Michele Gazzola
Ulster University
La proposta di legge C. 734 presentata il 23 dicembre 2022 dal deputato Fabio Rampelli, membro del partito di maggioranza relativa del governo, “Fratelli d’Italia”, e attuale Vicepresidente della Camera dei deputati, ha come titolo “Disposizioni per la tutela e la promozione della lingua italiana e istituzione del Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana”.
La proposta si prefigge due obiettivi di fondo, come spiegato nel preambolo. Il primo è fornire “un argine al dilagare dell’utilizzo di termini stranieri al posto di quelli italiani” (si legga, anglismi), mentre il secondo vuole essere “uno strumento per rimuovere le barriere linguistiche che limitano la partecipazione dei cittadini italiani alla vita collettiva” – barriere linguistiche che, per gli estensori della proposta, sorgono a causa dell’uso eccessivo di anglismi o dell’inglese tout court nella comunicazione istituzionale.
La proposta di legge C 734 va inquadrata all’interno di un contesto politico ed economico internazionale che a partire dagli anni ’90 del secolo scorso è caratterizzato da una crescente interdipendenza fra sistemi economici (la cosiddetta globalizzazione), dall’intensificarsi del processo di integrazione politica europea, da intensi fenomeni migratori e di mobilità internazionale (sia del lavoro che studentesca), e infine dall’emergere delle tecnologie digitali che ridimensionano l’importanza e la rilevanza delle distanze e delle barriere geografiche. Questi fenomeni hanno creato inevitabilmente nuove occasioni e situazioni di contatto fra lingue, sia a livello internazionale che nazionale, le quali possono risolversi in un arricchimento reciproco, oppure in una competizione o addirittura in un conflitto in alcuni ambiti d’uso e funzioni sociali. Di qui la necessità dell’intervento di politica linguistica, chiamata a gestire e mediare i processi di contatto linguistico e le loro ricadute sociali, politiche ed economiche.
I due fenomeni di contatto linguistico più significativi derivanti dai processi politici, economici, migratori e tecnologici appena ricordati sono stati l’accelerazione e intensificazione della diffusione dell’inglese a livello mondiale – diffusione sostenuta in tutta Europa da politiche pubbliche educative nazionali – e l’emergere di società sempre più plurilingui all’interno dei confini nazionali. Si tratta di fenomeni che pongono certamente delle sfide a cui la politica linguistica è chiamata a rispondere. E la risposta di diversi paesi europei è stata di ribadire per via legislativa la centralità della lingua nazionale, seguendo il principio di territorialità linguistica, seppur in una versione attenuata al fine di rispettare i diritti delle minoranze linguistiche tradizionali e permettere una certa flessibilità nella gestione del plurilinguismo nei sistemi di istruzione terziaria.
È importante notare, tuttavia, che le recenti misure legislative di tutela e promozione delle lingue nazionali in Europa rispondono anzitutto alla necessità di affermare i valori dell’inclusione sociale, della libertà di espressione e della trasparenza della comunicazione istituzionale pubblica, piuttosto che essere volte a proteggere l’identità nazionale o una (vera o presunta) purezza linguistica. Non commenteremo qui il caso della Legge francese n. 94-665 del 4 agosto 1994 sull’uso della lingua francese (la cosiddetta “legge Toubon”), a cui gli estensori della proposta C 734 direttamente si sono ispirati. Vogliamo invece illustrare i casi delle recenti leggi a protezione delle lingue nazionali in due paesi scandinavi, la Norvegia e la Svezia.
Nel 2022 la Norvegia ha adottato una legge sulle lingue (“Lov om språk”) che ha come obiettivo quello di “rafforzare la lingua norvegese per salvaguardarla come lingua completa, che serve e unisce la nostra società e che può essere utilizzata in tutti i settori della società e in tutte le parti della società civile in Norvegia” (articolo 1). Per “lingua completa” dobbiamo intendere una lingua attrezzata nel lessico e nello status formale e simbolico ad essere utilizzata in ogni ambito della vita sociale (contrariamente ai dialetti). La legge norvegese attribuisce alle istituzioni pubbliche il compito di utilizzare, sviluppare e rafforzare il norvegese nelle sue due varianti scritte (cioè il Bokmål e il Nynorsk).
In Svezia dal 2009 esiste una legge a protezione dello svedese, delle lingue minoritarie e dei segni (“Språklag”). Lo scopo della legge è quello di chiarire la posizione e l’uso della lingua svedese e di altre lingue nella società del paese scandinavo. La legge mira a proteggere la lingua svedese e la diversità linguistica in Svezia, nonché l’accesso degli individui alla lingua. La legge prescrive che lo svedese è la lingua comune della società a cui tutti i residenti in Svezia devono avere accesso e che deve essere utilizzabile in tutti gli ambiti della società. La legge specifica, inoltre, che il settore pubblico ha una importante responsabilità nell’uso e nello sviluppo dello svedese. Le agenzie governative hanno una responsabilità particolare nel garantire l’accessibilità, l’uso e lo sviluppo della terminologia svedese nelle loro diverse aree di competenza. Tutti i residenti in Svezia devono avere l’opportunità di imparare, sviluppare e utilizzare lo svedese.
