per un pubblico diverso per lingua e cultura, e che quindi può contare su conoscenze diverse da chi legge in traduzione.
E poi, siccome anche i traduttori sono dei professionisti della parola scritta, fanno molta attenzione alla qualità del loro italiano: tendono a rispettare la grammatica che tutti abbiamo imparato a scuola (e che magari non usiamo proprio quotidianamente), preferiscono i registri alti e si affidano a ‘soluzioni sicure’ – anche un po’ ripetitive – magari per rendere scelte sintattiche e lessicali che nel testo di partenza erano un po’ eterodosse e originali. Tutti questi atteggiamenti produrrebbero un italiano – il cosiddetto ‘traduttese’, appunto – con caratteristiche costanti e significative che lo rendono diverso dall’italiano che non è frutto di traduzioni. Si tratta ovviamente di differenze piccole, che non disturbano la lettura e che possono essere colte solo analizzando le tendenze di fondo di una grande quantità di testi, secondo il metodo di quella che va sotto il nome di ‘linguistica dei corpora’.
Quali sono queste differenze? Per cominciare, nel confronto con testi scritti direttamente in italiano, le traduzioni sembrano caratterizzate da una minore ricchezza lessicale (registrano un numero minore di parole diverse, che si ripetono più spesso) ed evitano le parole rare o regionali o caratterizzate da una formalità molto alta o bassa. E poi i traduttori (in fin dei conti, sono pagati per questo) tendono a usare meno parole straniere, anche se sono di uso comune: così match diventa gara, lobby diventa gruppo di pressione ecc. Però, talvolta, si lasciano influenzare dalla lingua fonte, che spesso è più rispettosa delle differenze di genere: pensiamo alla parola cancelliera, usata per fare riferimento alla guida del governo tedesco. Si tratta di una parola innovativa, chiaramente modellata sul tedesco Kanzlerin, mentre gli italiani fanno ancora fatica ad accettare forme femminili come ministra o assessora.
Dal punto di vista morfosintattico, alcune caratteristiche, come una frequenza più alta del normale di dimostrativi (per es., ma perché hai fatto questo? invece di perché lo hai fatto?) e possessivi (per es., prendi il tuo cappello ed esci suona strano in italiano), rivelano che i traduttori cercano di essere più precisi e più chiari, nel tentativo di ‘spiegare’ il loro testo ai lettori. Inoltre spesso selezionano forme e costrutti tipici dell’italiano letterario o scolastico. Per esempio, tra i tempi e i modi verbali compare spesso il passato remoto, e il congiuntivo batte quasi sempre l’indicativo quando entrambi sarebbero possibili (per es., non sapevo chi fosse vs. non sapevo chi era). Se passiamo ai pronomi, egli continua a essere usato come soggetto (mentre anche nell’italiano letterario ormai prevale lui), e al posto del più ‘comodo’ e regolare gli (perché si posiziona prima del verbo) i traduttori restano fedeli al tradizionale loro, come in ho incontrato gli amici e ho detto loro di venire alla festa invece di gli ho detto.
Altre caratteristiche, come il ricorso a una sintassi più semplice del normale, in parte dipendono dalla lingua fonte, ed è innegabile che oggi la maggior parte dei testi tradotti in Italia provengano dagli Stati Uniti. In effetti, tutti sappiamo che chi scrive in inglese tende a fare frasi più brevi che in italiano, e i traduttori tendono a rispettare la punteggiatura originale invece di riunire più frasi indipendenti in un’unica costruzione complessa. Lo stesso discorso vale per l’abuso della perifrasi progressiva (come in il libro sta avendo successo invece di ha successo) e dei pronomi personali soggetto, due tratti che sono rispettivamente molto più frequenti o addirittura obbligatori in inglese. Ancora, nelle traduzioni è possibile trovare frasi come la posta è arrivata, mentre sarebbe più normale è arrivata la posta, proprio perché l’inglese deve rispettare l’ordine soggetto–verbo–oggetto, mentre l’italiano permette una maggiore flessibilità.
