Diego Poli
Già Università di Macerata
L’uomo si sforza ancora di riacquistare quei doni di cui la sua colpa l’ha privato, e come ha reagito alla prima maledizione universale con l’invenzione di tutte le arti, alla seconda maledizione universale, che fu la confusione delle lingue, ha cercato di opporsi con l’arte della grammatica (Francesco Bacone)
Nel De vulgari eloquentia, la perdita della lingua edenica (forma locutionis, DVE i vi,4-7) causata dalla confusione babelica, ha prodotto l’annullamento della unità linguistica dell’umanità che Dio stesso aveva concreato nell’anima di Adamo. La drammatica frattura verificatasi con il Creatore provoca lo scioglimento dei legami di solidarietà fra gli uomini i quali, da questo momento, entrano nella storia suddivisi in gentes e in volgari, ciascuno dei quali è specifico per ognuna delle stirpi che sono sorte quando la perfezione iniziale è andata a dissolversi nel caos linguistico dovuto al peccato.
In Italia la pluralità di volgari, che Dante racchiude nel simbolico numero di sette collocati a oriente del giogo appenninico e di altri sette per il giogo occidentale, rivela un quadro caratterizzato dalla mancanza di riferimento a un modello normativo unitario che determina il prevalere dei localismi municipali. Emerge da ciò la ineludibile necessità che la penisola ricorra agli insegnamenti di una scola.
La condizione di incomunicabilità che si è infatti ingenerata può essere superata attraverso due opposte strategie. La prima è quella della gramatica, “pane di frumento” per i litterati, che trasmette i propri saperi per via di una circolarità selettiva. Accanto a questa c’è la strategia di ricorrere al volgare illustre, “pane […] sufficientemente purgato dalle macule e dall’essere di biado” per gli illitterati (Convivio i xiii,11), per il cui mezzo viene a essere favorita la diffusione delle conoscenze trasmessa da una ben specificata cerchia di professionisti identificati nei doctores, auctores, magistri. Il volgare illustre si fregia ancora degli attributi di “cardinale”, di “aulico” e di “curiale”. Fra i primi e sommi doctores figurano Aristotele, che è “mio maestro” (Cv i ix,9) e Virgilio, “lo mio maestro e ’l mio autore” (If i 85).
Tuttavia sarà Dante stesso a essere cooptato nella “bella scola” da parte dei cinque sommi Poeti dell’Antichità che, nell’annoverarlo come “sesto fra cotanto senno” (If iv 94 e 102) lo introducono alla sublime categoria dei doctores. La bella scola rappresenta il luogo deputato a guidare la materia linguistica verso l’ideale di luminosità che sarà proprio “del bel paese là dove ’l sì suona” (xxxiii 80), ovvero di quello spazio che sarà convergente verso la medesima lingua allorquando i volgari nei quali è suddivisa l’“Italia bella” (xx 61) saranno ricondotti all’unità attraverso l’operazione con cui i doctores si accordano sulle regole da applicare (conventio) per il ritrovamento (inventio) di quello che sarà il volgare illustre.
Nei quasi coevi De vulgari eloquentia (ca. 1304-05/06) e Convivio (ca. 1304-08), Dante chiarisce le condizioni pragmatiche e la missione della gramatica e del volgare illustre. La prima, pur apportando il vantaggio di sfuggire alle barriere del tempo e dello spazio, è uno strumento posseduto da una componente limitata di uomini; ne viene ricercato il succedaneo nel volgare illustre ideato per i nobili illitterati, affinché possano occuparsi degli ‘argomenti sommi’ (“illa magnalia”) riguardanti ‘salvezza, amore, virtù’ (salus, venus, virtus, DVE ii ii,7)
Si può interpretare l’operazione di progressiva estensione della facoltà di formazione del prodotto linguistico che dalla gramatica si riflette sui volgari illustri come una endo-grammaticalizzazione, dove la grammatica (del latino) è una meta-grammatica: nella ‘gramatica’ di cui tratta Dante, la componente formale (ratio) permette di ‘ritrovare’ (invenire) le regole di procedura da applicare alla realtà linguistica da ‘istituire’ (instituere) come volgare illustre.
La dimensione pubblica dell’instituere indica la graduale costruzione di un impianto cognitivo dotato di stabilità. La lingua viene considerata nell’alveo della concezione logica aristotelica, per cui essa è posta come l’immediato riflesso di un mondo di concetti e di cose già dato per convenzione (katà synthḗ́kēn = ex instituto).