In entrambi i paesi scandinavi la legge garantisce ai residenti la libertà di usare la lingua nazionale in ogni contesto e ambito, e richiede all’apparato pubblico di impegnarsi a permettere l’esercizio effettivo di questo diritto evitando che l’inglese (lingua internazionale egemone in questo momento storico) sostituisca gradualmente nel lessico e nello status il norvegese e lo svedese in alcune funzioni sociali. Questo non significa né ostacolare l’insegnamento e l’apprendimento di questa lingua – che peraltro in quei paesi sono notoriamente avanzati – né espungere gli anglismi dal lessico corrente. Significa invece chiedere all’apparato pubblico di impegnarsi ad usare la lingua comune nel suo registro formale, ma accessibile, in tutte le occasioni per farsi capire da tutti i cittadini (nel rispetto delle lingue di minoranza) e di adoperarla sistematicamente nei servizi pubblici. Significa inoltre richiederne l’uso nei contratti di lavoro, favorirne l’apprendimento da parte di tutti gli immigrati a prescindere dal loro status sociale – dall’assistente domestica al dirigente di una multinazionale straniera – per integrarli efficacemente nel tessuto economico e sociale nazionale, e promuovere l’uso ed eventualmente lo sviluppo di termini nella lingua nazionale per mantenerla vitale e al passo coi tempi.
L’esame del contenuto delle leggi nei due paesi scandinavi mi sembra utile per informare meglio ed alimentare il dibattito sulla proposta di legge C 734 italiana, perché questi due testi normativi indicano un tipo di protezione e promozione della lingua nazionale che mi pare meritevole di essere perseguito anche nel caso della lingua italiana. Si tratta di disposizioni, peraltro, conformi alle indicazioni delle Sette tesi per la promozione di politiche linguistiche democratiche del Gruppo di Studio sulle Politiche Linguistiche pubblicate il 4 dicembre 2016, a cui lavorarono soprattutto Tullio De Mauro e Gabriele Iannàccaro. In particolare, la quarta e la sesta tesi, recitano rispettivamente “la generalità dei paesi del mondo è caratterizzata sia dalla coesistenza di lingue diverse, dal multilinguismo, sia dal costituirsi di gerarchie tra le diverse lingue coesistenti, tra le quali in generale a una sono assegnate funzioni dominanti nell’uso scritto e negli usi pubblici e formali. È un diritto di ogni persona potere accedere a tali usi per averne piena padronanza”, e “una politica linguistica democratica trova base nei documenti internazionali che sanciscono il diritto all’uso parlato e scritto della propria lingua come un diritto umano”.
È diritto di ogni cittadino italiano e dei regolari residenti stranieri avere accesso in lingua italiana ai documenti e testi prodotti dalle istituzioni in tutte le sue articolazioni (fatti salvi i diritti linguistici delle minoranze territoriali), al contenuto dei contratti di lavoro e alle informazioni necessarie per usufruire pienamente dei servizi pubblici. In un paese come l’Italia, dove purtroppo sussiste fra gli adulti un diffuso analfabetismo di ritorno, e dove la conoscenza dell’inglese è direttamente proporzionale al reddito e al livello di istruzione, l’abuso di anglismi crudi o dell’inglese in certe funzioni comunicative rischia di creare o aggravare le diseguaglianze sociali.
Mi pare quindi che le questioni degli anglismi nella comunicazione pubblica e della graduale perdita di funzionalità dell’italiano in alcuni ambiti, specialmente quello della ricerca e dell’insegnamento universitari, più che essere inserite in un’ottica di difesa della purezza, vera o presunta, della lingua italiana, oppure di “salvaguardia nazionale e di difesa identitaria” (per usare le parole del preambolo alla proposta di legge), che per ora non mi sembrano in pericolo, vadano invece affrontate in un’ottica di promozione e tutela della democrazia e della giustizia linguistica.
In questo senso, la proposta di legge attuale potrebbe essere migliorata in alcuni dei suoi aspetti. Si forniscono qui di seguito alcuni esempi, lasciando naturalmente aperta, e anzi incoraggiando, la possibilità di avere un confronto aperto e informato fra la comunità scientifica e il legislatore su questi temi importanti e sensibili.
L’articolo 3, per come è attualmente formulato, pare di difficile attuazione. Il primo comma dovrebbe essere specificato, e probabilmente riservato ai servizi pubblici quali ad esempio i trasporti e la sanità. Il secondo comma dello stesso articolo risulta anch’esso di difficile attuazione senza un’adeguata dotazione finanziaria per la copertura degli strumenti di mediazione linguistica (e sorvolando sulle questioni pratiche e logistiche, quali la necessità di spazi per l’installazione di cabine di interpretariato).