Tutto questo se ci limitiamo alle traduzioni scritte, come romanzi, saggi, articoli ecc. Ma ci sono altri tipi di testi che tipicamente provengono dalla lingua e dalla cultura americana; per esempio i fumetti, in cui spiccano altre particolarità linguistiche, come gli ideofoni (gulp, bang, ouch ecc.) ed espressioni fisse prese di peso dai testi originali (per es., ehi amico, qual è il problema?). Queste espressioni stereotipate si chiamano ‘routine traduttive’ e le ritroviamo anche in testi orali, come nel caso del doppiaggio. Dobbiamo infatti ricordarci che le traduzioni non sono solo scritte: cinema e televisione offrono una grande varietà di esempi di traduzione orale, che tecnicamente viene definita ‘adattamento’ perché deve tenere conto di fattori extralinguistici (per es., il movimento delle labbra degli attori, ciò che succede in scena e, nel caso dei sottotitoli, la velocità della lettura, che richiede una condensazione del materiale linguistico). Oltre alle routine traduttive (per es., ma dici a me?, Come posso aiutarla?, Il mio nome è Bond, invece di ma che vuoi?, Desidera?, Mi chiamo Bond, rispettivamente), dai film doppiati scompare gran parte delle parolacce presenti negli originali e viene eliminata qualsiasi traccia di lessico e di accento regionali. Se pensiamo che non esiste alcun luogo geografico né alcuna classe sociale che utilizza la pronuncia standard in Italia, fa sorridere il pensiero che, se vogliamo ascoltare un italiano ‘senza inflessioni’, dobbiamo andare al cinema a vedere un film con attori stranieri (ma doppiatori italiani).
Perché è interessante studiare la lingua delle traduzioni? Perché non ne possiamo fare a men! Pensiamoci: molti di noi avranno letto romanzi come Il rosso e il nero, Delitto e castigo, Oliver Twist, La montagna incantata ecc., e lo avranno fatto in traduzione. Analogamente, avranno visto film (doppiati) come Star Wars (che ai miei tempi si chiamava Guerre Stellari), Fast and Furious, Via col vento, e film d’animazione giapponesi, belgi, americani ecc. Si tratta di prodotti (para)culturali di ben più largo consumo dei capolavori della letteratura (da Piccolo mondo antico o Confessioni di un italiano) o del cinema (da Fellini ad Antonioni) italiani.
Allora la domanda che possiamo chiederci è questa: anche se quando pensiamo al ‘buon italiano’ tutti ci rivolgiamo a romanzieri e saggisti famosi (italiani), dovremmo chiederci piuttosto a quale tipo di italiano siamo esposti ogni giorno quando leggiamo romanzi di buona qualità ma anche gialli, romanzi rosa e d’avventure (per tacer dei fumetti o, come li chiamiamo oggi, graphic novel), o quando guardiamo un film o un telefilm.
I linguisti sono generalmente d’accordo nel dire che, a parte la scuola, per quasi tutti la vera maestra di italiano nella seconda metà del Novecento è stata la televisione. Ma oggi gran parte dei libri, dei film, dei cartoni animati è doppiata. E allora quali modelli linguistici vengono proposti? Una bambina che frequenta la scuola dell’obbligo, oltre all’italiano scolastico, che esempi riceve dai romanzi di Harry Potter e dai cartoni animati di Rai Yoyo o Rai Gulp? Possiamo prevedere gli sviluppi del nostro idioma nel prossimo futuro analizzando i testi più frequentati che – guarda caso – sono di origine straniera?
In realtà è difficile rispondere a queste domande, ne sappiamo molto poco, forse perché fino ad oggi le traduzioni sono state sempre considerate un ‘male necessario’, un escamotage per permettere a chi non sapeva le lingue straniere di accedere a contenuti non italiani. Eppure basta dare un’occhiata alle classifiche dei libri e dei film di maggior successo, ma anche ai manuali scolastici, ai fumetti, alla saggistica, ai film più trasmessi, per accorgersi che si tratta di prodotti perlopiù americani. E domani? Saranno arabi, cinesi o di quale lingua e cultura? E, tramite le traduzioni, che effetti avranno sulla percezione della nostra lingua madre?
Per approfondire
Ondelli, Stefano. 2020. L’italiano delle traduzioni. Roma: Carocci.
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