La contrapposizione fra pluralità e unità è il principio fondante l’intera teoresi dantesca e ad essa sono collegate le correlazioni fra naturalità e convenzione e fra fenomenologia e astrazione. Nella bipolarità dialettica del pensiero della Scolastica, la caratterizzazione dell’unità si ripropone, per analogia con il metodo scientifico, nella procedura della reductio ad unum che si applica a qualunque altra disciplina: “omnia que sunt unius generis reducuntur ad unum” / ‘tutte le cose che appartengono al medesimo genere devono essere ricondotto a unità’ (Monarchia iii xii,1); “in omni genere rerum unum esse oportet quo generis illius omnia comparentur et ponderentur” / ‘in ogni genere di cose deve essercene una sulla quale tutte le altre appartenenti al medesimo genere si confrontano e si commisurano’ (DVE i xvi,2); “unicus principatus” / ‘principato di uno solo’ (Mon i ii, 2); “totum humanum genus ordinatur ad unum» / ‘tutto il genere umano è ordinato a un solo fine’ (i v, 9). L’unità è la radice della bontà, mentre al contrario la molteplicità è la radice del male, tant’è che “peccare nichil est aliud quam progredi ab uno spreto ad multa” / ‘peccare non è altro che disprezzare l’uno per tendere al molteplice’ (i xv, 2-3).
Anche la costruzione della torre si configura come la volontà degli uomini di darsi un idolo assumendolo a simbolo dell’unità che essi devono ricercare con Dio; per questo la confusione avvenne nello strumento di comunicazione, in modo da impedire che il lavoro congiunto si finalizzasse all’iniquo proposito. Sicché i volgari sorsero come varietà di specializzazione proprie per ogni singolo lavoro e, per sommo di punizione, “quanto più qualificato era l’impegno nell’opera, tanto più rozza e barbarica diviene la lingua che cominciarono a parlare” all’interno del gruppo (DVE i vii,7)
Il ‘cum-venire’ di folla, che nella dimensione teologica degli Atti degli Apostoli (“facta autem hac voce convenit multitudo” 2, 6) riassume nell’evento della Pentecoste il ritorno all’unità linguistica perdutasi con la confusione di Babele (Genesi 11 1-9 riassunto in If xxxi 77-78: “questi è Nembrotto, per lo cui mal coto [‘pensiero’], / pur un linguaggio nel mondo non s’usa”), è reso nella prospettiva retorico-grammaticale di Dante come il “convenire” dei doctores.
Attraverso la conventio l’umanità recupera l’unità perdutasi a Babele riuscendo a superare gli effetti della lacerazione provocata dal peccato: “quidem convenientia ipsi confusioni repugnat que ruit celitus in edificatione Babel” / ‘una pattuizione che ripugna alla confusione stessa abbattutasi dal cielo durante la costruzione di Babele’ (DVE i ix,2).
Così come la Pentecoste ha permesso di “in-venire” la Fede, l’accordo fra i doctores porta a una “in-ventio” nell’ambito cognitivo, risultando in un nuovo aspetto del corpo dottrinario cercato attraverso l’agire mentale: la ars inveniendi degli argumenta. Il prodotto del convenire dei doctores, ovvero la gramatica e i volgari illustri, è l’atto di inventio come è in più luoghi ribadito: “inventores gramatice facultatis […] adinvenerunt ergo illam” (DVE i ix,11); “gramatice positores inveniuntur” (i x,1); “quicquid redactum est sive inventum est ad vulgare prosaycum” (i x, 2).
In tale quadro, la lingua è uno stato della comunicazione in costante oscillazione fra un principio ‘naturale’ di modificazione progressiva, e un principio ‘artificiale’ di normazione stabilizzante. I volgari d’Italia, che ogni bambino apprende per trasmissione diretta secondo le coordinate del proprio essere in rapporto alla specificità del luogo e del tempo, rientrano nella catena evolutiva del divenire storico e sono altro rispetto alla gramatica, elaborata dagli antichi doctores, e al volgare illustre, creato dai doctores contemporanei, in emulazione dell’esempio fornito dall’impianto costitutivo della grammatica.