L’articolo 4 andrebbe rivisto per questioni di coerenza con l’impianto legislativo esistente, eventualmente abrogando l’articolo 17 comma e della riforma Madia (legge n. 124 del 7 agosto 2015, “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”) che ha sostituito l’obbligo di conoscere una lingua straniera come requisito per i concorsi nella pubblica amministrazione con l’obbligo della sola lingua inglese.
L’articolo 6 riprende in parte il contenuto della Sentenza 42/2017 della Corte Costituzionale, la quale però è rimasta in buona parte disattesa nei fatti. Perfino una norma simile nella legge Toubon francese del 1994 è stata successivamente modificata e resa più flessibile dalla Legge n. 2013-660 del 22 luglio 2013 sull’istruzione superiore e la ricerca (“legge Fioraso”). La questione della lingua di insegnamento negli istituti universitari è troppo complessa per essere risolta in un singolo articolo di legge, perché essa dipende da dinamiche internazionali ed europee che andrebbero affrontate in modo sistematico agendo sugli incentivi finanziari e i meccanismi premiali a cui sono attualmente sottoposte le università.
L’articolo 7 potrebbe essere alleggerito, ad esempio limitandosi a istituzionalizzare gruppi di consulenza terminologica come Incipit (limitatamente ai termini di recente ingresso nella lingua) e favorire la diffusione e l’utilizzo di banche dati terminologiche già esistenti, sul modello elvetico. Più che usare strumenti di politica linguistica di rigida natura regolamentativa, in materia di scelte lessicali è preferibile usare strumenti indiretti di natura informativa e persuasiva, cioè meccanismi che promuovano la conoscenza e l’uso di basi dati terminologiche aggiornate per chi ha bisogno di cercare rapidamente l’equivalente italiano di un forestierismo (se esiste). Più che imporre il termine italiano, quindi, sarebbe più utile porlo a un livello di visibilità e legittimità simbolica del termine straniero, lasciando poi all’uso corrente il compito di determinare, attraverso il referendum quotidiano delle scelte linguistiche della popolazione, la libera evoluzione del linguaggio.
1 Commento
Lorenza Ingrid Camarda 30 Agosto, 2023
Sono laureata in lingue e letterature straniere, in filologia germanica nel 2006 con una tesi sulle caratteristiche fonomorfologiche dei dialetti walser in Italia presso la G.D’Annunzio di Pescara.
Sono d’accordo con l’opinione espressa in merito alle lingue scandinave, molto conservative. Ho un particolare interesse verso queste lingue germaniche, grazie agli studi linguistici universitari, conoscendo brevi accenni.
Si potrebbe parlare di tutela non soltanto per le lingue ufficiali, ma anche per i dialetti che si usano ancora oggi in Italia. Mi riferisco ai dialetti walser, che sono ancora in uso specialmente tra la popolazione anziana, dialetti tedeschi di tipo alemanno, che hanno origine dal nome stesso walliser cioè vallesano, del Vallese svizzero. I gruppi walser si stabilirono in queste sedi nel XIII secolo, sfruttando le loro abilità di boscaioli, costruttori e allevatori. L’intensa emigrazione dell’800 e del 900 non ha del tutto scalfito la lingua e le tradizioni del luogo, parlate a Macugnaga, Alagna Valsesia, grazie anche alla presenza di elementi franco-provenzali. Qui i due gruppi vivono da diverso tempo dando la possibilità ed il modo di proteggere le tradizioni linguistiche. Il vasto movimento di migrazione dei coloni germanici del wallis è stato un fenomeno che ha interessato tutto il Medioevo nelle zone della Svizzera sud-orientale, Liechtenstein, Austria Occidentale e Italia nord- occidentale, Piemonte e Valle D’Aosta. Le condizioni di assoluto isolamento, con qualche breve spazio turistico, ha contribuito alla loro originalità, ma non solo, ha contribuito ad una fase di arricchimento di bilinguismo, dando molto spazio alla lingua italiana e ai dialetti neolatini limitrofi di tipo franco-provenzale e galloitalico. Il walser fa parte dell’alemanno superiore e presenta caratteristiche e isoglosse all’interno dell’area dialettale o alemannica meridionale che include tutto il territorio elvetico tedesco. Queste caratteristiche investono ogni ambito fonetico, linguistico, lessicale, morfologico mostrando sia un certo livello di conservatività, rispecchiando a volte aspetti dell’alto tedesco antico e a volte una tendenza all’innovazione rispetto all’area di riferimento. Le caratteristiche appena enunciate pongono questi dialetti in una posizione speciale tra conservazione ed innovazione facendo in modo che ogni lemma rientri in questa realtà. Questi dialetti sono ancora oggi considerati come varietà usata per le interazioni di tipo familiare o amichevole, mentre le giovani generazioni usano questo dialetto in maniera ridotta.
Vorrei poter far parte del vostro gruppo, esprimendo il mio parere sui diversi argomenti che
proporrete, e ringraziando della vostra attenzione porgo distinti saluti
Camarda Lorenza Ingrid
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