Virgilio aveva scritto nel codice della gramatica perché egli si era, come Dante, sottoposto al tirocinio formativo delle arti del trivio e del quadrivio nella scola; ma questi è riconosciuto per il suo volgare – né Farinata né tantomeno il conte Ugolino hanno dubbi sulla sua identità fiorentina (in If x 25-27 e xxxiii 10-12) –, e quello, nativo di Mantova, si caratterizza per tratti appartenenti al volgare lombardo (in If xxii 99, xxvii 21 e Pg vi 73-75).
Rispetto alla organicità dei volgari, che seguono le leggi di mutamento e di trasformazione proprie della natura, la grammatica e il volgare illustre sono strumenti elaborati ‘secondo arte’ e pertanto oggettivati dalla stipula di un accordo convenzionale che li mette al riparo dall’arbitrio del soggettivismo. A pena della totale incomprensione che viene provocata dal meccanismo dei volgari, l’arbitrarietà si pone in contrasto con il valore aggiunto dell’intesa fra gli intellettuali che si servono della lingua come dello strumento della cognizione.
Se, dunque, nel piano della pragmatica i volgari rappresentano la comunicazione della consuetudine quotidiana – tale è di fatto il significato del termine latino vulgaris –, il loro livello di organizzazione è instabile in quanto essi sono soggetti al costante mutamento dei segni linguistici componenziali (signa) affidati al continuato esercizio dell’arbitrio – in diverso modo denominato: arbitrium, beneplacitum, ad placitum, localis congruitas, lo beneplacito, lo piacere uman, secondo che v’abbella.
Il comportamento del genere umano produce continue dissolvenze nelle relazioni fra la duplice natura del segno, che è quella sensuale = ‘significante’ unita alla rationale = ‘significato’ (“signum […] nam sensuale quid est, in quantum sonus est; rationale vero, in quantum aliquid significare videtur ad placitum” / ‘il segno infatti è qualcosa di sensibile in quanto è suono, ed è qualcosa di razionale in quanto evidentemente significa in maniera arbitraria’ DVE i iii,3), procurando per conseguenza ogni volta la sua modifica in base alla facoltà del libero arbitrio, che è una “innata libertate” (Pg xviii 68), per cui l’uomo, pur sottoposto alla forza divina, conserva la possibilità di scegliere (come viene riassunto dall’ossimoro “liberi soggiacete” xvi 80).
Sul piano dell’intervento operato dalla scola, invece, la pattuizione dei doctores ha l’effetto di saldare le due facce del signum in un rapporto inalterabile, permettendo la realizzazione di un codice cognitivo che nell’antichità si conformò nello strumento della gramatica e nella contemporaneità di Dante si ripropone attraverso gli eloquentes e trilingues doctores nella realizzazione del volgare illustre d’Italia all’interno della tripartita solidarietà dell’oc, sì, oïl: “convenimus in vocabulis multis […] in multis conveniunt, et maxime in hoc vocabulo quod est ‘amor’” / ‘ci si accorda in molti vocaboli, concordano in molti vocaboli e soprattutto in questo che è ‘amore’’ (DVE i ix, 2-3).
La corruttibilità del parlato è in opposizione con la formalizzazione conquistata dai doctores, e infatti la fissazione della lingua è raggiunta allorquando la schola interviene affinché il volgare, che è “non stabile e corruttibile” (Cv i v,7), divenga illustre nell’“acconciare sé a più stabilitade” (i xiii,6).
Se pertanto la instabilità e la variabilità sono implicite nei volgari naturali, che sono generati dalla libertà dell’uomo (“humanis beneplacitis localique congruitate nascuntur” DVE i ix,10), a tal punto che, nella dimensione anche micro-territoriale, i Bolognesi di San Felice discordano da quelli di Strada Maggiore e, nella prospettiva micro-temporale, gli attuali Pavesi non sarebbero in grado di condurre un colloquio con i loro predecessori (i ix,4 e 7), la convenzionalità permette alla grammatica di munirsi delle condizioni di inalterabilità e di identità rispetto al tempo e ai luoghi (“gramatica nichil aliud est quam quedam inalterabilis locutionis ydemptitas diversibus temporibus atque locis”), essendo, questa, regulata dal consenso comune (“de comuni consensu multarum gentium […] Adinvenerunt ergo illam”), e quella, invece, esposta alla variazione dei singoli arbitri (“singulari arbitrio […] propter variationem sermonis arbitrio singularium fluitantis” i ix,11).
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